PERSONE

Gli occhi della Medusa uccidono. Vita gloriosa e morte misteriosa di Gianni Versace

Gli occhi della Medusa uccidono. Vita gloriosa e morte misteriosa di Gianni Versace

C’è anche un uccello morto in questa storia. Una colomba (“Morning dove”, dicono i rapporti di polizia) trovata stecchita – davvero – accanto al corpo di Gianni Versace: un particolare che neppure il miglior scrittore di thriller avrebbe saputo inventare. Potrebbe essere un perfetto avvertimento in stile mafioso, lasciato lì per far capire a chi deve capire.

Non è l’unico animale morto in questa storia. Mi racconta Roger Falin, l’albergatore del Normandy Plaza Hotel dove il giovane Andrew Phillip Cunanan abitò per due mesi prima di correre a uccidere Versace: «La stanza di Cunanan, al terzo piano, ha la finestra che guarda su un piccolo laghetto, nel giardino sul retro dell’albergo. Ebbene, sarà un caso, ma nel periodo in cui Cunanan visse qui, in quel laghetto hanno smesso di vivere dieci pesci rossi e due tartarughe». Leggende di morte.

Sono passati ormai alcuni anni da quel giorno del 1997 in cui Versace è stato ucciso a Miami Beach da due proiettili sparati da una strana pistola calibro 40. Ora c’è un’attrazione in più su Ocean Drive, capace di scatenare i flash dei turisti più delle architetture déco del Clevelander o dei neon azzurri dell’hotel Colony. Sono le meduse dorate della grande casa Casuarina di Gianni Versace a Miami Beach, sono i cinque gradini di pietra dove lo stilista è caduto, in una pozza di sangue.

Anche se i Versace l’hanno ormai venduta, i turisti passano di qui per farsi scattare, dopo aver impostato un sorriso, la foto ricordo sul luogo del delitto. Famiglie che vengono dall’America latina, belle ragazze con scollature pericolose, bei ragazzi mano nella mano, coppie italiane in Lacoste, americani sui rollerblades e mille altri tipi di varia umanità: tutti qui, dove è stato ucciso il famoso stilista italiano, scena finale di una storia sbagliata.

Proprio qui, dove c’era la macchia di sangue, sui gradini. Dove c’erano i fiori, le candele accese. Ora restano i flash delle foto ricordo. Poco più in là, nella veranda affacciata su Ocean Drive del ristorante I Paparazzi, resta una grande fotografia di Versace in una vistosa cornice dorata, con la scritta: “I Paparazzi will miss you. 1946-1997”. Ci mancherai, Gianni.

Una storia sbagliata. Con una vittima incolpevole, un assassino senza movente, cento buchi neri nelle spiegazioni ufficiali. Certo che se esiste al mondo un posto dove questa storia sbagliata può essere accaduta, questo posto è Miami Beach. Dunque proprio qui, la mattina di martedì 15 luglio 1997, uno sconosciuto ragazzo ventisettenne di nome Andrew Phillip Cunanan, già ricercato per quattro omicidi, avvicina un uomo, scambia con lui qualche parola, estrae una Golden Saber calibro 40 e gli spara due colpi alla testa.

Cade a terra il noto stilista italiano che sta rientrando in casa a piedi dopo essere stato al vicino News Cafe a fare colazione e a comprare riviste (New Yorker, Newsweek, Vogue, Entertainment, People). Messi a segno i suoi colpi, Cunanan scappa, minacciando con la pistola i passanti. Due isolati più a nord si infila in un parcheggio pubblico, anch’esso, benché un po’ scrostato, arricchito in alto dai suoi bravi fregi déco.

Rifaccio lo stesso percorso, di corsa, in pochi minuti. Poi entro nell’ascensore, un cassone lucido e maleodorante. Il custode non mi vede neppure. Al terzo piano esco e mi dirigo a sinistra, nel settore B, dov’era parcheggiato il pickup Chevrolet rosso che Cunanan aveva rubato a una delle sue vittime precedenti. Ora al posto del camioncino dove Cunanan si cambiò d’abiti dopo il delitto è parcheggiata una Toyota Corolla. Poi di Cunanan si perdono le tracce.

Fino a mercoledì 23 luglio, quando un settantunenne immigrato portoghese, Fernando Carreira, custode di una casa galleggiante sull’Indian Creek da tempo disabitata, sente uno sparo che viene dalla houseboat, si spaventa, scappa, poi lancia l’allarme. In breve la Collins Avenue, la via lunghissima che attraversa tutta Miami Beach e che per un tratto è costeggiata dall’acqua dell’Indian Creek, è bloccata da centinaia di poliziotti, appartenenti ad almeno quattro diverse agenzie: la polizia di Miami Beach, la polizia della contea di Dade, l’FBI, le teste di cuoio dello Swat Team.

Dall’acqua, sull’Indian Creek, arrivano i motoscafi e i sommozzatori della polizia. Dopo due ore, un assedio pesante e un assalto da telefilm a una casa abitata soltanto da un cadavere con la faccia spappolata, l’annuncio: nella houseboat è stato ritrovato il corpo dell’assassino di Versace, Andrew Phillip Cunanan, suicida. Il caso è risolto.

Davvero? Un mese dopo, ammisero le polizie coinvolte, il caso era ancora aperto. «Abbiamo due inchieste in corso, una sulla morte di Versace, una su quella di Cunanan. Ci lavoriamo ventiquattr’ore su ventiquattro, divisi in due squadre» mi disse Alfred R. Boza, ufficiale della polizia di Miami Beach. «Le investigazioni federali proseguono» dichiararono secchi al quartier generale dell’FBI di Miami. «Abbiamo molte domande ancora senza risposta» affermò Rosemarie Antonacci, il magistrato dello State Attorney’s Office di Miami che si occupava del caso. La storia sbagliata Versace-Cunanan era restata un pasticciaccio brutto ancora tutto da sgomitolare.

Realtà e finzione

Gli autori abituati ad avere Miami Beach come sfondo per le loro storie – un John Katzenbach, un Charles Willeford, un Carl Hiansen (quello di Striptease) – avrebbero certo ribaltato questo giallo sbagliato, che non riesce a convincere, che fa acqua da tutte le parti. Cunanan semina prove che lo incastrano. Lascia, al terzo piano del grande parcheggio déco, non solo il camioncino rosso che aveva rubato alla sua ultima vittima, William Reese, dopo averlo ucciso, ma anche altri oggetti e il suo passaporto.

È il capitolo finale della storia, però, quello meno convincente. Perché mai un giovane, armato, che ha già ucciso cinque persone, che dunque non ha più niente da perdere, si fa spaventare da un vecchio guardiano che scappa al primo rumore, abbandonando nella houseboat addirittura la sua pistola calibro 38 (come mi confermò il poliziotto Alfred Boza)?

Perché l’allarme, generico, lanciato da Carreira, che neppure vede in faccia chi c’è nella casa galleggiante, viene preso tanto sul serio da far concentrare immediatamente gli uomini di quattro diversi corpi di polizia sulla riva dell’Indian Creek? Perché due ore d’assedio armato con grande assalto finale a una casa in cui vi è soltanto un uomo morto? E perché, infine, solo dopo cinque lunghissime ore la polizia comunica che nella casa galleggiante è stato ritrovato il corpo senza vita di Cunanan?

Katzenbach o Hiansen avrebbero di certo inventato un’altra trama, avrebbero messo in campo altri personaggi. Un killer mandato da qualche mafia, per esempio, a regolare conti segreti. Cunanan, il serial killer amante delle maschere in latex e dei riti sadomaso, sarebbe stato poi offerto come il colpevole perfetto, servito già morto nella casa galleggiante sull’Indian Creek a quattro polizie litigiose e ben contente di chiudere il caso.

Forse oggi risentiamo dell’influenza dell’archetipo di tutte queste storie, l’affaire Kennedy-Oswald. Forse amiamo troppo i complotti. Certo è che anche David Satterfield, il capo della cronaca cittadina del quotidiano di Miami, il Miami Herald, non nascose i suoi molti dubbi: «In questa storia vi sono coincidenze incredibili e molte stranezze» mi disse subito dopo l’omicidio. «Perché la famiglia Versace non ha fatto entrare in casa la polizia per due giorni, dopo l’assassinio? E come è davvero avvenuto l’assalto finale alla casa galleggiante? Quel giorno, alle 15 mi sono arrivate le prime segnalazioni, qui al giornale; alle 20 la polizia ci ha detto di non aver trovato nessuno all’interno, tanto che ho deciso di lasciare il giornale e andare a casa; alle 23, ormai in poltrona, sento alla tv che invece nell’houseboat è stato ritrovato il corpo di Cunanan.»

Ma la pista mafiosa è soltanto una possibile esercitazione letteraria, in questa città dove non esiste scarto tra realtà e finzione tv? Di rapporti pericolosi tra Versace e la mafia aveva scritto, nell’ottobre 1994, il supplemento domenicale del quotidiano britannico The Independent, che aveva pubblicato una lunga inchiesta della giornalista inglese Fiammetta Rocco. “Circolano voci che, come altri ricchi uomini d’affari del Meridione d’Italia, Versace sia in qualche modo legato alla mafia.”

L’inchiesta poneva alcune domande sulla Gianni Versace International NV, società olandese “il cui capitale è stato aumentato tredici volte, da 200mila a 55,4 milioni di fiorini, tra il marzo 1990 e il settembre 1993. Da dove proviene tutto questo denaro? E che cosa fa questa azienda?”. La famiglia Versace, invece di rispondere, portò in giudizio l’Independent, che alla fine fu costretto a smentire e a pagare un indennizzo.

In Italia fu invece Paolo Pietroni, ex direttore di Amica, inventore di giornali (Max, Sette, Specchio), autore (nascosto da uno pseudonimo) del romanzo Sotto il vestito niente, a rompere – per un giorno almeno – il clima d’omertà che circonda gli stilisti (sono grossi investitori pubblicitari: quale giornale oserebbe rischiare di perdere i molti miliardi dei budget della moda?). Conoscitore profondo e disincantato del fashion system, Pietroni affermò che la struttura internazionale del mercato della moda fornisce degli ottimi canali per costituire immense riserve di “nero” e anche per riciclare denaro sporco.

Era il settembre 1994, Antonio Di Pietro e il pool Mani pulite avevano appena chiesto l’incriminazione per corruzione dei maggiori stilisti italiani (che saranno poi assolti in appello). Allora Pietroni dichiarò al Corriere della Sera: “Se Di Pietro, seguendo il buon senso, si chiede come mai siano stati accumulati in dieci anni tali e tanti ricavi, giungerà a questo dilemma: o la moda italiana ha fatto miracoli, o copre un marcio inimmaginabile, il riciclaggio di denaro sporco, come nei casinò”.

Argomentava Pietroni: “Dei 44mila miliardi di denaro nero sbarcato in Italia da narcotrafficanti o mafia russa, almeno novemila sono gettati nella moda: è un settore favorevolissimo al riciclaggio, perché esporta molto. Il lavaggio è favorito dal sottobosco, tipicamente italiano, della pletora di piccole aziende di jeansinari, scarpari, di vestiti, che magari muoiono in silenzio e ricompaiono dopo qualche anno sotto altro nome”.

Quanto alle grandi firme, continuava Pietroni, “non so se, inconsapevolmente, c’entrino i Ferrè, i Versace, i Valentino in questo giro. Ma sicuramente anch’essi possono essere usati… Prendiamo un commerciante di Hong Kong che apra un bel negozio con soldi inquinati. Viene in Italia, ordina cento capi a un milione l’uno. Basta che ne venda la metà ed è già a posto. E il resto magari lo svende. Quando mai il venditore saprà di che odore o colore sono i soldi, ammesso che gli interessi?”.

Dopo l’omicidio di Gianni Varsace, Pietroni preferisce ridimensionare seccamente l’allarme lanciato nel 1994: “Fui frainteso: io mi riferivo al sottobosco, non al sistema della moda”. Stop. Pietroni non vuole più scrivere romanzi. Ma se uno dei nostri autori, un Willeford, un Hiansen, volesse rivisitare tutta la storia?

Prendiamo, dunque, un negozio Versace in Indonesia, o in Messico. Uno di quei negozi dove il giro d’affari è, in maniera apparentemente inspiegabile, altissimo, malgrado le condizioni di vita attorno. Mettiamo che Versace, in previsione della quotazione in Borsa, abbia deciso di fare chiarezza su conti troppo gonfi, e questa volta abbia mostrato di fare sul serio, fino a minacciare di interrompere i rapporti commerciali. Mettiamo che qualcuno non abbia gradito… (A Guadalajara, nuova capitale del narcotraffico, il fiorente negozio Versace del señor Misrachi è stato davvero chiuso, dopo molte chiacchiere.)

La trama potrebbe essere avvincente. Ma chi oserebbe sfidare – seppure, per carità, a colpi di fiction – il potere dei Versace, la loro capacità di influire sui bilanci pubblicitari (e quindi sui direttori) di centinaia di giornali in tutto il mondo? Il settimanale Newsweek, uno dei newsmagazine più autorevoli del mondo, ha tentato di fare un’inchiesta investigativa sul delitto Versace, da pubblicare a un anno dalla morte. Ha scatenato due dei suoi inviati, tra Stati Uniti e Italia. Risultato: l’inchiesta non è mai stata pubblicata, in compenso nel numero del 7 dicembre 1998 di Newsweek la copertina e il primo articolo di una particolare sezione speciale pubblicitaria è stata dedicata (a pagamento) a Donatella Versace.

Scuola di polizia

La polizia seguita a ripetere che le cose, invece, sono più semplici di come noi italiani le vogliamo vedere. Un serial killer gay, venuto dal profondo del sogno americano; due colpi di pistola all’uomo ricco e famoso che era tutto ciò che il killer non sarebbe mai diventato; un suicidio che pone fine a una folle corsa senza alcun traguardo.

FBI e polizia provano a smontare tutti i sospetti, a diradare tutti i dubbi. Abbiamo, dicono, molti testimoni dell’omicidio Versace, che hanno visto in faccia l’assassino, che l’hanno visto fuggire fino al garage déco: «Era Cunanan al cento percento» dichiara Alfred R. Boza, seduto nel suo piccolo ufficio nella sede della polizia di Miami Beach. «Abbiamo descrizioni che combaciano, rilasciate da testimoni sentiti separatamente. I nostri agenti in bicicletta [una specialità della polizia di Miami Beach, N.d.A.] sono arrivati immediatamente a Ocean Drive, sul luogo del delitto, prima ancora dell’ambulanza, che pure è giunta dopo soli quattro minuti. Da subito il ricercato per l’omicidio è stato Cunanan, tanto che durante i funerali di Versace, nella chiesa di Saint Patrick di Miami, abbiamo arrestato una persona che gli assomigliava come una goccia d’acqua: in realtà era un giornalista americano.»

L’uccello morto trovato sul luogo del delitto? Macché avvertimento mafioso: «È stato raggiunto dal frammento di uno dei proiettili sparati a Versace, deviato e spezzato dall’impatto contro la cancellata di casa Casuarina» assicura Boza. Questo sulla colomba è stato l’unico elemento fatto trapelare subito dagli esami necroscopici, per rassicurare chi temeva segnali inquietanti. I risultati delle autopsie dei corpi di Gianni Versace e di Andrew Cunanan, invece, curate dal dottor Roger Mittleman, sono stati resi noti soltanto molti mesi dopo, alla fine delle indagini di polizia.

Cunanan, già l’uomo più ricercato degli Stati Uniti per i quattro assassinii compiuti prima dell’omicidio Versace, il 7 luglio va a impegnare una moneta d’oro al Cash on the Beach, un banco dei pegni con una grande insegna gialla. Riceve 190 dollari. Lascia il suo vero nome. Nessuno se ne accorge.

«I controlli per i pegni» spiega Boze «sono eseguiti a mano, senza computer. E sono realizzati per evitare che siano accettati in pegno oggetti rubati: così sono verificati i nomi dei ladri, non quelli degli assassini…»

E l’incredibile sarabanda finale, nella casa galleggiante sull’Indian Creek in cui era rifugiato un Cunanan afflitto da una misteriosa ferita? «L’operazione è durata sei ore» racconta Boze. «Non avevamo la certezza assoluta che il corpo dentro l’houseboat fosse quello di Cunanan, per questo non lo abbiamo comunicato subito. Abbiamo aspettato i tecnici dell’FBI per il controllo delle impronte digitali del cadavere, ma questi non potevano entrare nella casa a causa dell’aria irrespirabile per i gas lacrimogeni. Abbiamo allora atteso l’arrivo di grandi ventilatori che usiamo in questi casi. Una volta arrivati i ventilatori, però, non è stato possibile farli funzionare, perché a causa del sovraccarico saltava continuamente la corrente. Solo quando è arrivato un generatore elettrico mobile siamo finalmente riusciti a completare l’operazione.» Sembra una scena di Scuola di polizia.

In realtà l’FBI è stata molto cauta in questa storia anche perché era stata sotto attacco negli USA per le innumerevoli brutte figure compiute prima del caso Versace (dall’assalto di Waco all’arresto sbagliato del “terrorista” alle Olimpiadi di Atlanta).

Alla pista mafiosa, comunque, non crede l’FBI, non crede la polizia di Miami Beach. Così i fratelli di Cunanan sono rimasti i soli in America a denunciare il complotto contro il loro congiunto, “incastrato dalla mafia e poi ucciso”, come hanno dichiarato a Hard copy, programma tv a tinte forti.

La professionalità dell’FBI si mostra invece soprattutto nell’abilità a non rispondere alle domande. Hardrick Crawford jr., ufficiale del Federal Bureau of Investigation, mi riceve nell’algida sede dell’agenzia a Miami, «una delle più importanti e attive degli Stati Uniti» mi dice. Crawford è un nero che non sfigurerebbe in un film sull’FBI: alto, capelli bianchi, camicia candida e cravatta, parla della collaborazione con la DIA italiana, degli «ottimi rapporti con il dottor Pansa», ma poi non scuce una notizia, «non possiamo parlare su nessuno dei casi aperti».

Mentre io continuo a chiedere degli insediamenti della mafia italiana a Miami, Mr. Crawford Jr. – chissà se è un caso – seguita a parlarmi della mafia russa. «Fino a un mese fa avevamo un gruppo unico che investigava sulla criminalità organizzata italiana e quella russa. Ora abbiamo costituito un gruppo speciale. I russi sono arrivati a Miami dopo essersi prima insediati a New York: nei primi tempi si limitavano a compiere attività illegali solo all’interno delle comunità d’immigrati russi, ma ora lavorano a tutto campo, estorsioni, droga, riciclaggio. Hanno a disposizione grandi capitali in contanti. E i governi della Russia o dell’Estonia non sono come quello italiano: non si riesce a collaborare.»

Ma i gruppi criminali italiani? E il caso Versace? Mr. Crawford jr. non ci sente. «Miami è una città aperta, dove non esiste egemonia sul territorio di un solo gruppo criminale. Tutti arrivano e fanno il loro business. La mafia russa, per esempio…»

Trasparenza cercasi

Dall’altra parte dell’oceano, intanto, a Milano, i Versace ripensano alla loro storia passata e cercano di affrontare la difficile stagione che si è aperta il 15 luglio sui gradini insanguinati di casa Casuarina.

Che corsa al successo, quella di Gianni Versace. A Reggio Calabria è figlio di una sartina. Trasferito a Milano, comincia a disegnare per la moda, proprio negli anni in cui nasce il made in Italy. Ha fortuna. Si mette in proprio nel momento magico in cui la moda italiana diventa famosa nel mondo. Crede subito in lui Gio Moretti, la signora degli showroom della moda a Milano: punta su Versace, apre e finanzia negozi con il marchio Versace. Poi i rapporti si deteriorano, il Versace che fa soldi e successo non vuole più avere attorno niente e nessuno che ricordi (e gli ricordi) gli anni duri della gavetta. Versace compra da Gio Moretti i suoi showroom e chiude la partita.

Ha attorno nuovi consulenti, nuovi amici. Come Mario Mangano, operatore finanziario con studio in via Sant’Andrea, che fa per lui gli investimenti immobiliari nel centro di Milano, in quella via della Spiga che diventa con via Montenapoleone il cuore della città della moda. La mente dell’azienda, comunque, è Claudio Luti, compagno di servizio militare di Santo Versace, poi commercialista della famiglia, infine amministratore delegato e proprietario del 20 percento della holding finanziaria Versace SPA.

Nel 1988 è la svolta. Luti se ne va, e non in buoni rapporti con la famiglia Versace. Aveva già raggiunto un accordo per la vendita della sua quota con la finanziaria Pafin di Fausto Panzeri, ma la famiglia esercita il suo diritto di prelazione, offrendo ben 12,5 miliardi di lire per restare proprietaria unica del 100 percento della Versace. Le quote di Luti in altre società del gruppo sono poi acquistate in seguito, con altri 5 o 6 miliardi.

Così la famiglia Versace dovrebbe aver pagato a Luti tra i 15 e i 20 miliardi di lire (qualcuno dice 23). Domanda rimasta sempre senza risposta: da dove sono arrivati quei soldi?

Dopo il divorzio con Luti, la partita si è giocata tutta in casa: con gli screzi “creativi” tra Gianni e la sorella Donatella, e i dissidi manageriali con il fratello Santo. Anche il testamento di Gianni, che saltando fratello e sorella nomina eredi le figlie di Donatella, dimostra che i rapporti a casa Versace erano pessimi. Santo ha subito minimizzato: «Gianni aveva intenzione di cambiarlo, il testamento. Se solo avesse avuto tempo…». Ma che cosa avesse davvero intenzione di fare Gianni non lo sapremo mai.

Dopo l’assassinio a Miami Beach, la famiglia deve trovare una guida creativa che sostituisca Gianni e accontenti il mercato, la stampa specializzata, gli operatori finanziari. La trova in Donatella. Oltre a ciò, deve mettere ordine nei conti. Perché una cosa è chiara, nel settore moda: i bilanci delle società sono poco trasparenti, anche perché gonfi di entrate da royalties, e di uscite per pubblicità e immagine. Tutte cose per loro natura immateriali, imprendibili, difficilmente quantificabili con certezza.

Nell’ultimo bilancio Versace prima della morte di Gianni, per esempio, le spese promozionali sono di 87 miliardi l’anno, più del costo del lavoro (80 miliardi), più dell’utile netto (67 miliardi). E le royalties e le provvigioni di chi produce o vende Versace superano i 164 miliardi e sono una voce che si sviluppa con un incremento del 24,8 percento, maggiore di quello registrato nel settore centrale, l’abbigliamento (398 miliardi di ricavi nel 1996, incremento del 20 percento rispetto al 1995).

Tutto ciò in un quadro di espansione del giro d’affari consolidato (853 miliardi, più che raddoppiato dal 1993), degli utili netti (67 miliardi), ma anche dei debiti (impennati da 37,5 a 177,8 miliardi). Queste cifre fotografano un gruppo sano, ma bisognoso di qualche aggiustamento, dopo gli anni della grande espansione, per trasformarsi compiutamente, scrive Vittorio Malagutti sul Corriere della Sera, “da azienda-marchio a vera multinazionale della moda”.

Santo Versace, l’amministratore dell’azienda, è accusato dal pool Mani pulite di aver corrotto la Guardia di finanza per ammorbidire i controlli fiscali. Condannato in primo grado, viene assolto in appello, ritenuto vittima di una concussione. La scarsa attendibilità dei bilanci societari italiani, è stata dimostrata dalle indagini sui conti delle più grandi aziende, da FIAT a Gemina, da Fininvest a Montedison: tutti certificati da multinazionali della revisione, ma tutti con vistose zone d’ombra, tutti con comode vie di fuga nei paradisi fiscali.

Anche la quotazione in Borsa, che dovrebbe rendere più stretti i controlli, non ha garantito, in Italia, una trasparenza maggiore: forse che FIAT, Gemina e Montedison non sono quotate? Quanto all’azienda Versace, è perfino comico inseguire, a ritroso, le promesse di entrare in Borsa. «Faremo il nostro ingresso nel listino entro il 1997» dichiarava Santo Versace nel 1996. Ma è almeno dal 1994 che prometteva la quotazione, addirittura a New York.

È sufficiente poi scartabellare le vecchie raccolte di giornali per scovare annunci sempre più indietro nel tempo. «Il nostro prossimo obiettivo è di quotare la Gianni Versace in Borsa, in Italia o all’estero, Londra come New York» dichiarava Santo al Corriere della Sera nel dicembre 1993, mostrando grafici di bilanci e sentendo subito il bisogno di aggiungere: «Tutti alla luce del sole, da mostrare soprattutto a quelli che mettono in dubbio la nostra trasparenza economica e morale».

Andando ancora più indietro, nell’ottobre 1986 Il Sole 24 Ore titolava: “In fondo alle sfilate, assicurazioni e Piazza Affari” e annunciava che “entro l’anno il gruppo potrebbe mettere radici in una finanziaria o in una compagnia d’assicurazioni”.

Oggi, dopo un decennio di “al lupo al lupo”, la quotazione non si è ancora vista. Nel luglio 1997 però, proprio pochi giorni prima della morte del fondatore, l’azienda aveva affidato alla banca d’affari Morgan Stanley il mandato ufficiale di preparare la quotazione della Gianni Versace SPA alla Borsa di Milano: “Entro il 1998”.

Preparare la quotazione significa tante cose. Per un’azienda come la Versace significa anche fare le pulizie di Pasqua: aprire le finestre, dare una spolverata ai conti, sistemare l’architettura societaria, scopare negli angoli e illuminare i ripostigli bui, imbiancare i bilanci, far sparire le tracce di eventuali operazioni poco edificanti realizzate in passato, dividere finalmente in maniera chiara patrimonio personale e patrimonio aziendale.

Versace era particolarmente munifico e amava circondare se stesso e la sua corte di cose belle ma soprattutto preziose. Chi come lui ha costruito personalmente, con le proprie idee e il proprio marchio, una fortuna internazionale, è naturalmente portato a considerare come suoi i soldi che l’azienda produce. Non la pensano così gli investitori istituzionali e gli organismi di controllo del sistema finanziario, soprattutto all’estero. Così anche Versace, aveva cominciato a fare ordine e a tracciare con più chiarezza i confini nel suo impero.

Per esempio, aveva finalmente scorporato dalla società i suoi beni personali: tra questi la casa Casuarina di Miami Beach, la dimora di New York e le opere d’arte (Renoir, Matisse, Picasso, Chagall, Leger, De Chirico, Warhol, Basquiat…), per un valore, secondo il settimanale L’Espresso, di almeno 150 miliardi di lire.

Antichità

Nel passato della famiglia, c’è un’altra grana giudiziaria. Nel gennaio 1992 un pretore spedì le Fiamme gialle nel quartier generale dello stilista, in via del Gesù a Milano, con l’ordine di fotografare, inventariare e sequestrare la collezione di 169 reperti archeologici raccolti da Gianni Versace e sapientemente disposti nella sua dimora milanese.

Molte inchieste, giornalistiche e giudiziarie, hanno fatto almeno intuire che dietro il commercio di opere d’arte e reperti archeologici si muovono organizzazioni multinazionali potentissime e spregiudicate. Anfore greche e colonne di tufo, teste greco-romane e un busto di Augusto, un corpo maschile scolpito nel marmo, un Dioniso e altre statue dei primissimi secoli dopo Cristo hanno adornato la magione Versace di via del Gesù. Da dove vengono? Come sono stati acquisiti? Possono stare a casa Versace o devono piuttosto essere trasferiti in un museo?

L’inchiesta avviata nel 1992 per rispondere a queste domande è sfociata in un rinvio a giudizio per ricettazione. Una nuova raffica di procedimenti, sempre per ricettazione, sono stati avviati nel 1995 e sono rimasti aperti almeno fino al 1997 presso le preture di Milano, Roma, Perugia, Torino, Verbania. La richiesta dell’accusa era la confisca di molti dei reperti, da trasferire al più presto da casa Versace a un museo dello Stato.

Killer a tempo pieno

Mentre lo stilista era alle prese con la svolta-trasparenza, in America l’Angelo Sterminatore attraversava il paese da costa a costa seminando la morte. Nel suo viaggio da San Diego, California, a Miami, Florida – il percorso a ritroso del sogno americano – Andrew Phillip Cunanan si lasciava alle spalle ventisette anni di vita e cinque vittime.

Jeffrey Trail, ventotto anni, ex ufficiale di Marina, è ucciso a Minneapolis a martellate in testa. Lee Miglin, settantadue anni, uomo d’affari di Chicago, è imbavagliato, torturato per ore, finito con una sforbiciata al cuore. Gli americani, che hanno pronta una definizione per ogni cosa che non riescano a capire, a Cunanan cuciono addosso la definizione di spree killer: «Un assassino che, come il serial killer, uccide una serie di persone in luoghi diversi e in tempi diversi» spiega il criminologo Robert Ressler «ma in un periodo breve, senza fasi di “raffreddamento” tra un delitto e l’altro, e scegliendo le sue vittime per lo più tra persone che conosce». Un killer a tempo pieno.

Quando arriva a Miami Beach, con già quattro assassinii sulle spalle, l’Angelo va ad abitare al Normandy Plaza Hotel, un alberghetto déco sopravvissuto tra gli albergoni moderni che oggi lo schiacciano da ogni lato. «Un tipo tranquillo» garantisce Roger Falin, il proprietario (di origine italiana: si chiamava Falino). «Tutti i nostri ospiti sono tipi tranquilli. Clienti regolari, quieti. A South Beach c’è gente più pittoresca, locali notturni. Qui da noi è tutto più calmo, benché siamo solo poche miglia più a nord. Sì, anche Cunanan era un tipo tranquillo. Mai ricevuto ospiti, mai usato il telefono. Lo vedevamo soltanto alle 8 di sera: usciva dall’hotel per rientrare poco dopo con il sacchetto della cena, comprata qui davanti, da McDonald’s, o poco più in là, da Subs Grill. Mangiava in camera, poi alle 11 usciva: T-shirt, bermuda, sandali. Non lo vedevamo rientrare, non lo vedevamo più fino alla sera dopo. Di giorno forse stava in camera, forse andava al mare uscendo dalla porta sul retro, chissà. È stato qui due mesi. Ha cambiato tre camere. L’ultima, la 322, è quella sopra il laghetto con i pesci rossi e le tartarughe morte.»

Il Normandy Plaza oggi è un hotel a buon mercato, un po’ fané e con puzza di gas nei corridoi. La camera costa 35 dollari e 73 centesimi al giorno, 230 dollari e 50 centesimi la settimana. Eppure a Roger Falin piace ricordare, con il suo volume di voce bassissimo, quasi sussurrando, un passato che racconta come glorioso: «Fu costruito nel 1936. Attorno non c’era nient’altro. Vede queste foto? Clark Gable, Jean Harlow, John Wayne, Marilyn Monroe… Tutti ospiti dell’hotel, ai bei tempi. Vede quella foto in bianco e nero di Marilyn, con il costume intero bianco e il parasole a pois? Fu scattata proprio qui, sulla spiaggia dell’hotel…». Una vecchia cartolina lo mostra bianco e giallo, con attorno il prato e le palme. Oggi, dipinto di rosa e azzurro, ha attorno solo cemento.

«Kurt Demas: così l’abbiamo registrato, questo era il nome sul passaporto e sulla patente che ci ha mostrato. No, non abbiamo mai sospettato che si trattasse di quel Cunanan che era già ricercato: nelle foto e in tv era molto più magro. Veramente non lo abbiamo riconosciuto neppure dopo l’uccisione di Versace: quando, il giorno dopo, sono arrivati qui centinaia di poliziotti, benché lo vedessimo tutti i giorni, abbiamo pensato a un altro ospite. Li abbiamo mandati in un’altra stanza. Solo dopo abbiamo riflettuto meglio e abbiamo richiamato la polizia.» Ma allora, se chi lo vedeva tutti i giorni ha avuto questa reazione, quanto possono essere attendibili le segnalazioni di chi ha visto solo un attimo l’uomo che la mattina del 15 luglio sparava su Ocean Drive?

Miriam Hernandez è un’anziana signora nata a Cuba che da trent’anni vive in Florida. Lavora al Normandy Plaza Hotel. Mi mostra la camera 322, ora ripulita. È piccola, ma è d’angolo e quindi ha due finestre che la inondano di sole. Al centro un letto a una piazza e mezza con la testata addossata alla finestra da cui si vede l’oceano, a sinistra un comodino con lampada e telefono, di fronte l’immancabile televisore, a destra il frigorifero e la cucina a gas. Fiori stampati sulle tende e sul copriletto. «Quando sono tornati, i poliziotti hanno fatto una confusione incredibile. Vede questa stanza? Era tutta nera, avevano messo dappertutto la polverina per trovare le impronte digitali», racconta Miriam. «Lui, Cunanan, parlava con dolcezza. Sempre per favore, grazie, prego. Sono stata io a registrarlo, quando è arrivato qui. Poi ha sempre parlato con me, quando aveva bisogno di qualcosa. Sempre gentilissimo…»

Eduwigis Zagami è una signora minuta che gestisce TriniDry Cleaner, la lavanderia a due passi dal Normandy. «Veniva qui a portare i suoi vestiti da lavare. Qui lasciava il suo nome vero, sì, Andrew Cunanan. Gentile, cortese, simpatico. Adesso tutti mi chiedono di lui: anche al mio gruppo di preghiera, sa, perché io frequento un gruppo di preghiera, alla chiesa cattolica qui vicino…»

«Macché solitario: qui è venuto sempre in compagnia. Uomini. Sa, le donne non gli piacevano.» Garcia viene dal Costa Rica ed è cameriere al Cafe Prima Pasta, un ristorante italiano di proprietà di Gerardo Cea, frequentato anche da quel Torsten Reinick, pornoimprenditore a Las Vegas ed ex proprietario della casa galleggiante in cui è morto Cunanan. «Non so se i due, Andrew e Torsten, si siano incontrati nel nostro ristorante. Ma Cunanan ha mangiato qui, a questo tavolo rotondo. Gli piaceva la pasta, naturalmente. Pasta alla puttanesca.»

Gli occhi della Medusa

Gianni Versace non si sentiva però minacciato, come potrebbe sentirsi chi è sotto il tiro di qualche gruppo organizzato. «No, Gianni non aveva paura. Donatella aveva la scorta, Gianni mai. Girava per Miami Beach da solo, spesso a piedi. L’ultima volta, a maggio, l’avevo incontrato a passeggio per Lincoln Road, insieme al suo compagno Antonio D’Amico. Era supercontento di essere guarito dal suo tumore all’orecchio. Mi ha fatto molte feste.»

Donato De Santis è un trentaquattrenne cresciuto a Bollate, alla periferia nord di Milano, e poi diventato come in una favola “il cuoco dei vip”. Ha cucinato per Al Pacino e Madonna, Paul Newman e Jack Nicholson, Bruce Springsteen e la principessa Diana, Sylvester Stallone e Robert De Niro, Sting e Prince. Dal 1992 fino all’anno scorso è stato cuoco e manager di casa, a Miami Beach, di Gianni Versace. Vive in una magnifica villa affacciata sulla baia e per parlare con lui è necessario rivolgersi al suo cortese ed efficiente addetto stampa, Jean Paul Alcantara. «A casa Casuarina Gianni tornava spesso, più volte l’anno, sempre dopo ogni sfilata», racconta Donato. «La grande cucina della casa, con il pavimento di cotto messicano, il tavolone centrale, il tavolo rotondo dove mangiavano i bambini di Donatella, era il luogo dove Gianni passava molto tempo, a chiacchierare, a discutere: in una casa si finisce sempre in cucina, se questa è accogliente. C’erano discussioni animate e appassionate con Donatella, sulle sfilate, sul lavoro: spesso finivano con qualche colorita espressione in calabrese. Mai veri litigi però. Donatella aveva grande influenza su di lui, anche se, quando c’era da decidere, l’ultima parola era sempre di Gianni.

«Ricordo com’era felice quando ho fatto la supertorta per il compleanno di Madonna: era enorme, galleggiava sull’acqua della piscina, attorniata da fiori e da quattro modelli mascherati da statua romana. Dopo una cena ben riuscita, veniva da me e diceva: “Donato, sei un genio, li abbiamo ammazzati tutti”. Nei giorni normali, invece, amava mangiare semplice. “Donato, che cosa mi fai questa sera di favoloso?” mi chiedeva. Ma adorava le cose semplici, i sapori naturali, non mangiava mai troppo. Molta frutta. Adorava i dolci: i bignè, la crema pasticcera, la torta millefoglie, l’uovo sbattuto, magari con un goccio di caffè. Facevo tutto in casa, naturalmente, anche alcuni miei liquori. Gianni non amava molto i peperoni, la cipolla; l’aglio lo usavo soltanto per insaporire un po’ l’olio. Era regolare, aveva orari precisi, una vita disciplinata.

«Era generoso, questo sì, ospitale. Se incontrava qualcuno che conosceva, lo invitava a cena: “Donato, questa sera riesci a sfamare una – o due, o tre – persone in più?”. Cunanan? No, io sono convinto che non lo conoscesse. Conosco bene la vita di Gianni, per anni mi è capitato di consegnare la posta, di rispondere al telefono, di prendere nota dei messaggi sulla segreteria telefonica: mai sentito, questo Cunanan. Se lo avesse conosciuto, lo avrebbe invitato a cena, lui faceva così. Ma non era uno che desse confidenza al primo venuto, era molto selettivo.

«Non c’era stata nessuna festa, nei giorni precedenti quella mattina terribile. La sera prima, Gianni e Antonio erano andati con un amico al cinema, a Bay Harbour. Avevano visto Contact, un film con Jodie Foster: la storia di un contatto con altri mondi, con persone che non sono più in questo mondo. Un film che fa pensare. Mi fa piacere almeno che se ne sia andato portando con sé le sensazioni date da quel film. La notizia, quella mattina, l’ho avuta per telefono, da un’amica. Al momento non riuscivo a capire, mi sembrava impossibile. Una morte così, poi: non aveva senso, era l’ultima cosa che potevo aspettarmi. In casa, quella mattina, c’erano Antonio D’Amico, il nuovo cuoco Charles, il custode Thomas, la donna di servizio, e Lazzaro, un cubano amico di famiglia. Antonio lo ha visto a terra, era supersconvolto, superfuori di sé, gli hanno dovuto dare qualcosa per calmarlo. Io sono andato subito all’ospedale. Nella stanza accanto a Gianni abbiamo cominciato a pregare, abbiamo acceso delle candele, abbiamo cercato di restare vicino a Gianni dandogli un po’ d’energia: io sono abbastanza spirituale, in queste cose, e noi eravamo gli unici lì che lui conoscesse e che gli volevano bene. Siamo rimasti accanto a lui fino al mattino seguente, un piccolo gruppo spirituale che cercava di dargli energia. Donatella, supersconvolta, superincredula, mi ha chiamato al cellulare: “Voglio vedere mio fratello” diceva. “Chi c’è lì con lui? C’è qualcuno insieme a lui? Non lasciarlo solo” mi ripeteva.»

Il caso è chiuso

Nella storia americana della fine di Versace mille interrogativi sono rimasti aperti. Eppure nessuno si è affannato a cercare risposte. Non la famiglia, che ha chiuso il caso con un certo numero di funerali solenni (a Miami, a Milano…) e con queste parole, dettate dopo la morte di Cunanan: “Rivolgiamo un sentimento di gratitudine e di addolorato ringraziamento a chi ha contribuito a risolvere il terribile assassinio di Gianni”. Non il circo della moda, che non ha nessuna voglia di guardarsi dentro. Non la stampa “seria”, che non vuole scandalismi.

La follia del ragazzo americano che ha ucciso ed è finito con la faccia spappolata (lo sguardo di Medusa, si sa, uccide) è stato un sollievo per tutti, familiari e amici, poliziotti e businessmen, modaioli e telespettatori. È la spiegazione giusta per una storia sbagliata, ambientata – e dove, se no? – sotto le palme di Miami Beach.

Due autopsie faticose, riconoscimenti difficili, una misteriosa ferita all’addome del presunto assassino, un assedio grottesco su una casa galleggiante, l’assenza di movente, la casa Casuarina vietata per due giorni alla polizia, l’operazione trasparenza dell’azienda, negozi Versace chiusi in città rischiose… Tutto ciò è veramente troppo poco per non credere alla soluzione prêt-à-porter di questo giallo americano.

Gianni Barbacetto, Campioni d'Italia, Marco Tropea editore, 2002
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