SEGRETI

Strage di Bologna, i depistaggi non finiscono mai

Strage di Bologna, i depistaggi non finiscono mai

Un dna sconosciuto. Un passaporto cileno. Tre covi di terroristi, rossi e neri, in palazzi di proprietà dei servizi segreti. Sono questi gli ultimi ingredienti del cocktail forte servito all’ultimo processo sulla strage di Bologna. Rivelazioni & depistaggi, nuove scoperte e vecchie bugie sono abilmente mixate in aula e sui giornali. Nel processo, imputato unico di strage è Gilberto Cavallini, terrorista nero dei Nar, il gruppo di Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini, già condannati in via definitiva per il più sanguinoso degli attentati italiani (85 morti, 200 feriti). Fuori dal processo, continua la guerra dell’informazione e della disinformazione, iniziata già il 2 agosto 1980, subito dopo l’esplosione che squarciò la stazione di Bologna.

Giovedì 10 ottobre: gli avvocati di parte civile che assistono l’Associazione dei famigliari delle vittime depositano una memoria che racconta la strana storia di due palazzi romani, in via Gradoli. Al numero 96, durante il sequestro di Aldo Moro, nel 1978, vivevano i brigatisti rossi Mario Moretti e Barbara Balzerani. Un appartamento del numero 65, poco distante, nel 1981 era frequentato invece da Gilberto Cavallini, Francesca Mambro, Giorgio Vale e Stefano Soderini, militanti neri dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari di Fioravanti. Sono i casi della vita – e gli intrecci della incredibile storia italiana. Fatti già conosciuti e già scritti nelle sentenze del caso Moro e del processo Nar 2, che racconta di due basi nere in via Gradoli.

Ma c’è un elemento nuovo, che ora unisce il covo rosso e i due neri: erano tutti di società riconducibili al Sisde, il servizio di sicurezza civile. L’amministratore unico della società proprietaria degli immobili al numero 96 e al numero 65 di via Gradoli era Domenico Catracchia. E l’Immobiliare Gradoli spa, amministrata da Catracchia, era controllata dalla Fidrev, “società di consulenza” del Sisde. Gli avvocati di parte civile ricordano nella loro memoria che Catracchia fu interrogato dalla polizia nel 1981, raccontò di aver riconosciuto i quattro terroristi neri, tra cui Mambro e Cavallini, ma “invitato a verbalizzare, si rifiutò dicendo di temere per la propria vita”.

Dopo il deposito della memoria che collega i covi di via Gradoli (e gli italianissimi loro frequentatori) ai servizi segreti, l’agenzia AdnKronos lancia una storia destinata a riaprire l’eterna “pista internazionale”, depistaggio della prima ora ma buono per tutte le stagioni. Una donna – scrive l’AdnKronos – avrebbe soggiornato il giorno della strage, il 2 agosto 1980, all’Hotel Milano di Bologna, proprio di fronte alla stazione. Si era fatta registrare con un passaporto cileno falso, numero 30435, rilasciato nella città di Quillota e intestato a Juanita Jaramillo.

Il documento faceva parte di una serie di sei passaporti contraffatti, tutti rilasciati a Quillota, usati da terroristi arabi, come il giordano Michel Archamides Doxi, addestrato in un campo libanese del Fplp (Fronte popolare di liberazione della Palestina), o da appartenenti al gruppo di Ilich Ramirez Sanchez, detto Carlos “lo Sciacallo”. L’AdnKronos attinge queste informazioni da relazioni dei servizi stilate negli anni Settanta. L’esito è rilanciare per la strage di Bologna l’eterna – e confusa – pista palestinese, sempre smentita dalle indagini e ritenuta il ricorrente depistaggio per cercare di negare le responsabilità dei neri italiani e, ancor più, di coprire i loro sponsor nelle agenzie di intelligence, in quegli anni controllate da uomini della P2 di Licio Gelli.

“Sono operazioni di depistaggio mediatico”, sostiene Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna. “Appena i nostri legali hanno indicato possibili rapporti tra la banda di Fioravanti e i servizi segreti, ecco rispuntare la pista internazionale”.

L’ultima mossa: l’allarme sul dna estratto dai resti conservati nella bara di Maria Fresu, una delle 85 vittime della strage. La Corte d’assise di Bologna che sta processando Gilberto Cavallini ha disposto l’esame del dna sui resti della donna (un osso della mano e un lembo facciale), confrontati con il dna del fratello e della sorella. Il risultato ha stabilito che non appartengono a Maria Fresu. Ed ecco subito Mambro e Fioravanti chiedere la riapertura del loro processo, in nome della (vecchia) teoria della ottantaseiesima vittima: una donna mai identificata che potrebbe essere l’attentatrice uccisa dalla sua stessa bomba.

La spiegazione più semplice la offre Bolognesi, che quel 2 agosto era purtroppo presente alla stazione, dove era accorso dopo l’esplosione alla ricerca dei suoi famigliari: “La scena era da film dell’orrore, c’erano brandelli umani disseminati dappertutto”. Furono raccolti e suddivisi come si poteva. In un sacco – il “reperto 56” – furono riuniti i resti che non si sapeva a chi attribuire. Ma il processo Cavallini – quello dentro l’aula – sta riconfermando la pista nera. Ecco dunque che – fuori dall’aula – si torna ad agitare vecchie piste alternative.

 

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Il Fatto quotidiano, 16 ottobre 2019
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