SEGRETI

Bologna, la strage nera della P2. E il revisionismo di governo di Giorgia Meloni

Bologna, la strage nera della P2. E il revisionismo di governo di Giorgia Meloni

43 anni dopo, il partito di Giorgia Meloni vuole una commissione d’inchiesta per dimenticare le sentenze e trasformare la “strage fascista” in “strage palestinese”: vuole lavare l’album di famiglia dalla macchia nera della strage

Sono passati 43 anni da quel botto, da quel sangue, da quell’orrore. La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, con i suoi 85 morti e oltre 200 feriti, non è soltanto il più grave atto terroristico mai realizzato in Italia: è il picco di una storia politica iniziata il 12 dicembre 1969 in piazza Fontana a Milano e chiusa (speriamo per sempre) nell’estate del 1993 a Firenze, Milano e Roma. È il culmine di una storia che si fa con le bombe. Protagonisti: gruppi criminali, neri e mafiosi, ma anche, sempre e immancabilmente, pezzi di apparati dello Stato che ogni volta intervengono, ingarbugliano, depistano.

Di questa terribile storia nera, la strage di Bologna è quella con maggiori conferme giudiziarie: i “misteri italiani” qui hanno nomi, cognomi, indirizzi, condanne, sentenze definitive. Eppure, più conferme arrivano, più elementi si aggiungono, più pagine si accumulano a comporre la storia della “strage della P2”, e più si alzano le voci che moltiplicano i dubbi, ripetono i balbettii, ripresentano vecchi depistaggi lucidati a nuovo.

Oggi a Bologna, al ricordo del 2 agosto di 43 anni fa, ci saranno i famigliari delle vittime che hanno sempre tenuto viva la memoria, ci sarà la città che non ha mai dimenticato e ci sarà, a nome del governo, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ma gli uomini della maggioranza di governo – e in special modo quelli del partito di Giorgia Meloni – saranno impegnati in un’altra partita, a Roma: impiantare una commissione parlamentare d’inchiesta che smonti le sentenze fin qui accumulate e le neghi, sostituendo la accertata “pista nera” con l’eterna e sempre smentita “pista internazionale”.

È Federico Mollicone, di Fratelli d’Italia, a chiederla da tempo: nel tentativo di ripulire l’album di famiglia, far scomparire la strage fascista ed estrarre dal sottosuolo, come per incanto, la “strage palestinese”. Niente di nuovo, la “pista internazionale” compare subito dopo le prime indagini: ma viene smascherata come depistaggio dei servizi segreti dominati dalla P2 di Licio Gelli, condannato – a 10 anni per aver agito “al fine di assicurare l’impunità agli autori della strage” – insieme agli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte e al consulente del servizio segreto militare Francesco Pazienza.

Il primo processo (1987-1995) condanna in primo grado all’ergastolo, per strage, non soltanto Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, ma anche Massimiliano Fachini e Sergio Picciafuoco. Per banda armata, oltre a Fioravanti e Mambro, condanna anche Gilberto Cavallini, Massimiliano Fachini, Egidio Giuliani, Sergio Picciafuoco, Roberto Rinani e Paolo Signorelli. In appello, cade per tutti l’imputazione di strage. Confermate solo le condanne per banda armata (a Fioravanti e a Mambro, a Cavallini e a Giuliani). È la Cassazione che ribalta la vicenda. Nel febbraio 1992, le sezioni unite penali dichiarano che il processo d’appello deve essere rifatto, perché la sentenza è illogica e priva di fondamento, “tanto che in alcune parti i giudici hanno sostenuto tesi inverosimili che nemmeno la difesa aveva sostenuto”. Il secondo appello termina nel 1994 con la condanna all’ergastolo, per strage, di Fioravanti, Mambro e Picciafuoco e con l’assoluzione di Fachini. Confermate le condanne per banda armata a Cavallini, Giuliani e Picciafuoco, oltre che a Fioravanti e Mambro. Il sigillo finale è posto dalla Cassazione nel 1995, con la conferma delle condanne (tranne che per Picciafuoco).

C’è un secondo processo (1997-2007): a parte viene giudicato Luigi Ciavardini, perché all’epoca della strage era minorenne. Anche lui viene condannato, dopo due appelli, a 30 anni per strage.

Il terzo processo inizia nel 2017 e ha un solo imputato: Gilberto Cavallini. La sentenza di primo grado, il 9 gennaio 2020, lo condanna all’ergastolo.

Il quarto processo, iniziato nel 2020, condanna in primo grado per strage, come esecutore, Paolo Bellini, informatore dei carabinieri, infiltrato in Cosa nostra e neofascista: non dei Nar (i Nuclei armati rivoluzionari di Fioravanti), ma di Avanguardia nazionale, il gruppo di Stefano Delle Chiaie: è l’intera galassia nera che si muove per il grande botto del 2 agosto 1980. Ma questo quarto processo cerca di dare un volto anche ai mandanti della strage: li indica in Licio Gelli, che avrebbe finanziato i gruppi fascisti con soldi sottratti al banchiere piduista Roberto Calvi; in Federico Umberto D’Amato, la più luciferina delle spie italiane, il gran capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno; e in Mario Tedeschi, senatore del Msi e direttore del settimanale Il Borghese, che si sarebbe occupato della “gestione mediatica dell’evento strage”.

“Hanno marciato divisi, ma per colpire uniti. Non c’è una destra extraparlamentare e una destra parlamentare, Presidente. No, c’è un’estrema destra, che si divide strumentalmente… Per quello che ho potuto constatare io, l’ispiratore di queste formazioni di estrema destra, quelli che sono sempre stati i loro punti di riferimento effettivi, sono sempre stati interni al Movimento sociale italiano”. A parlare così, interrogato come testimone al processo Bellini, è uno che se ne intende, Vincenzo Vinciguerra, “soldato rivoluzionario” prima di Ordine nuovo, poi di Avanguardia nazionale, che lancia la sfida allo Stato con la bomba di Peteano che nel 1972 uccide tre carabinieri e poi denuncia la compromissione dei suoi camerati, che si mettono con le bombe al servizio di quello Stato che dicevano di voler combattere.

Oggi siamo da capo. L’onorevole Mollicone torna alla “pista palestinese”. La bomba alla stazione l’avrebbero messa i guerriglieri del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) come ritorsione per l’arresto del loro militante Abu Saleh, fermato a Bologna il 13 novembre 1979 perché ritenuto il responsabile del trasporto di missili Strela sequestrati in quelle settimane dai carabinieri a Ortona. Mollicone chiede anche che siano resi accessibili i documenti segreti su Abu Saleh. “Documenti che non esistono”, ribatte Paolo Bolognesi, il presidente dell’associazione dei parenti delle vittime della strage. “È l’ennesimo polverone alzato sul 2 agosto, è tutta fuffa”.

A bocciare (per l’ennesima volta) la “pista palestinese” è stato, a giugno, il sostituto procuratore generale bolognese Nicola Proto nella sua requisitoria al processo d’appello a Cavallini. La trattativa con i palestinesi ci fu, ma proprio il “buon esito” di quella trattativa tolse al Fplp “qualsiasi interesse” a compiere un atto di ritorsione come una strage, senza contare che l’interlocuzione proseguì anche dopo il 2 agosto, cosa che “non sarebbe stata logica, così come non sarebbe stato logico indennizzare il Fplp per il valore dei lanciamissili sequestrati, se nel frattempo i palestinesi avessero commesso una strage in cui erano morte 85 persone”. Ma Mollicone insiste: vuole lavare l’album di famiglia di Giorgia Meloni dalla macchia nera della strage.

L’ex giudice Leonardo Grassi
Gli eredi del Msi vogliono azzerare le sentenze perché si sentono coinvolti

La strage di Bologna tende a sfuggire alla retorica dei “misteri d’Italia” perché ha avuto negli anni molte sentenze che hanno confermato la matrice nera, il contesto piduista, i nomi degli esecutori. Eppure gli esiti giudiziari, benché passati in giudicato, sono sempre contestati, facendo balenare la possibilità di piste alternative a quella neofascista e piduista. Tenta di spiegarne le ragioni Leonardo Grassi, che da giudice istruttore a Bologna indagò sull’eversione nera e oggi è componente della commissione sulla desecretazione degli atti sulle stragi.

Perché tanta opposizione alla “pista nera” per Bologna?

La strage del 1980 è quella più contestata nei suoi risultati giudiziari perché le indagini e poi le sentenze hanno toccato punti ancora oggi sensibili di un sistema politico ancora attivo. Per questo continuano a provocare reazioni che diventano tanto più forti, quanto più i risultati processuali si consolidano. E hanno toccato verità ancora oggi indicibili: secondo la sentenza Bellini, per esempio, i neri di Fioravanti avevano a disposizione covi controllati dal Sisde, uno a Milano in via Washington e altri a Roma in Via Gradoli.

Bellini è coinvolto anche nelle indagini sulle stragi del 1992-93.

Sì, è uomo di Avanguardia nazionale, il gruppo di Stefano Delle Chiaie, ed è stato informatore dei carabinieri e infiltrato in Cosa nostra nel periodo delle stragi di mafia del 1992-93. Opportunamente i famigliari delle vittime della strage del 2 agosto hanno messo, nel manifesto di questo anniversario, anche un richiamo alle stragi degli anni Novanta.

C’è continuità tra la strage Bologna e quelle degli anni Novanta?

Quella del 2 agosto è stata l’ultima delle stragi di un ciclo iniziato in piazza Fontana nel 1969, legate alla guerra fredda in Italia e realizzate da soggetti del terrorismo fascista. Ma è anche in qualche modo la prima di un nuovo ciclo, che è continuato con la “strage di Natale” del 1984 e poi con gli attentati del 92-93: stragi realizzate da gruppi mafiosi, con la presenza di altre entità su cui sono ancora aperte le indagini. Il terrore stragista doveva servire non più per realizzare un golpe, ma per sfibrare il sistema democratico e imporre una soluzione politica come quella del “Piano di rinascita” che prevedeva la contrazione dei diritti democratici, il condizionamento della magistratura e del sindacato, il controllo della tv e della stampa, la manomissione della Costituzione.

Oggi viene riproposta la “pista palestinese”.

È l’eterno depistaggio per incidere sulle indagini e sui processi. E nello stesso tempo è lo strumento di propaganda politica fuori dai processi per ipotizzare una visione alternativa. Ma tutte le sentenze l’hanno esclusa. Sono stati condannati per depistaggio Gelli e due uomini dei servizi segreti che per primi l’hanno messa in scena facendo trovare armi, esplosivo e documenti sul treno Taranto-Milano. Peraltro, lo stesso Francesco Cossiga aveva subito indicato la matrice fascista della strage, per poi cambiare idea e divenire uno dei sostenitori della responsabilità palestinese. Alla pista nera arrivarono anche i primi accertamenti del Sisde, il servizio segreto civile: poi fu Gelli a ordinare agli uomini della P2 dentro il servizio di “aprire” la pista internazionale. È comprensibile che oggi si torni alla “pista palestinese”: è il modo con cui la parte politica che si sente coinvolta, e oggi è al governo, cerca una via d’uscita. Perché il partito di Giorgia Meloni rivendica la sua continuità con il Movimento sociale italiano e questo è contiguo al mondo da cui provengono gli esecutori delle stragi.

Ha senso una nuova commissione parlamentare d’inchiesta?

Io sono molto critico sulle commissioni parlamentari d’inchiesta. L’unica che ha funzionato è quella sulla P2 guidata da Tina Anselmi. Le altre, anche quelle sulle stragi, sono state utilissime a creare enormi archivi di documenti, ma non hanno raggiunto risultati significativi. Le passerelle dei politici prevalgono sull’accertamento della verità.

 

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Il Fatto quotidiano, 2 agosto 2023
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