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Mani pulite, quando la stampa tifava per la legalità

Mani pulite, quando la stampa tifava per la legalità

Mani pulite è stata il grande racconto in diretta di una storia piena di colpi di scena: rivelazioni e scoperte, arresti e confessioni, eroismi e tradimenti, cadute e tentativi di insabbiamento, lacrime e applausi. Per un paio d’anni, tra il 1992 e il 1994, ogni mattina i giornali documentano una grande trasformazione in corso, raccontano una vicenda drammatica ed esaltante fatta di soldi e potere, orgoglio e vergogna, con i politici che confessano le spartizioni segrete e i magistrati che svelano il sistema della corruzione. Di questa storia, gli italiani in quegli anni si sentono protagonisti. Molti addirittura tifosi. Per la prima volta nella storia della Repubblica, percepiscono che la legge è davvero uguale per tutti. In questa storia, l’informazione ha un ruolo cruciale. Succede infatti che i giornali italiani, di solito così ossequiosi con il potere, così servili con la politica, si lasciano contagiare dall’entusiasmo della stragrande maggioranza dei loro lettori, tanto da raccontare in presa diretta l’inchiesta che sembrava dovesse cambiare l’Italia.

All’inizio – dopo quel 17 febbraio 1992 in cui viene arrestato il socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio – il decollo è lento. I giornali raccontano in cronaca quella che appare come una piccola vicenda di tangenti. È il “caso Chiesa”, roba già vista tante volte in passato. È la scoperta di un “mariuolo”, come dice subito il segretario del Psi Bettino Craxi. Una “mela marcia” in un paniere sano. Ma il magistrato che ha avviato l’inchiesta, l’ex poliziotto Antonio Di Pietro, sa chi è Chiesa e conosce il rito ambrosiano della mazzetta, tanto da aver già scritto, su un piccolo mensile milanese che della corruzione ha fatto il suo cavallo di battaglia, Società civile, che a Milano si pratica la “dazione ambientale”, la tangente automatica che scatta senza neppure bisogno che l’imprenditore prema e il politico esiga. Di Pietro sa. Ma cerca le prove. Convoca allora in Procura tutti i fornitori del Trivulzio. Riesce a farsi raccontare che anche loro pagano. E non soltanto Chiesa. Inizia la reazione a catena. Dalla piccola tangente numero uno si passa a grappoli di tangenti per ogni lavoro pubblico, per ogni fornitura, per ogni cantiere. Nelle redazioni dei giornali inizia la fibrillazione. Il “caso Chiesa” diventa il “caso tangenti”. Poi sarà “Tangentopoli”.

A palazzo di giustizia si forma il “pool Mani pulite”, con i magistrati Piercamillo Davigo e Gherardo Colombo che arrivano a dar man forte a Di Pietro. Nella sala stampa del palazzo anche alcuni dei cronisti, quasi tutti sotto i trent’anni, fanno gruppo. Girano false notizie e polpette avvelenate, meglio verificare insieme per non cadere in trappola. Il “solista” Luigi Ferrarella, allora cronista al Giorno, nel 1992 raccontava proprio a Società civile: “Più volte, dopo la confessioni di Chiesa, da ambienti politici o da avvocati vicini ai partiti arrivavano informazioni che si rivelavano false dopo due o tre riscontri. Erano siluri giocati fra partiti o fra correnti di partito”. Ma il “pool” dei giornalisti serve anche per impedire le censure; ogni cronista può dire ai suoi capi: dobbiamo pubblicarla, questa notizia, altrimenti gli altri giornali ci danno il “buco”.

Comincia il lavoro entusiasmante e massacrante di giornalisti come Piero Colaprico e Luca Fazzo per Repubblica, Michele Brambilla e Goffredo Buccini per il Corriere della sera, Renato Pezzini per il Messaggero, Marco Brando e Susanna Ripamonti per l’Unità, Paolo Barbieri per l’Ansa. I settimanali schierano “solisti” come Antonio Carlucci (L’Espresso) e Marcella Andreoli (Panorama). Anche il Mondo, su cui scriveva chi firma questo articolo, ha una trasformazione: prima molto cauto a trattare i rapporti tra politica e affari, si scatena. A partire dalla primavera del 1992, anche i direttori che tenevano a freno i cronisti più battaglieri si scoprono assetati di rivelazioni e confessioni, retroscena e verbali. Tutti a tifare per Mani pulite, anche il nazionalpopolare Tv, sorrisi e canzoni, che pubblica una copertina con un titolo che non lascia dubbi: “Di Pietro, facci sognare”.

Restano ostili ai magistrati soltanto il Giorno, filosocialista, diretto prima da Francesco Damato poi da Paolo Liguori, e il Sabato, legato a Comunione e liberazione e all’andreottiano Vittorio Sbardella detto “lo Squalo”. Il Giorno pubblica le notizie portate dai suoi cronisti, ma fa da subito campagna contro Mani pulite. “Tu limitati ai fatti”, ripetono i capi a Paolo Colonnello (che poi passerà alla Stampa). “Nei primi tre mesi sono stato lasciato solo a palazzo”, racconta il cronista, “così ho dovuto lavorare anche 18 ore al giorno”. Quando il socialista Loris Zaffra viene arrestato per la seconda volta e un avviso di garanzia arriva fino a Roma, al segretario amministrativo Vincenzo Balzamo, Colonnello scrive: “Giornata nera per il Psi”. Dal giornale gli dicono: “Questa è un’opinione”. Dario Carella, del Tg2, viene chiamato dai colleghi “il microfono di Paolo Pillitteri”, detto a sua volta il “sindaco cognato” perché ha sposato la sorella di Craxi. Federico Bianchessi del Giornale riceve invece una minaccia da Bobo Craxi in pieno consiglio comunale: “La pagherete cara”.

Le vere pressioni, però, i giornali le ricevono ai vertici. Le racconta Federico Orlando, allora vice di Indro Montanelli al Giornale, nel libro Il sabato andavamo ad Arcore, in cui elenca gli interventi, le blandizie e le minacce (respinte) arrivate dai socialisti Ugo Finetti e Bobo Craxi e dagli editori Paolo e Silvio Berlusconi. Le racconta Giulio Anselmi, vicedirettore vicario del Corriere nei primi mesi di Mani pulite, in un’intervista del novembre 1992 a Società civile: “Ricordo le telefonate di Ugo Intini, braccio destro di Craxi, ricordo le telefonate di quasi tutti i notabili socialisti: erano di volta in volta di pressione, di minaccia, di raccomandazione, nel tentativo di dimostrare che di poca cosa si trattava. Evidentemente non si trattava di poca cosa”. Gli esponenti del Psi che telefonano ai direttori dopo l’arresto di Chiesa chiedono di tenere la notizia “bassa” perché è solo roba da “mariuoli”. Già il 20 febbraio 1992 Giuseppe Turani scrive sul Corriere di Anselmi e Ugo Stille un editoriale dal titolo “L’economia della mazzetta”. Durissimo: “Che differenza c’è tra la Camorra che chiede il pizzo in cambio di protezione e l’amministratore che chiede il pizzo in cambio di un appalto? Nessuna”.

Lucio Colletti, allora collaboratore del giornale di via Solferino, incontra a Roma Craxi che gli dice a muso duro: “Ve la farò pagare a tutti voi del Corriere”. Enzo Biagi, Turani e Anselmi vengono pubblicamente definiti “mascalzoni”. Racconta il direttore vicario: “Ci furono telefonate anche ad alcuni dei massimi azionisti da parte di esponenti socialisti: si lamentavano perché il giornale dava troppa attenzione all’indagine. Ricordo anche una telefonata di Giovanni Spadolini, il leader repubblicano allora presidente del Senato, la mattina in cui il Corriere pubblicò la notizia dell’avviso di garanzia al repubblicano Antonio Del Pennino. Anche quella non fu una telefonata… serena”. Il clima si surriscalda ancor più a ridosso del 15 aprile 1992, data delle elezioni politiche. “Si cominciava a capire”, spiega Anselmi, “che davvero questa buccia di banana poteva avere conseguenze storiche”. Qualcuno “perde il senso della misura” e minaccia: “Bene, adesso avremo le elezioni. Lei al Corriere si è mosso in questo modo, ma dopo cosa le capiterà?”.

Le elezioni però non vanno nella direzione sperata dai partiti del centrosinistra al governo. E Mani pulite non solo continua, ma si alza di livello. Il 3 maggio 1992, la svolta: dal “mariuolo” si passa al sindaco di Milano Paolo Pillitteri e all’ex sindaco Carlo Tognoli. Il Corrierone titola, sobrio, su sei colonne: “Tognoli e Pillitteri sotto inchiesta”. Ma l’editoriale di Anselmi dice in prima pagina, chiaro: “La torta è finita”. Nell’estate, arrivano le minacce di Craxi sull’Avanti, che nei suoi corsivi promette un “poker” contro Di Pietro. Il 16 luglio 1992 Anselmi risponde con un corsivo sul Corriere. Titolo: “Attacco psi ai giudici di Milano”. Svolgimento: “Chiunque accarezzasse il progetto di passare un bel colpo di spugna sui giudici e sulle loro indagini per riprendere l’andazzo bruscamente interrotto troverebbe sulla sua strada tutti coloro che sono convinti di avere in Di Pietro e nei magistrati come lui i veri difensori dei loro diritti. Ed è un numero impressionante di persone per bene”. L’Avanti continua nei giorni seguenti: “Di Pietro non è un eroe”. Il Corriere replica: “Le prove o il silenzio”.

Poi le indagini arrivano anche agli editori dei giornali. Diventa più difficile mantenere la barra dritta. Pagavano tangenti, per esempio, la Cogefar, grande impresa di costruzioni della Fiat, grande azionista del Corriere. E le inchieste coinvolgono l’Eni, Montedison, Mediobanca, Caltagirone, De Benedetti… “La linea del nostro giornale non è cambiata”, replica Anselmi. “Certamente mentirei se non dicessi che le cose sono state trattate con la massima attenzione. Ma i titoli che riguardavano Cogefar, precisando che era della Fiat, oppure i titoli che riguardavano Mediobanca e poi Montedison sono sempre usciti in prima pagina”.

Ma intanto la politica si riorganizza, i dossier pieni di fango si diffondono, gli imprenditori che prima collaboravano smettono di farlo, l’opinione pubblica si raffredda. I luoghi comuni contro Mani pulite prima sussurrati da pochi indagati vengono ripresi, amplificati, ripetuti all’infinito. I commenti in prima pagina cambiano tono. Di Pietro, eroe oggetto di agiografia, celebrato perfino per la sua neolingua (il “dipietrese”), viene tratteggiato come un poco di buono opaco e senza congiuntivi (come se questo, anche fosse vero, servisse a cancellare le mille tangenti scoperte e provate). La sua indagine è, alternativamente, un complotto fascista della Cia oppure un golpe rosso per mandare i comunisti al governo. Troppa custodia cautelare, usata come tortura per poveri indagati costretti a confessare. Troppa inflessibilità con gli indagati, ma anche troppe trattative. Critiche opposte e in contraddizione tra loro diventano vere, a furia di essere ripetute, a dispetto della realtà ma soprattutto della logica.

Iniziano a operare i “pentiti” di Mani pulite, quelli che l’avevano sostenuta a spada tratta, a volte con toni perfino esagerati e insopportabili, che passano disinvoltamente alla denigrazione, dovendo servire nuovi padroni. Vittorio Feltri, allora direttore dell’Indipendente, aveva celebrato con squilli di tromba la “caccia al Cinghialone”, cioè a Craxi. Ed esultava a ogni arresto: “Ma questa è una pacchia, un godimento fisico, erotico. Quando mai siamo stati tanto vicini al sollievo? Che Dio salvi Di Pietro”, scriveva il 15 giugno 1992. E quando “il Cinghialone” riceve il primo avviso di garanzia, Feltri esplode: “Mai provvedimento giudiziario fu più popolare, più atteso, quasi liberatorio, di questo firmato contro Craxi”, scrive il 16 dicembre 1992. “Di Pietro non si è lasciato intimidire dalle critiche, dalle minacce di mezzo mondo politico (diciamo pure del regime putrido di cui l’appesantito Bettino è campione suonato) e ha colpito in basso e in alto, perfino lassù dove non osano nemmeno le aquile. Ha colpito senza fretta, nessuna impazienza di finire sui giornali per raccogliere altra gloria… I giudici lavorano tranquilli, in assoluta serenità: sanno che i cittadini, ritrovata dignità e capacità critica, sono dalla loro parte”.

Erano accaniti tifosi di Mani pulite anche commentatori poi diventati feroci avversari dei magistrati, come Marcello Pera ed Ernesto Galli della Loggia. Il primo, il 19 luglio 1993 scriveva sulla Stampa: “Occorre una nuova Resistenza, un nuovo riscatto e poi una vera, radicale, impietosa epurazione… Il processo è già cominciato e per buona parte dell’opinione pubblica già chiuso con una condanna”. Anche perché “la rivoluzione ha regole ferree e tempi stretti”. Galli della Loggia, editorialista prima della Stampa e poi del Corriere, nei primi mesi di Mani pulite definiva i partiti, senza mezzi termini, “combriccole di malandrini”, scriveva che “tutti hanno rubato” e concludeva: “È già molto se, dopo gli estenuanti e annosi riti giudiziari che sono in Italia la regola, dopo gli indulti, le amnistie, i patteggiamenti e gli arresti domiciliari, alla fine si riesce a mandare in galera qualcuno per un lasso di tempo non proprio ridicolo”. Cambieranno opinione. Come molti. Passato il biennio d’oro di Mani pulite, la finestra di libertà si richiude e in redazione si torna alle vecchie cautele, agli antichi ossequi.

 

Il Fatto quotidiano, 26 febbraio 2017 (versione ampliata)
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