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Supertangente Eni in Nigeria. La versione di Armanna, il grande accusatore

Supertangente Eni in Nigeria. La versione di Armanna, il grande accusatore Foto Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Roma Economia Trasmissione tv "In Mezz'Ora" Nella foto Claudio Descalzi (ad Eni) Photo Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Rome (Italy) Tv program "In Mezz'Ora" In the photo Claudio Descalzi (ceo Eni)

Personaggi da romanzo, da grande intrigo internazionale, quelli che sfilano al processo milanese Eni-Nigeria. O da film con George Clooney, che sarebbe perfetto per interpretare Ednan Agaev, diplomatico russo, uomo dei servizi segreti, poi intermediario con il governo nigeriano per conto di Shell, alleata di Eni nell’affare in cui – secondo l’accusa – è stata pagata una super-tangente da 1,092 miliardi di dollari su complessivi 1,3 miliardi versati nel 2011 da Eni e Shell per ottenere la licenza per l’esplorazione dell’immenso campo petrolifero Opl 245.

Quale attore potrebbe invece rivestire i panni di Vincenzo Armanna? È il personaggio più enigmatico di questo plot internazionale che vede all’opera ministri, presidenti, spie, manager, mediatori, affaristi, intermediari, finanzieri, portaborse, faccendieri. Dirigente infedele cacciato dall’Eni perché faceva la cresta sulle note spese. Uomo d’azienda (“Da Eni non si esce mai”) che si oppone alla violazione delle regole della compagnia nell’affare nigeriano. Imputato per aver intascato una parte della super-tangente (1,2 milioni di dollari). Uomo con buoni contatti con i servizi segreti italiani, israeliani e americani. Giustiziere che nel 2014 denuncia per corruzione i vertici Eni ai magistrati di Milano, e poi nel 2016 ritratta.

Chi è davvero l’enigma Vincenzo Armanna? È comparso come testimone-imputato al processo di Milano il 17, 22, 23 e 24 luglio. Ne è uscito a pezzi, secondo Eni (e molti giornali al seguito), smentendosi e contraddicendosi. Ma è davvero andata così? Proviamo a raccontare Armanna secondo Armanna, come esce dalle quattro udienze in cui ha risposto alle domande di pm, giudici, avvocati.

Nel 2010, quando questo intrigo nasce, Vincenzo Armanna è un manager Eni che vive in Nigeria. Risponde direttamente al capo della compagnia petrolifera nel Paese africano, Roberto Casula. Ha, sopra di lui, l’allora capo Esplorazioni, Claudio Descalzi, e l’amministratore delegato, Paolo Scaroni. “In Nigeria ero un’antenna per Eni, siamo quattro o cinque al mondo a fare questo lavoro”. Vede con i suoi occhi le lunghe trattative per Opl 245, un campo d’esplorazione che vale almeno 2 miliardi di dollari.

Vede anche che nelle trattative s’infila subito un intermediario nigeriano, Emeka Obi, che pretende 200 milioni di dollari di commissione. Rappresenta il governo della Nigeria? No. Rappresenta l’ex ministro del petrolio Dan Etete, il vero padrone di Opl 245, che aveva concesso il giacimento alla società Malabu, cioè a se stesso? Neppure. Prima sorpresa: Obi rappresenta gli italiani. Dan Etete fa addirittura una scenata, a una riunione, perché lui non ha dato alcun mandato a Obi.

“Descalzi mi disse che Obi rappresentava Scaroni”, racconta Armanna. Ed era stato scelto da un grande amico di Scaroni, Luigi Bisignani, ex P2 ed ex tante altre cose. Forse Descalzi avrebbe fatto volentieri a meno di Obi, ma non poteva escluderlo dalla partita: perché Scaroni era il capo; perché “aveva paura delle campagne di stampa di Bisignani”; e perché “temeva che poi Bisignani lo ostacolasse nella nomina a numero uno di Eni” (Descalzi diventa in effetti amministratore delegato nel maggio 2014).

Armanna non infierisce su Bisignani: “amico da molti anni”. Ma ribadisce che Obi chiede 200 milioni “per gli italiani” e che rappresenta Scaroni e Descalzi. Poi non è chiaro su come dovessero essere divisi quei soldi. La mediazione di Obi poteva valere 5 o 10 milioni, eppure Armanna dice che i 200 dovevano essere “tutti per Obi, salvo una quota irrisoria sui 20 milioni per Bisignani e Di Nardo”, l’altro mediatore italiano. Racconta che Bisignani gli ha chiesto di mandare una nota su Obi a Scaroni. Finora aveva detto di non aver scritto anche la cifra dei 200 milioni. In aula si corregge: “Scrissi la cifra, ma a mano, in matita, così poi Scaroni poteva cancellarla”. Un modo per far arrivare un’informazione delicata solo al capo.

Dopo mesi, la mediazione Obi salta. Era davvero improponibile dare 200 milioni a un intermediario che non aveva alcun mandato dal venditore (né quello formale, Malabu, né quello reale, Obi). Cambia lo schema. Nuovo mediatore diventa Gianfranco Falcioni, imprenditore italiano in affari con Eni in Nigeria. E l’operazione, prima apertamente indecente, diventa “safe sex” fatto “con il condom”, scrive l’Economist già nel 2012: Eni nel 2011 paga 1,092 miliardi di dollari su un escrow account di JpMorgan a Londra su cui opera il governo della Nigeria, che poi provvede a distribuirli ai conti nigeriani di Malabu per farli arrivare – secondo il pm Fabio De Pasquale – a Dan Etete, al presidente della Repubblica Goodluck Jonathan, ad altri politici e mediatori nigeriani.

Una parte, conferma Armanna, torna agli italiani di Eni. Glielo racconta Victor, il potente capo della sicurezza della villa del presidente, il Quirinale nigeriano: 50 milioni in banconote da 100 dollari sono stipati in due trolley e portati a casa di Roberto Casula. Eni aveva cantato vittoria quando, sei mesi fa, fu interrogato in aula Victor Nwafor, che disse di non saperne niente e di non aver mai visto né trolley, né Armanna. Ma era il Victor sbagliato: era soltanto “un bodyguard”.

Il Victor giusto e le sue rivelazioni, spiega Armanna, possono essere confermati da un testimone, “un colonnello del Mossad”, e da Salvatore Castilletti, un agente dell’Aise, il servizio segreto italiano dell’estero con cui Armanna aveva rapporti, per il suo lavoro in Nigeria che aveva a che fare anche con la sicurezza dei manager italiani e perché “mio padre aveva contatti con l’allora direttore dell’Aise Alberto Manenti”.

Dai servizi italiani, dice, “ho anche ricevuto l’indicazione di quale dirigente di una banca estera sarebbe potuto essere sensibile alla ricezione di lettere anonime”. Sì, perché Armanna ne scrive una al capo della compliance della Bsi in Svizzera, a cui sta per arrivare il malloppo da Londra. Bsi infatti blocca il maxibonifico per sospetto riciclaggio e rimanda indietro i soldi, poi respinti anche da una banca libanese e infine girati in gran parte (800 milioni) da JpMorgan su conti Malabu in Nigeria. Qualcosa arriva anche ad Armanna: 1,2 milioni di dollari. Da lui spiegati prima come “l’eredità del padre”, poi come proventi di altri affari. In aula ammette: “È vero, dichiarai una cosa parzialmente vera”.

L’aria al processo si surriscalda quando l’accusa deposita atti che vengono da un altro procedimento (quello sul cosiddetto complotto che l’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara avrebbe ordito insieme ad Armanna, giocando di sponda tra le Procure di Trani e Siracusa, per depotenziare le indagini dei magistrati milanesi su Eni in Nigeria e in Algeria). Amara, arrestato nel febbraio 2018 per corruzione, dopo un’indagine delle Procure di Roma e Messina, cambia fronte e parla. In una memoria sostiene che il numero due di Eni, Claudio Granata, avrebbe fatto pressioni su Armanna nel 2016 per fargli ritrattare le accuse di corruzione che aveva mosso a Descalzi quando nel 2014 era andato alla Procura di Milano a raccontare delle tangenti nigeriane.

Le difese s’indignano. Ma Armanna conferma l’esistenza del “patto della Rinascente” stretto nel 2016 dopo un paio d’incontri con Granata nei pressi del grande magazzino milanese: “Granata, per conto di Descalzi, mi ha chiesto se potevo fare una memoria in cui eliminavo la corruzione in relazione a Descalzi stesso. Granata mi ha dato un foglio di carta con su scritti alcuni punti della memoria. E io li ho copiati. Quindi la memoria in parte l’ho scritta io e in parte, in particolare ai punti F1, F2 e F3, l’ho trascritta. Questa memoria l’ho depositata in Procura a Milano il 26 maggio 2016. In cambio, mi fu offerto il rientro in Eni”.

Armanna accetta il patto. Cambia linea, tanto che il suo legale, l’avvocato Luca Santa Maria, abbandona la sua difesa. Armanna pretendeva infatti che Santa Maria presentasse un’istanza alla Procura di Milano per chiedere di acquisire il fascicolo, che all’epoca era ancora segreto, sul “complotto” farlocco su cui stava indagando la Procura di Siracusa. L’avvocato si rifiuta e rinuncia alla difesa. (Un’istanza analoga la presentano gli avvocati di Eni. Strano, pensa il legale: come fanno a sapere dell’esistenza di un fascicolo ancora segreto?).

Armanna, con il nuovo difensore, scrive la sua nuova versione per la Procura di Milano, dopo aver ricevuto indicazioni sui tre punti da inserire attraverso la app Wickr, i cui messaggi si autodistruggono, da Gierre (Granata) e Zorro69b (Amara). Obiettivo: “Minare i verbali su Descalzi nei passi sulla corruzione”, spiega Armanna in aula. “Ne ho parlato in due incontri anche con l’avvocato Michele Bianco”, il capo staff processi di Eni. Bianco è presente in aula: “Ma cosa dice?”, urla paonazzo, “Ma quando? Ma dove?”. Eni smentisce e querela: Armanna per diffamazione e Amara per calunnia. La compagnia ripete di aver versato i soldi per Opl 245 su un conto del governo nigeriano e di non essere responsabile dei successivi passaggi del denaro.

Poi, alla terza udienza dell’interrogatorio di Armanna, il 23 luglio, Eni sfodera la sua “arma fine di mondo”: il difensore di Casula, Giuseppe Fornari, dice di aver rintracciato una annotazione della polizia giudiziaria di Torino che contiene stralci della registrazione di un colloquio del 26 luglio 2014 fra Armanna e altre tre persone che, secondo le difese, proverebbe che le dichiarazioni dell’ex manager non sono genuine.

L’avvocato di Eni, Nerio Diodà, si unisce alla richiesta di Fornari di mettere a disposizione quella intercettazione. Nel processo entra così una registrazione audio e video acquisita agli atti dell’altro procedimento, quello sul cosiddetto complotto: nel video, Armanna (registrato a sua insaputa, probabilmente proprio per usare quel video contro di lui), riferendosi ad alcuni manager Eni dice ad Amara che: “È meglio se li tolgono… perché sono stati pesantemente coinvolti nella (Opl) 245 e non escluderei che arrivi un avviso di garanzia… mi adopero perché gli arrivi”. E ancora: su Eni sta per arrivare “una valanga di merda”.

In realtà Eni già conosceva quel video almeno dal febbraio 2018 (quando la Procura di Milano depositò la trascrizione per affrontare il riesame di Massimo Mantovani, ex capo del settore legale di Eni indagato nel procedimento sul “complotto”). Ma solo ora le difese – con mossa più mediatica che processuale – scoprono che è la prova di un altro complotto, ordito contro la compagnia e i suoi manager, che toglie ogni credibilità ad Armanna.

Il giorno dopo, 24 luglio, l’udienza è dedicata al controinterrogatorio: è il momento in cui le difese potrebbero far entrare nel processo la non attendibilità di Armanna. Ma, a sorpresa, rinunciano a fargli domande (con stupore dei colleghi avvocati americani di Shell). La mossa potrebbe essere processualmente suicida, ma è mediaticamente efficace: i giornali si concentrano sul video e non sul fatto che l’altalenante Armanna infine conferma le sue accuse: è il solo pm Sergio Spadaro a “controinterrogare” Armanna, dopo la rinuncia indignata delle difese.

E Armanna conferma e spiega. Ammette di aver sbagliato, in “un momento di emotività”, la data del suo primo incontro con Amara. Spiega che l’incontro intercettato faceva parte della trattativa che Amara stava conducendo con lui per fargli ritrattare le sue accuse a Eni. Spiega che la “valanga di merda” era riferita alle informazioni sull’affare nigeriano che in quel periodo stava passando ad alcuni giornalisti.

Così Armanna conclude la sua deposizione. Attendibile? La sua credibilità è già stata accertata in una sentenza dalla giudice milanese Giusy Barbara: è la “attendibilità frazionata” dei pentiti di mafia, per esempio, che possono aver fatto le peggio cose ma sono credibili quando le loro dichiarazioni sono confermate da altri elementi di prova. Il processo continua.

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Il Fatto quotidiano, 31 luglio 2019 (versione modificata)
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