GIUSTIZIA

La prescrizione è un airbag. E allora le foibe?

La prescrizione è un airbag. E allora le foibe?

Gli studiosi di comunicazione non potranno fare a meno di studiare l’inversione di paradigma avvenuta in questi mesi nel dibattito pubblico sulla prescrizione. Per anni i termini del discorso erano questi: in un sistema complesso (il sistema giustizia) compare un elemento (la prescrizione) che è sintomo di un male (la eccessiva lunghezza dei processi). È dichiarazione d’impotenza dello Stato di diritto, negazione di giustizia alle vittime, spesso privilegio per i potenti che hanno mezzi per resistere a lungo in giudizio, anche con trucchi e manovre dilatorie. Quando scatta, dimostra che il sistema è malato. La prescrizione come airbag: entra in funzione come conseguenza di un incidente. Dovrebbe essere residuale, eccezionale, straordinaria, invece è normale strumento deflattivo per buttare nel cestino migliaia di procedimenti.

Gli antagonisti che si confrontavano nel discorso pubblico erano da una parte i difensori della giustizia, che proponevano di eliminare o almeno ridurre la prescrizione, che impedisce di dare giustizia, mortifica lo Stato di diritto e offre ai potenti il privilegio dell’impunità; e dall’altra i sostenitori di una distorsione e di un privilegio.

Nell’inversione avvenuta in questi mesi, invece, la distorsione è stata presentata come un caposaldo dello Stato di diritto, una nobile bandiera di libertà dei cittadini che non possono restare “imputati a vita”. L’airbag è diventato il logo della casa, simbolo prezioso e “glam” dell’auto: e ve lo vedete un marchio automobilistico fare pubblicità alle sue vetture non puntando sulla bellezza della linea e l’eccellenza delle prestazioni, ma sull’utilità dell’airbag in caso d’incidente? Eppure sta andando così.

Ora gli antagonisti del discorso pubblico sono da una parte i paladini del Diritto e del cittadino, eroicamente difeso dal “fine processo mai”; e dall’altra i manettari che, dimenticando la Costituzione, vogliono il processo eterno. Vorrebbero invece – insieme – processo più breve e prescrizione residuale. Sanno che la peste non si cura con il colera e che i due mali vanno guariti entrambi. Ma questo fa fatica a emergere nel frastuono del discorso pubblico.

Non approfondiamo qui i motivi dell’inversione, che sono tutti politici e, in alcuni casi, bassamente strumentali. Restiamo sul piano della comunicazione: il rovesciamento del discorso sulla scena pubblica ha funzionato. È avvenuto quello che – abbiamo appena celebrato il “giorno del Ricordo” – è scattato per le foibe. Mi rendo conto che è quasi una bestemmia paragonare ad altro, a qualsiasi altra cosa, gli eccidi e le stragi, ma è forte l’impressione che la “giornata del Ricordo” abbia permesso un’altra, più grave inversione di comunicazione. Per anni, a chi ricordava la Shoah, il progetto di scientifica eliminazione degli ebrei, i sistematici eccidi, da parte di nazisti e fascisti, degli oppositori, dei “diversi”, degli antifascisti, qualcuno alzando il ditino opponeva la domanda: “E le foibe?”.

Crimine gravissimo, ingiustificabile rappresaglia contro l’imperialista e fascistissima occupazione italiana delle terre oltre il confine orientale, l’italianizzazione forzata, i 7 mila jugoslavi uccisi dai fascisti. Dopo quella vendetta terribile dei titini che fanno sparire migliaia di italiani nelle foibe del Carso, gli eredi dei fascisti ribaltano il discorso pubblico, rivestono i panni delle vittime che chiedono giustizia dalla Storia, pretendono di equiparare “giornata del Ricordo” e “giornata della Memoria”: sperando di elidere l’una con l’altra.

Il Fatto quotidiano, 13 febbraio 2020
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