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Claudio Descalzi, 10 buoni motivi per non riconfermalo alla guida dell’Eni

Claudio Descalzi, 10 buoni motivi per non riconfermalo alla guida dell’Eni Foto Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Roma Economia Trasmissione tv "In Mezz'Ora" Nella foto Claudio Descalzi (ad Eni) Photo Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Rome (Italy) Tv program "In Mezz'Ora" In the photo Claudio Descalzi (ceo Eni)

di Gianni Barbacetto e Stefano Feltri /

I partiti di maggioranza (Pd e Cinquestelle) e il governo stanno valutando se confermare Claudio Descalzi come amministratore delegato di Eni per il terzo mandato. La decisione ultima spetta al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e al ministro del Tesoro Roberto Gualtieri (l’azionista di riferimento), ma è una scelta strategica che coinvolge anche il capo dello Stato, Sergio Mattarella. Conte, Gualtieri e Mattarella hanno almeno dieci motivi, che qui elenchiamo, per congedare Descalzi. Se invece vogliono confermarlo, dovranno trovare validi argomenti per spiegare la loro scelta ai cittadini e agli azionisti di Eni, cioè i contribuenti e gli elettori italiani.

1. La tangente nigeriana. Descalzi è imputato di corruzione internazionale nel processo per la più grande tangente della storia italiana. Nel 2011 Eni, per ottenere il giacimento Opl 245 avrebbe pagato 1 miliardo e 92 milioni finiti tutti, secondo l’accusa, non nelle casse dello Stato nigeriano, ma nei conti di politici, mediatori, faccendieri, manager.

2. La querela immaginaria. Il 28 luglio 2016, Descalzi firma una procura speciale con cui avvia alla Procura di Siracusa una querela nei confronti di Luigi Zingales e Karina Litvack, consiglieri indipendenti Eni che chiedevano più controlli e chiarezza sulle inchieste in corso per corruzione internazionale. Erano già stati iscritti per diffamazione l’8 luglio 2016 dal pm di Siracusa Giancarlo Longo (poi arrestato), benché la diffamazione sia perseguibile solo su querela. Venti giorni dopo, Descalzi tenta una “sanatoria” retroattiva.

3. Il “complotto”. L’avvocato esterno Eni Piero Amara, dopo essere stato arrestato nel 2018, racconta di aver avuto dai vertici Eni il mandato (e il denaro) per avviare nel 2015 un “complotto” per depistare le indagini milanesi sulle corruzioni internazionali in Nigeria e Algeria e per “salvare” Descalzi dalle accuse.

4. Il patto della Rinascente. Siglato nel marzo 2016 dopo un incontro al grande magazzino romano di piazza Fiume tra Amara, il manager Claudio Granata e l’ex manager Vincenzo Armanna. Prevede di pagare Armanna per fargli ritrattare le accuse contro Descalzi, da scaricare semmai su due manager licenziati dalla compagnia, Massimo Mantovani e Antonio Vella.

5. Spiate quei pm. La security dell’Eni – racconta Amara – avrebbe dossierato, pedinato e intercettato, oltre a Zingales, Litvack e il giornalista Claudio Gatti, anche alcuni magistrati tra cui Fabio De Pasquale, Sergio Spadaro e Paolo Storari.

6. Congo. Eni è sotto indagine per corruzione internazionale per aver passato quote dei suoi giacimenti in Congo a società come Aogc (legata al presidente congolese Denis Sassou Nguesso) e Wnr (legata a Maria Paduano, Alexander Haly ed Ernest Olufemi Akinmade, tutte “persone vicine a Eni e al suo management”). Secondo i pm milanesi, una forma raffinata di tangente da far arrivare a politici congolesi e a manager italiani.

7. Lady Descalzi. Marie Madeleine Ingoba, moglie di Descalzi, ha controllato società che hanno prestato servizi a Eni per circa 300 milioni di dollari. Secondo i pm di Milano, la signora controllava (attraverso società in Olanda, Lussemburgo, Cipro e Nuova Zelanda) cinque società chiamate Petro Services che hanno fornito a Eni servizi, affitto di navi e sostegno logistico tra il 2007 e il 2018. Il controllo era diretto dal 2009 al 2014. Poi l’8 aprile 2014, sei giorni prima che il governo Renzi indicasse Descalzi come ad di Eni, Ingoba vende l’intera società lussemburghese Cardon Investments sa, che controlla le Petro Services, ad Alexander Haly, uomo d’affari britannico con base a Montecarlo, ritenuto dai pm una sorta di socio-prestanome della coppia Descalzi-Ingoba.

8. I risultati. Anche nel secondo mandato di Descalzi il prezzo del titolo Eni in Borsa – la misura piu semplice del valore della compagnia – ha continuato a scendere, dai 15 euro del 2019 ai meno di 13 attuali. Mai raggiunto l’obiettivo, più volte annunciato, di arrivare alla produzione di 2 milioni di barili al giorno. Molti grandi progetti di estrazione (Zohr in Egitto, Kashagan in Kazakistan o il Mozambico) subiscono ritardi e aumenti di costi. La strategia per monetizzarli è di solito la cessione di quote ad altre compagnie, con incassi immediati, ma la rinuncia a ricavi maggiori in futuro.

9. Il disastro Saipem. Tra le tante operazioni industriali discutibili della gestione Descalzi va ricordata la cessione di quote della controllata Saipem alla Cassa depositi e prestiti (società controllata dal Tesoro che gestisce i risparmi postali). Nell’ottobre 2015 Eni cede a Cdp, cioè al suo primo azionista, il 12,5 per cento di Saipem, società di infrastrutture e servizi di estrazione. Il beneficio per Eni è di scorporare i debiti di Saipem dal suo bilancio. Per Cdp – e quindi per i risparmiatori – il risultato è disastroso: Saipem deve lanciare un problematico aumento di capitale per rilanciare l’azienda, il valore della quota comprata da Cdp si svaluta di 450 milioni in meno di sei mesi. Benefici a Descalzi e agli azionisti privati di Eni, conto salatissimo scaricato sugli azionisti di Cdp (il Tesoro, dunque tutti gli italiani).

10. Green? Descalzi si presenta come l’interprete della svolta green dell’Eni. Ma durante la sua gestione la compagnia ha ricevuto una sanzione record dall’Antitrust per pubblicità ingannevole: 5 milioni di multa, comminata a gennaio 2020. I benefici ambientali vantati dalla pubblicità (“-4% di consumi e -40% di emissioni gassose”) del Diesel+ di Eni non erano coerenti con i reali effetti del carburante. Non sono le credenziali migliori per Descalzi che chiede un terzo mandato per gestire una fantomatica svolta green dell’azienda petrolifera.

La replica di Eni

In merito all’articolo pubblicato sul vostro giornale dal titolo “Depistaggi, errori e processi: 10 perché no al Descalzi-ter”, a firma di Stefano Feltri e Gianni Barbacetto, precisiamo quanto segue.

La strategia di trasformazione applicata da Claudio Descalzi dall’inizio della sua gestione ha messo la società in condizione di creare valore anche in presenza di scenari di settore estremamente sfavorevoli: la generazione di cassa è raddoppiata, l’indebitamento è stato significativamente ridotto e la produzione è cresciuta del 16% in sei anni, malgrado lo scenario. Oggi Eni è in grado di coprire organicamente costi, investimenti e remunerazione degli azionisti in presenza di una quotazione del Brent a circa 55$, mentre nel 2014 riusciva a farlo soltanto a 114$. Senza contare che Eni rimane leader mondiale di settore non soltanto nell’ambito delle scoperte di risorse energetiche ma anche, al contrario di quello che scrivete, nella tempistica della loro messa in produzione. La vostra analisi sull’andamento del titolo ci lascia, poi, molto perplessi: il processo di trasformazione messo in campo da Descalzi è riuscito a contrastare i fattori negativi, esogeni alla gestione, avveratisi negli ultimi anni tra cui il crollo dei prezzi del petrolio e gli eventi geopolitici di alcuni paesi dove Eni opera. Senza la solidità finanziaria raggiunta da Eni negli ultimi anni, il valore sul mercato avrebbe risentito maggiormente dei fattori esterni di cui sopra. Prova di questo sono i rating del mercato sul titolo Eni, che nel maggio 2014 erano 25% positivi (buy), 56% neutrali e 19% negativi (sell), e che a settembre 2019 (data dell’ultimo censimento) erano 70% positivi (buy), 23% neutrali e solo 7% negativi (fonte dati Bloomberg). Eni è anche riuscita ad avviare un’ampia strategia di transizione verso la decarbonizzazione delle attività (riduzione delle emissioni dirette, sviluppo e applicazione di nuove tecnologie per la produzione di energia da fonti bio, sviluppo delle rinnovabili, conversione di raffinerie in bioraffinerie, iniziative industriali legate all’economia circolare, ecc) della quali ulteriori e importanti sviluppi verranno comunicati nell’ambito della presentazione del prossimo Piano strategico.

Per quanto riguarda gli eventi giudiziari da voi richiamati, Eni ha già fornito a molteplici riprese alla stampa, oltre che naturalmente agli inquirenti, ogni chiarimento e spiegazione utile per la comprensione dei fatti. Fermo restando che delle indagini è bene attendere la conclusione e dei processi le sentenze, Eni ricorda che a oggi si annoverano solo le seguenti sentenze e accertamenti su cui, fermo restando il rispetto del lavoro della magistratura, si dovrebbero concentrare eventuali considerazioni di merito che avete voluto rappresentare: in merito al procedimento Algeria, Eni è stata assolta tre volte (indagini preliminari, primo grado ed appello) e da ultimo anche Saipem è stata assolta perché “il fatto non sussiste”, mentre l’appello contro Eni è stato dichiarato addirittura “inammissibile”. Se perdita di valore c’è stata in Saipem, oltre che all’impatto derivato dallo scenario sfavorevole che ha compresso il numero di progetti disponibili sul mercato, producendo perdite anche alle altre società contrattiste del settore, essa è attribuibile al danno reputazionale e operativo connesso al processo. Per quanto riguarda sia il procedimento Nigeria (OPL 245) che quello Algeria, il Dipartimento di giustizia degli Stati Uniti d’America (alla cui giurisdizione Eni è anche sottoposta) ha già chiuso da tempo le proprie indagini senza rilievo alcuno. Si aggiunga anche che l’istruttoria dibattimentale del processo OPL 245 innanzi alla VII sez. del Tribunale di Milano non ha offerto conferme ai capi d’imputazione formulati a carico di Eni o degli altri imputati. Mentre le stime presentate dagli esperti in tribunale sugli effetti che OPL 245 avrebbe avuto a favore del popolo nigeriano hanno confermato che la messa in produzione avrebbe generato oltre 40 miliardi di PIL, 200 mila posti di lavoro ed investimenti diretti di oltre 7 miliardi (per la metà spesi in Nigeria). Questi sono i fatti. Eni, in ogni caso, nutre il massimo rispetto per il lavoro dell’organo giudicante e ne attende con fiducia gli esiti. Vi invitiamo quindi alla pubblicazione integrale di questa nota, riservandoci di valutare i contenuti dell’articolo e di intraprendere le opportune vie legali in presenza di elementi infondati e diffamatori.
Ufficio Stampa Eni

Eni difende l’operato del suo amministratore delegato Descalzi sostenendo, in sintesi, che si poteva fare peggio: che il titolo poteva scendere di più, che in alcuni processi Eni è stata assolta, che su Saipem mal comune mezzo gaudio. Noi rimaniamo convinti che si potesse – che si possa in futuro – anche fare meglio. Quanto ad attendere le sentenze: noi di solito lo facciamo, secondo i pm di Milano invece l’Eni non ha questa pazienza e ha provato a depistare un processo in corso per assicurarsi un esito favorevole. Noi aspetteremo serenamente l’esito di questa inchiesta. Speriamo che pure Descalzi e colleghi facciano lo stesso.
(G.B. e S.F.)

di Gianni Barbacetto e Stefano Feltri, Il Fatto quotidiano, 20 febbraio 2020
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