SEGRETI

Strage di Bologna. La sentenza indica i mandanti: Gelli e lo zar dei servizi segreti

Strage di Bologna. La sentenza indica i mandanti: Gelli e lo zar dei servizi segreti

di Gianni Barbacetto e Sarah Buono /

Non è soltanto la ricostruzione del più sanguinoso attentato del dopoguerra. È la mappa per addentrarsi nel cuore nero della storia italiana. Le 1.724 pagine delle motivazioni della sentenza sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 (85 morti, oltre 200 feriti) spiegano che il neofascista Paolo Bellini, condannato all’ergastolo, è uno degli esecutori che si aggiunge agli altri già condannati in via definitiva (Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Luigi Ciavardini) o in attesa d’appello (Gilberto Cavallini).

Ma la “sentenza Bellini” disegna, sopra l’agitarsi criminale dei neofascisti, la trama tranquilla dei mandanti. Fino agli architetti dei poteri segreti, i vertici della massoneria occulta e degli apparati riservati dello Stato. “All’attuazione della strage contribuirono in modi non definiti, ma di cui vi è precisa ed eclatante prova nel ‘Documento Bologna’, Licio Gelli e il vertice di una sorta di servizio segreto occulto che vede in Federico Umberto D’Amato la figura di riferimento in ambito atlantico ed europeo”.

Gelli è il Maestro venerabile della loggia P2. D’Amato è lo zar degli spioni italiani, il gran capo dell’Ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno. Con loro è coinvolto anche Mario Tedeschi, che fu senatore del Movimento sociale italiano.

“Ciò che questo processo ha dimostrato è che la distanza tra i vertici piduisti e il terrorismo eversivo di questa destra era davvero minimo; i due mondi si conoscevano, erano in diretto contatto e potevano parlarsi ed accordarsi con poche mediazioni, avendo ovviamente riguardo ai contesti strategici nei quali i tempi, i modi, le contingenze e le opportunità erano decisi dalle istanze al vertice e oltre. Gli scopi ultimi non erano le velleità antistituzionali dei terroristi dei gruppetti della destra; costoro erano pedine manovrate e alimentate dai veleni stupefacenti dell’ideologia, sapientemente inoculata per mantenere alta la disponibilità all’azione”.

L’attentato di Bologna come atto politico: per “influire sulla politica nazionale attraverso la strage indiscriminata per chiudere definitivamente con il passato resistenziale del nostro Paese, di cui l’omicidio dell’onorevole Moro e poi del presidente Piersanti Mattarella furono precisi momenti attuativi”. In primo piano è lui, Bellini, ladro di lungo corso, estremista di Avanguardia nazionale, informatore dei carabinieri, killer di mafia, pedina della Trattativa Stato-mafia del 1992-93.

“Ha dimostrato nel corso della sua lunga e complessa carriera criminale di aver saputo incanalare la sua naturale predisposizione ad uccidere in un quadro di professionalità, divenendo un killer disposto ad agire su commissione per operazioni spregiudicate di qualsiasi natura”, scrive la Corte d’Assise presieduta dal giudice Francesco Caruso. Bellini fa parte del composito intergruppo che ha eseguito l’attentato.

Il loro non è “spontaneismo armato”: è tentativo di ricomposizione della galassia neofascista, continuazione dello stragismo inaugurato nel 1969 in piazza Fontana. Sopra quella galassia, ci sono altre stelle: i mandanti, il livello superiore che finanzia, sostiene, depista. “L’ipotesi sui ‘mandanti’ non è un’esigenza di tipo logico-investigativo, ma un punto fermo”, dice la sentenza.

La strage è commessa in concorso con Licio Gelli, Umberto Ortolani, Federico Umberto D’Amato e Mario Tedeschi, tutti deceduti. “I mandanti”, per i giudici bolognesi, non sono “una generica indicazione concettuale, ma nomi e cognomi nei confronti dei quali il quadro indiziario è talmente corposo da giustificare l’assunzione di uno scenario politico, caratterizzato dalle attività e dai ruoli svolti nella politica internazionale da quelle figure”.

Centrale in questo processo è il “Documento Bologna”, l’appunto di Licio Gelli sui conti esteri che hanno finanziato la strage. “Il fatto che l’orribile azione fosse stata remunerata economicamente e per di più da parte di soggetti che raccoglievano attorno a loro un parterre di uomini delle istituzioni appare a maggior ragione inconfessabile o riferibile anche da chi ne fosse soltanto a conoscenza”.

Continuano i giudici: “Ciò che si vuole disegnare è uno scenario nel quale Gelli e D’Amato assumono un ruolo di fondo che non significa un’affermazione di responsabilità. Un ruolo che rende compatibile, spiega e inquadra la presenza e l’affermazione e la responsabilità nei confronti di Paolo Bellini che nell’area dei servizi segreti e delle operazioni sporche al servizio di mandanti di ogni genere, era compenetrato e attivo, come agente disponibile per ogni avventura”. Sepolta anche la “pista palestinese”, che tanto piace agli attuali compagni di partito di Giorgia Meloni: fu preparata e costruita come depistaggio mediatico preventivo e preordinato.

 

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di Gianni Barbacetto e Sarah Buono / Il Fatto quotidiano, 6 aprile 2023
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