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La Nigeria trascina Eni e Shell davanti all’Alta Corte inglese

La Nigeria trascina Eni e Shell davanti all’Alta Corte inglese

Il governo della Nigeria ha aperto una causa civile davanti all’Alta corte di giustizia di Londra chiedendo a Eni e Shell i danni per la corruzione che ritiene di aver subito a proposito del grande campo petrolifero denominato Opl 245. Chiede anche che alle due compagnie petrolifere sia revocata la licenza concessa nel 2011. “L’acquisizione di Opl 245”, sostiene oggi il governo nigeriano, fu frutto “di un piano fraudolento e di corruzione, che ha compreso anche il pagamento di tangenti a dirigenti di Shell ed Eni”. La causa è stata avviata ad aprile a Londra secondo il diritto anglosassone e si aggiunge al processo penale in corso a Milano, in cui Eni, Shell, i vertici delle due società, alcuni mediatori e uomini del passato governo nigeriano sono accusati di corruzione internazionale.

Il nuovo governo del Paese africano, guidato dal presidente Muhammadu Buhari, vuole dare un segnale chiaro di aver intrapreso una decisa lotta contro la corruzione, mostrando una netta discontinuità con il governo precedente, dominato fino al 2015 da Goodluck Jonathan, accusato di aver svenduto agli stranieri le risorse del Paese, non senza intascare robuste tangenti.

La licenza per Opl 245 è stata concessa nel 2011 a Eni e Shell in cambio di 1,3 miliardi di dollari. Soldi versati su un conto del governo nigeriano, ma poi girati e dispersi in una moltitudine di conti privati, tra cui quelli della società Malabu, che risultava la proprietaria del grande campo d’esplorazione petrolifera. A vendere a Malabu, a prezzo di favore, i diritti d’esplorazione di Opl 245 era stato l’allora ministro nigeriano del Petrolio, Dan Etete. Malabu, attraverso prestanome, era di fatto controllata dallo stesso Dan Etete, che dunque aveva venduto – anzi quasi regalato – la licenza a se stesso.

Il denaro versato da Eni e Shell è finito dunque all’ex ministro del petrolio e ad altri esponenti dell’allora governo nigeriano, nonché – secondo le ipotesi d’accusa della Procura di Milano – a mediatori italiani e internazionali, ed è stato in parte “retrocesso” – sempre secondo l’accusa – a manager Eni. A Milano è in corso il processo con imputati, oltre alle società Eni e Shell, l’amministratore delegato di Eni, Claudio Descalzi; il suo predecessore, Paolo Scaroni; tre manager Eni, Roberto Casula (all’epoca dei fatti capo divisione esplorazioni), Vincenzo Armanna (ex vicepresidente del gruppo in Nigeria) e Ciro Antonio Pagano (ex managing director di Nae, società del gruppo Eni); alcuni intermediari, gli italiani Luigi Bisignani e Gianfranco Falcioni e il russo Ednan Agaev; e l’ex ministro del petrolio, Dan Etete.

I pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro hanno portato a giudizio a Milano anche i vertici della Shell, che secondo l’accusa divise l’affare con l’Eni: Malcolm Brinded, allora presidente di Shell Foundation, e tre ex dirigenti della società petrolifera olandese, Peter Robinson, Guy Colgate e John Coplestone. Altri due imputati, l’intermediario nigeriano Emeka Obi e quello italiano Gianluca Di Nardo, sono già stati condannati dopo un processo separato celebrato a Milano con rito abbreviato.

Ora, nella causa londinese, il governo nigeriano sostiene che il valore di Opl 245 sia non di 1,3 miliardi di dollari, bensì di 3,5 miliardi. È la cifra indicata anche nell’aula del processo milanese dal consulente del governo del Paese africano ed è il valore più basso della forchetta (da 3,5 a 5,8 miliardi) indicata dall’esperto canadese chiamato come consulente in aula dalle organizzazioni internazionali Global Witness, Re:Common, Corner House Research e la nigeriana Heda Resource Centre.

La novità di rilievo dell’azione civile avviata a Londra è che il governo nigeriano ora chiede addirittura che a Eni e Shell sia revocata la licenza, in quanto conquistata “con metodi fraudolenti e schema corruttivo che ha comportato il pagamento di tangenti”. In un caso separato, sempre a Londra, il Paese africano ha portato a giudizio anche la banca JpMorgan Chase: fu l’istituto che girò sui conti di Malabu 801 milioni di dollari, parte dell’1,1 miliardo versati da Eni. Erano soldi – argomenta il governo – che dovevano arrivare allo Stato nigeriano, che ora chiede dunque la restituzione di 845 milioni.

Eni ha risposto ribadendo “la correttezza di ogni aspetto della transazione”, sottolineando che in ogni caso la causa londinese è una duplicazione di quella in corso a Milano e mettendo in dubbio la legittimazione di una corte del Regno Unito a decidere sulla vicenda. Shell ha replicato che il contratto fu “completamente corretto e legale”.

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Il Fatto quotidiano, 11 maggio 2019
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