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Non solo Eni. Quando la pubblicità è un ricatto ai giornali

Non solo Eni. Quando la pubblicità è un ricatto ai giornali

Dopo che il Fatto quotidiano ha reso pubblica l’intenzione dell’Eni di togliere al giornale inserzioni pubblicitarie per 20 mila euro, in seguito agli articoli di Stefano Feltri e Carlo Tecce sullo scandalo internazionale delle tangenti petrolifere nigeriane, l’azienda comunica che “la nostra pianificazione sui giornali per il 2017 non è ancora stata definita e che il Fatto non ne è stato escluso”.

Caso chiuso, allora? È una storia lunga, quella dei rapporti tra inserzionisti e giornali. Non è la prima volta che le aziende minacciano il Fatto di chiudere i rubinetti della pubblicità: lo aveva fatto l’Enel, nel 2010, dopo un articolo di Giorgio Meletti che aveva criticato le modalità di quotazione in Borsa di Enel Green Power. Anche allora, lanciato il sasso, l’Enel, dopo le polemiche divampate sulla stampa, aveva ritirato la mano.

La pubblicità, carburante necessario per far vivere quasi tutte le testate giornalistiche, è da sempre una possibile arma di ricatto nelle mani delle aziende che cercano di ottenere “buona stampa”. È però raro che si arrivi al blocco dei budget. Come quando hai una pistola carica, vinci finché non spari: ottieni il tuo risultato senza clamori. Quando schiacci il grilletto, hai perso: non sei riuscito a bloccare le notizie sgradite e per di più ti sei attirato gli sguardi di tutti.

Eppure talvolta succede. Succede che sui voli Alitalia non si trovi il numero dell’Espresso con la copertina dedicata alla crisi infinita di Alitalia, con i conti veri, il buco milionario, gli investimenti sbagliati raccontati da Vittorio Malagutti. Succede che Dolce & Gabbana cancellino 300 mila euro di pubblicità al Sole 24 ore, per ritorsione a un articolo sul Domenicale della scrittrice Camilla Baresani. Nel 2006 aveva osato criticare il Gold, ristorante in stile emirati arabi, tutto enfasi, oro e specchi, aperto a Milano dalla coppia di stilisti. Ad essere definita poco meno che immangiabile era la cotoletta: Dolce & Gabbana non solo tolsero la pubblicità al Sole, allora diretto da Ferruccio de Bortoli, ma andarono anche in tv, alle Invasioni barbariche, a dire che Baresani era “una stronza frustrata, perché probabilmente grassa”. Oggi la scrittrice ci ride su: “La pubblicità dei due tornò dopo un articolo riparatore che magnificò il ristorante. Comunque negli anni successivi in ogni giornale su cui scrivevo mi dicevano: ‘Mi raccomando, niente recensioni negative!’. Mi sono dovuta rifare scrivendo un libro, Gli sbafatori (Mondadori), in cui ho finalmente potuto raccontare il circo sfigato dei recensori di ristoranti e alberghi, governato da un pugno di pierre che controllano il mercato ed escludono dal giro chi non obbedisce ai loro ordini”.

Cibo e, ancor più, moda, sono settori in cui la pubblicità detta la linea editoriale dei giornali. Ma, più in generale, i grandi investitori sono sempre tentati di condizionare la stampa. “Siamo preoccupati per interventi così gravi”, commenta Beppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa, il sindacato dei giornalisti, d’accordo con il segretario generale Raffaele Lorusso. “Bloccare la pubblicità al Fatto o la distribuzione sugli aerei dell’Espresso sono forme di ritorsione economica contro notizie non gradite, sono modi per boicottare il diritto di cronaca, come pure le querele temerarie. È un peccato che Agcom, così sollecita a intervenire in altri casi, resti silenziosa davanti a queste minacce”.

I casi di blocco della pubblicità sono difficili anche da portare alla luce, perché perfino chi ne resta vittima non ha voglia di andarlo in giro a raccontare: come per gli stupri, chi li subisce tende a vergognarsene davanti al mercato pubblicitario da cui dipende la vita della testata. Si sa per esempio che Mediobanca non fu affatto contenta, nel 2012, di alcuni articoli sulla fusione Unipol-Fonsai usciti su Repubblica, molto critici sui conti di Unipol, e lo fece sapere al direttore Ezio Mauro.

La Fiat poi ha una lunga storia di rapporti tesi con l’informazione. Nel 1998 tolse il budget al Manifesto, dopo un’intervista di Paolo Griseri a Edoardo Agnelli, molto polemico con la famiglia. Anni prima, l’aveva sospeso al gruppo Repubblica, come racconta Giampaolo Pansa in uno dei suoi libri. Erano gli anni di Mani pulite quando l’Espresso uscì, il 1 marzo 1993, con in copertina Gianni Agnelli e Cesare Romiti sopra il titolo “Colpo di spugna?”, che rimandava a un articolo dello stesso Pansa sulle tangenti dell’azienda torinese. “La Fiat ci toglie la pubblicità”, confidò poi a Pansa il mitico direttore Claudio Rinaldi, “pare che siano 12 miliardi di lire all’anno, tra noi e Repubblica. In più ha annullato un ordine di computer all’Olivetti (allora posseduta da Carlo De Benedetti, editore di Espresso e Repubblica, ndr) per altri 15 miliardi”. All’estero c’è invece chi toglie la pubblicità per nobili motivi: la Lego al Daily Mail, nel 2016, per i suoi articoli razzisti contro gli immigrati.

Il Fatto quotidiano, 25 gennaio 2017
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