GIUSTIZIA

Davigo: caso Genova, ovvero la tangente fatturata

Davigo: caso Genova, ovvero la tangente fatturata

Se i soldi che un politico riceve da un imprenditore sono regolarmente registrati, non sono più una tangente? È quanto sostiene chi difende il presidente della Liguria Giovanni Toti coinvolto nel caso Genova. “Il problema non è se i soldi ricevuti sono fatturati o no, ma se c’è una contropartita o no”, risponde l’ex magistrato Piercamillo Davigo. “Il problema è se il funzionario pubblico o l’incaricato di pubblico servizio prende soldi da un imprenditore per dargli qualcosa in cambio”. E a Genova gli affari in discussione tra il presidente della Regione e gli imprenditori erano parecchi e di rilevante valore economico.

Gli imprenditori sostengono di voler semplicemente sostenere la politica.

È la causale che conta. Dipende qual è l’obiettivo che l’imprenditore vuole raggiungere con i suoi finanziamenti. Se vuole qualcosa in cambio. Io sull’inchiesta di Genova parlo naturalmente da semplice lettore. Dobbiamo capire la differenza, per esempio, tra attività lobbistica e corruzione. Un imprenditore che fabbrica treni può legittimamente spendere soldi per convegni e attività volte a convincere i politici che il trasporto su rotaia è meglio di quello su gomma. Ma se invece paga il politico per far comprare i propri treni, allora non fa più lobbismo, ma corruzione. In teoria è ben chiaro, anche se in pratica è molto più complicato.

Altro argomento di chi difende gli indagati per corruzione: le decisioni degli amministratori pubblici sono di solito prese con atti collegiali, dunque la responsabilità non può essere individuale.

Ma questo riguarda soltanto il titolo di reato, non il fatto che sia lecito: quello che è illecito è che un pubblico ufficiale, un incaricato di pubblico servizio, riceva delle utilità da un privato per compiere atti inerenti al suo ufficio. Questo è vietato dalla legge italiana e dalle convenzioni internazionali.

Ci sono anche le convenzioni internazionali: dunque non sarebbe sufficiente neppure cambiare, su queste materie, le norme italiane?

No. Adesso c’è la mania di fare “riforme” della giustizia e cambiare norme che sono però previste da convenzioni internazionali. Se le cambiassimo davvero, però, l’Italia diventerebbe uno “Stato canaglia”, che firma convenzioni che poi non rispetta.

C’è un altro metodo per risolvere il problema e rendere invisibile la corruzione: togliere ai magistrati gli strumenti per scoprirla. Per esempio proibendo l’impiego dei troyan nelle indagini, riducendo le intercettazioni…

A me l’hanno insegnato quando andavo a catechismo: “Settimo, non rubare”. Siamo ancora d’accordo con questo? Io vorrei che ce lo dicessero una volta per tutte, perché è inutile proclamare di volere una politica onesta e per bene, se poi tolgono gli strumenti per vedere se sono davvero tutti onesti e per bene. Le intercettazioni sono importanti, ma non sono l’unico strumento, ce ne sono anche di più efficaci: però non li introducono. Per esempio, l’Italia ha ratificato una convenzione internazionale che prevede l’impiego di operazioni sotto copertura. Ma non ha mai varato le norme d’attuazione, quindi che io sappia nei casi di corruzione non sono mai state fatte indagini con infiltrati sotto copertura. Invece chi le avversa le paragona all’impiego di un “agente provocatore”, a quello che negli Stati Uniti chiamano “test d’integrità”: un agente va dal politico e gli offre dei soldi, se questo li accetta, lo arresta. In Italia potremmo almeno porci la domanda: perché da noi le opere pubbliche costano il doppio della media europea?

Una constatazione basata su dati fattuali, fin dai tempi di Mani pulite.

Non solo, le opere pubbliche sono spesso anche fatte male, e poi i ponti crollano… Ma è così difficile mandare un agente di polizia giudiziaria che si finge imprenditore a partecipare a una gara d’appalto, e quando gli offrono dei soldi o gli fanno delle minacce per farlo ritirare, far scattare gli arresti? È così riprovevole? Io penso che riprovevoli siano le gare d’appalto truccate, che raddoppiano i costi delle opere e spesso producono incompiute, opere inutili o mal fatte.

Chi critica le intercettazioni come metodo di indagine dice che al telefono tutti noi diciamo cose di cui potremmo pentirci, o che potrebbero essere fraintese.

Non tutti parlano al telefono di opere pubbliche da fare con soldi pubblici. E comunque è vero che le intercettazioni sono uno strumento complesso, ma proprio per questo non ha senso limitarle troppo, perché più materiale hai a disposizione e meno corri il rischio di incorrere in equivoci.

Dopo il caso Genova, la soluzione proposta da molti è il ritorno al finanziamento pubblico ai partiti.

Il finanziamento pubblico va benissimo, purché poi si controlli come vengono spesi i soldi pubblici distribuiti ai partiti. Ricordo un politico che dei rimborsi elettorali disse: “Sono soldi nostri, ne facciamo quello ci pare”. No, non sono soldi loro, sono soldi nostri, dei contribuenti. I partiti poi in Italia continuano a essere associazioni non riconosciute, così possono fare cose che una società di persone o una srl non potrebbe mai fare.

Ora, per raccogliere finanziamenti, i politici usano, anche nel caso Genova, le fondazioni.

Le fondazioni spesso sono schermi fittizi d’interposizione tra il politico e l’imprenditore che eroga i contributi. Comunque, più in generale: se i commentatori parlassero un po’ meno male dei magistrati e stigmatizzassero i comportamenti dei ladri, sarebbe meglio.

Il Fatto quotidiano, 17 maggio 2024
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