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Spazzali: “La mia Mani pulite, io a mani nude contro il Trio Lescano”

Spazzali: “La mia Mani pulite, io a mani nude contro il Trio Lescano”

Mani pulite? “È come la battaglia di Canne”. Giuliano Spazzali, avvocato, è stato 25 anni fa il grande antagonista di Antonio Di Pietro, magistrato: gli ha tenuto testa, con scontri epici, nel processo Cusani, trasmesso in diretta tv e diventato per tutti “il” processo di Mani pulite. Oggi accetta di ricordare quella stagione e di fare un bilancio provvisorio di un fenomeno ormai lontano, dice, “come la battaglia di Canne”. Eppure Mani pulite scatena ancora oggi l’odio e l’amore, divide i detrattori dai sostenitori. Segno che quel che c’era dentro – la corruzione, i rapporti tra politica e affari, gli scontri tra politica e magistratura – è ancora un problema che scotta.

Come iniziò Mani pulite, per lei?

Ero a Ustica in vacanza, nell’estate 1993. Mi comunicano che un indagato di Mani pulite in carcere, Sergio Cusani, mi aveva nominato suo difensore. Io non lo conoscevo. Il mio nome gli era stato indicato da un suo amico fin dai tempi degli studi in Bocconi, Piero Ravelli, figlio dell’agente di Borsa Aldo Ravelli, che conoscevo. Aveva scelto me perché ricordava che avevo difeso studenti in processi politici.

Che rapporto ebbe con Cusani?

È l’unico cliente in tutta la mia carriera con cui siamo passati dal lei al tu. Ha mantenuto una sua linea chiara e netta. Ha ammesso le sue colpe, ha pagato per i suoi reati, ma non è corso “a pentirsi”, come facevano tutti in quei mesi, a denunciare quelli con cui aveva lavorato. Non ha ceduto al “Trio Lescano”.

Prego?

Antonio Di Pietro, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo. I pm di Mani pulite da cui tutti correvano a “pentirsi” per evitare il carcere. Cusani il carcere se l’è fatto tutto.

Colombo ripete che gli indagati che non hanno raccontato tutto si sono tenuti segreti che poi hanno funzionato come ricatti per il futuro, il “non detto” che ha alimentato le corruzioni che sono arrivate fino all’oggi.

Così dice “la bianca Colomba”. Ma no, il sistema di corruzione e finanziamenti illeciti della Prima Repubblica è finito con Mani pulite. La corruzione di oggi, che c’è, è nuova, non è figlia di quella vecchia. Il sistema si è riprodotto, ma in forme diverse. Cusani ha semplicemente rispettato la regola che aveva imparato dal suo maestro Ravelli: mai tradire il proprio cliente, per cui hai lavorato. Sapeva tutto, ma non lo ha detto. Ha solo ammesso le sue responsabilità. Per quelle degli altri, è compito dell’ufficio dell’accusa trovare le prove. Invece Mani pulite è cresciuta enormemente tutta sulle confessioni degli indagati. Non è una buona inchiesta, quella che si fonda non sulle indagini, ma sulle confessioni.

Con Di Pietro avete avuto degli scontri epici, lei giurista raffinato, lui pm irruente.

Di Pietro ha dimostrato una capacità di comunicazione straordinaria. Era incerto sui congiuntivi, parlava in una lingua meticciata e le questioni tecnico-giuridiche gliele risolveva tutte Davigo, il “Dottor Sottile”, ma lui in tv è stato efficacissimo. Mani pulite si è in gran parte giocata con le confessioni e i patteggiamenti, l’unico vero processo è stato il processo Cusani, con Di Pietro che esibiva mezzi ultramoderni, mai visti prima d’allora in un’aula giudiziaria, come le proiezioni di schemi dal computer. Ma poi concludeva con frasi come “Ma che c’azzecca?”. E conquistava il pubblico tv.

Un processo-simbolo, quello Cusani, iniziato nell’ottobre 1993 con un solo imputato, il suo assistito, accusato di falso in bilancio e illecito finanziamento ai partiti per aver portato soldi della Montedison a tutti i partiti, per chiudere l’avventura Enimont che aveva tentato di sposare la chimica privata Montedison con quella pubblica di Eni.

Il mio primo atto come difensore di Cusani – lo racconto ora per la prima volta – è stato quello di andare alla sede della Montedison a spiegare come mai Cusani non aveva scelto un avvocato della Montedison. Trovai ad aspettarmi Carlo Sama, allora amministratore delegato e cognato di Raul Gardini, altri dirigenti della società e l’avvocato Luca Mucci. Dissi che avrei seguito le indicazioni del mio assistito.

Poi Sama fu imputato nel processo Enimont, in cui fu condannato insieme ai leader di tutti i partiti.

Sì. In quei mesi c’erano stati anche i suicidi di Raul Gardini e del presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Ma il processo Cusani nacque da una mossa furba di Di Pietro. Io ero andato a parlare con Francesco Greco, allora pm e oggi procuratore di Milano, che mi aveva detto: dì a Cusani di raccontare tre cose a Di Pietro e così esce da San Vittore. Ma Cusani niente. Era diventato la disperazione del direttore del carcere, perché si era messo a dirigere l’intero raggio e a far rispettare i diritti dei carcerati. E non voleva parlare. Allora Di Pietro lo mandò a processo, da solo, a giudizio immediato. Io resto convinto che fu una mossa non corretta, perché il giudizio immediato dipendeva dal momento in cui era stato iscritto nel registro degli indagati e il tempo ormai era scaduto. Ma Mani pulite era così: un’inchiesta contenitore, da cui erano via via aperti, a piacimento del Trio Lescano, i vari processi. L’ho visto, il fascicolo-madre: era immenso, occupava tutte le pareti fino al soffitto di un’intera stanza. Chissà quante cose c’erano, là dentro.

Al processo Cusani sfilarono, come testimoni, tutti i leader di partito che poi saranno condannati come imputati nel successivo processo Enimont, iniziato nell’aprile 1994. Anche Bettino Craxi, che fu trattato con grande rispetto. E anche Umberto Bossi. Il “vecchio” e il “nuovo”…

Craxi aveva ammesso il finanziamento illecito e questo a Di Pietro bastò. Io non gli feci alcuna domanda. Lo conoscevo bene, fin dai tempi dell’Ugi, l’Unione Goliardica Italiana: avevamo litigato molto, all’università, perché io avevo fatto entrare nell’Ugi gli studenti comunisti, con in testa il giovane Achille Occhetto. Molti anni dopo, al processo, sapevo che domande fargli per fargli male, ma non le ho fatte. Forse sono stato pavido.

Invece foste voi a far emergere un fatto che Di Pietro non sapeva ancora: i 200 milioni di lire della Montedison ad Alessandro Patelli, per la Lega di Bossi.

Dopo quell’udienza, ricevetti minacce pesanti. Il mio numero fu tolto dall’elenco telefonico – c’era ancora l’elenco telefonico – e io fui messo sotto protezione.

Alla fine del dibattimento, la sua strategia processuale non salvò Cusani dalla condanna: 6 anni e 6 mesi, poi ridotti a 5 anni e 10 mesi.

Cusani decise lui la strategia processuale e io lo assistetti con grande ammirazione. Decise di non rispondere alla domande di Di Pietro, ma di rendere alla fine dichiarazioni spontanee: disse che non spettava a lui portare prove per l’accusa, ma che se le accuse erano vere, la pena richiesta dal pubblico ministero era troppo bassa. E infatti i giudici la alzarono. Poi ebbe un comportamento carcerario esemplare e ottenne la riabilitazione.

Nel processo non emersero le prove per i soldi portati in una valigia a Botteghe Oscure, allora sede del Pci. La borsa con un miliardo di lire entrò dal portone, ma non si sa a chi finì. Avete salvato voi i comunisti?

Anche il Partito comunista era destinatario di somme cospicue. Cusani è rimasto coerente con la sua scelta di non fare lui il lavoro che devono fare i magistrati dell’accusa. Ma non sapeva neppure lui a chi fosse finita la valigia di Botteghe Oscure. Le indagini sul Pci incastrarono, per altri fatti, al massimo Primo Greganti: succede così quando basi le inchieste sulle confessioni e non fai indagini in proprio.

Mani pulite è stata una operazione politica, come dicono ancora oggi i detrattori? Una “rivoluzione giudiziaria”?

Ma no. In quegli anni era in corso una grande trasformazione sociale e politica. Declinavano la Dc, il Psi, il Pri, il Psdi, il Pli. Il Pci stava cambiando nome e natura. Era nata la Lega, poi arrivò con il suo partito Silvio Berlusconi. Non fu Mani pulite a provocare tutto ciò, Mani pulite fu al massimo l’ostetrica, l’assistente al parto.

Non ci fu, come dicono tanti suoi colleghi avvocati, un uso eccessivo della custodia cautelare per far parlare gli indagati?

Non più di adesso. Non ho mai creduto al complotto politico. L’attività della magistratura si sviluppa sempre in un certo contesto storico. Negli anni di Mani pulite il palazzo di giustizia di Milano fu la sala parto del cambiamento politico. Ma la madre e il padre non erano certo Di Pietro, Davigo e Colombo.

La stampa ebbe un ruolo importante negli anni di Mani pulite. Raccontò in diretta l’inchiesta senza timori per i potenti, mostrando che finalmente la legge era uguale per tutti.

C’era una corsia preferenziale per certe cose, e non per altre, che passavano dalla Procura ai giornali. Più che notizie, “avvisi ai naviganti”.

Come si è comportata, durante Mani pulite, l’avvocatura?

Ne è uscita malissimo. Con le ossa rotte. Faceva a gara a portare i clienti in Procura a confessare. Ma l’avvocato non deve dare un contributo a cambiare il contesto sociale, fa un altro lavoro. Io ho avuto premi, anni dopo, per essere stato l’unico a non aver ceduto: per mia incapacità anche solo a pensarlo; ma anche perché ho avuto la fortuna di avere un cliente, Sergio Cusani, robusto e non cinico e baro.

 

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Il Fatto quotidiano, 3 luglio 2017 (versione ampliata)
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