SEGRETI

Strage di Bologna. Ora è caccia ai mandanti di Stato

Strage di Bologna. Ora è caccia ai mandanti di Stato

Il nome del prefetto-gourmet è scritto nell’avviso di conclusione indagini mandato ieri dalla Procura generale di Bologna ai nuovi indagati per la più grave strage italiana, quella del 2 agosto 1980. Federico Umberto D’Amato è la figura più inquietante della storia del nostro dopoguerra. Manovratore dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, il potente servizio segreto civile in eterna competizione con quello militare (Sifar, Sid, Sismi). “Mandante-organizzatore” della strage, scrivono i magistrati bolognesi. Burattinaio prima e grande depistatore dopo, aiutato da Mario Tedeschi, direttore del Borghese, “nella gestione mediatica dell’evento strage, preparatoria e successiva allo stesso”.

In compagnia della coppia ai vertici della loggia P2, Licio Gelli e Umberto Ortolani, indicati come “mandanti-finanziatori”. D’Amato-Tedeschi-Gelli-Ortolani: è il poker calato dai tre magistrati della Procura generale, Alberto Candi, Umberto Palma e Nicola Proto, che indagano sulla strage. I quattro manovratori sono tutti morti, ma la nuova indagine potrebbe ricostruire la verità almeno per la storia e per i famigliari degli 85 morti e dei 200 feriti. C’è una mole immensa di documenti raccolti dagli investigatori. Tra questi, il documento “Bologna-525779XS”, sequestrato a Gelli: racconta di milioni di dollari usciti dal conto svizzero numero 525779XS tra il luglio 1980 e il febbraio 1981, i mesi della strage e dei depistaggi. Altre note, scritte a mano da Gelli, riguardano contanti da portare in Italia: 4 milioni di dollari solo nel mese prima dell’attentato.

Nel biennio 1979-1980, quando la strage fu preparata, realizzata e “gestita mediaticamente” (ovvero depistata), Federico Umberto D’Amato non era più al vertice degli Affari riservati. Era stato rimosso nel 1974 da Paolo Emilio Taviani, due giorni dopo la strage di Brescia, e mandato a dirigere la Polizia di frontiera. Ma era rimasto l’uomo degli americani in Italia, membro del Club di Berna che riuniva le intelligence europee e Nato sotto l’ombrello Usa, lui che aveva cominciato la carriera lavorando con James Jesus Angleton all’Oss, il servizio americano che precede la Cia.

Ci sono anche i vivi, tra i nuovi indagati di Bologna. Paolo Bellini, fin da ragazzo militante fascista di Avanguardia nazionale, poi confidente dei carabinieri, infiltrato in Cosa nostra con l’ok del generale Mario Mori, coinvolto nella trattativa Stato-mafia. “Che cosa succederebbe se Cosa nostra mettesse una bomba alla Torre di Pisa?”: qualche investigatore ipotizza che sia stato lui a dare (o portare?) ai mafiosi l’idea di attentare al patrimonio artistico. E nel 1993, le stragi “in continente” colpiscono in effetti l’Accademia dei Georgofili a Firenze, il Padiglione d’arte contemporanea a Milano e due basiliche a Roma. Ora una cassetta “Super 8” scovata nell’Archivio di Stato dagli avvocati dei familiari delle vittime mostra un uomo che si aggira nei pressi del primo binario della stazione di Bologna pochi minuti dopo l’esplosione.

Capelli ricci, grossi baffi, sopracciglia folte: davvero simile a Bellini nelle foto di quegli anni. Indagato (per depistaggio) anche l’ex generale dei servizi segreti Quintino Spella, che continua a negare ciò che gli ha raccontato nel luglio 1980 il giudice Giovanni Tamburino. È l’annuncio della strage, un mese prima. Da Tamburino, allora magistrato di sorveglianza a Padova, arriva un neofascista, Luigi Vettore Presilio, accompagnato dall’avvocato Franco Tosello. Ha una storia pesante da raccontare. Anzi due. Ha sentito in carcere che sono in preparazione due azioni: un agguato al giudice Giancarlo Stiz, il primo ad aver indagato sulla “pista nera” per la strage di piazza Fontana; e un “attentato di eccezionale gravità che avrebbe riempito le pagine dei giornali nella prima settimana d’agosto”.

Sull’agguato a Stiz, Tamburino manda subito una nota scritta alla Procura di Padova. Dell’altro annuncio, più generico, parla con il comandante locale dei carabinieri, che gli organizza un incontro con Spella, allora dirigente del Centro Sisde (il servizio segreto civile, erede degli Affari riservati di D’Amato) di Padova. Tamburino lo incontra il 15, il 19 e il 22 luglio 1980. Poi ancora il 6 agosto, a strage compiuta, dopo aver scritto ai magistrati di Bologna che infatti interrogano subito Vettore Presilio, il quale conferma i suoi racconti, pur senza svelare le fonti. Qualche tempo dopo, il “nero” viene trovato in carcere massacrato di botte. In compenso l’agente segreto si dimentica gli incontri con il giudice. Li nega nell’interrogatorio del 25 gennaio 2019 e anche nel confronto con Tamburino del 14 maggio.

Indagato anche Piergiorgio Segatel, nel 1980 carabiniere a Genova. Mente, secondo gli investigatori, quando nega di essere andato un paio di volte da Mirella Robbio, moglie del neofascista di Ordine nuovo Mauro Meli, a chiederle di indagare tra i “vecchi amici del marito”, perché “la destra stava preparando qualcosa di veramente grosso”. E indagato infine Domenico Catracchia, amministratore di una società immobiliare usata da Vincenzo Parisi, capo della Polizia e poi vicedirettore del Sisde. Nega di aver affittato ai neofascisti dei Nar, nel settembre-novembre 1981, un appartamento in via Gradoli. Sì, proprio la via dove durante il sequestro di Aldo Moro, nel 1978, vivevano i brigatisti rossi Mario Moretti e Barbara Balzerani.

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