POLITICA

Perché Milano ha detto No al referendum sull’autonomia

Perché Milano ha detto No al referendum sull’autonomia

L’autonomia è come la mamma: tutti le vogliono bene. Non si può parlar male della mamma; e non si riesce a dir male dell’autonomia. Vi immaginate qualcuno che possa sostenere: no, non voglio più autonomia, desidero più sottomissione, subordinazione, asservimento, dipendenza, sudditanza, servitù, schiavitù. Impensabile. Ma dopo i due referendum in Lombardia e in Veneto, è utile cercare di capire di che autonomia parliamo. Intanto le due consultazioni sono state propagandate dalla Lega sul filo dell’imbroglio: in pubblico i leghisti dicevano che il referendum chiedeva soltanto più autonomia (appunto) al governo nelle materie previste dall’articolo 116 della Costituzione; ma la campagna elettorale vera la facevano gridando che l’obiettivo era quello di “tenersi i soldi”, di poter spendere in Lombardia le tasse pagate dai lombardi. Un obiettivo non previsto e non permesso dalla Costituzione, che esclude il fisco dalle materie che si possono sottoporre a referendum.

Ma poi: è un obiettivo giusto che le Regioni si tengano i soldi raccolti con le tasse? Se lo facessero, si dissolverebbe l’unità nazionale, con le Regioni più ricche destinate a diventare sempre più ricche e quelle povere sempre più povere. Del resto, il sistema di tenersi le tasse non dà affatto buoni risultati nelle Regioni dove già oggi è praticato: vedi (al Sud) la Sicilia e (al Nord) la Valle d’Aosta. L’autonomia fiscale delle Regioni autonome ha creato voraci apparati partitici, corruzione e sistemi assistenziali e clientelari. Altro che federalismo: in Italia è nato un poli-centralismo che ha aggiunto a quella che un tempo i leghisti chiamavano “Roma ladrona” altre 20 piccole capitali dello spreco e della corruzione. Meglio sarebbe abolirle, le Regioni, anche quelle a statuto ordinario, visto che hanno moltiplicato per 20 la burocrazia, il centralismo, gli scandali e la casta partitica che un tempo stava solo a Roma nel governo nazionale.

È vero che i cittadini chiedono – giustamente – più autonomia: ma per tornare in possesso delle risorse che producono, non per darle in mano ai nuovi apparati e ai vecchi uomini dei partiti dentro le Regioni, che hanno dimostrato negli ultimi anni – da Er Batman alle spese pazze dei gruppi consigliari, dalle vacanze d’oro di Formigoni fino al pranzo di nozze della figlia del consigliere leghista pagato con i rimborsi regionali – di aver generato la più corrotta e modesta e meschina delle caste politiche italiane. Più autonomia, sì: ma allora diamola agli enti locali più vicini ai cittadini, ai Comuni e alle Città metropolitane, che invece stanno morendo senza risorse.

Milano poi ci ha dato una bella lezione, all’ultimo referendum. In Lombardia non è che ci sia stato un plebiscito bombastico per chiedere l’autonomia: è andato a votare solo il 38,2 per cento degli elettori. E quelli che hanno votato “sì” sono stati meno di 3 milioni, sugli oltre 9 milioni di cittadini con diritto di voto. I picchi di partecipazione sono stati nelle valli bergamasche ad alto tasso di militanza leghista, dove l’affluenza ha sfiorato il 50 per cento.

Ma Milano, la Milano sempre lodata (anche a sproposito) per il suo ruolo di capitale morale e di locomotiva del Paese, ha dimostrato una freddezza assoluta nei confronti della sirena autonomista della Lega. A Milano, l’autonomia alla Maroni ha fatto flop. L’affluenza è stata solo del 31,2 nell’area metropolitana, ma addirittura del 26,4 in città. E attenzione: Milano ha anche il record dei “no” (6,5 per cento, quasi il doppio del 3,9 regionale), in un referendum dove chi andava a votare andava a dire “sì” all’autonomia, perché alla mamma non si può che voler bene.

 

 

 

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Il Fatto quotidiano, 27 ottobre 2017
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