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Marco Nozza, il “pistarolo”

Marco Nozza, il “pistarolo”

Sono passati quindici anni da quando Marco Nozza ci ha lasciato. Era un cronista di strada. Uno scrittore colto. Un grande divulgatore della storia italiana. Un giornalista molto insultato: lo chiamavano “pistarolo”, con disprezzo, per la tenacia con cui seguiva le piste nere dell’eversione, senza credere alle “veline” ufficiali. Assunse quell’insulto come un vanto: sì, “pistarolo”. Aveva fatto il partigiano nel suo paese, Caprino Bergamasco. Aveva insegnato lettere. Poi aveva fatto il cronista all’Eco di Bergamo, così bene da essere chiamato all’Europeo e poi al grande Giorno di Italo Pietra. Aveva il culto del dettaglio, l’ossessione del particolare, la scrittura secca e forte.

Scavò i fatti nascosti dietro le apparenti verità del “caso Lavorini”, a Viareggio, in un’Italia in bianco e nero in cui il delitto già cominciava a mischiarsi con la politica. Così quando scoppiò la bomba di piazza Fontana, e poi Pino Pinelli cadde dalla finestra della questura, e poi le stragi contrappuntarono la vita italiana, era pronto a non credere alle verità ufficiali.

“Eravamo una compagnia di giro, una brigata di pronto intervento, abbiamo tenuto duro per un decennio, i più testardi anche di più, poi ciascuno è tornato nel suo brodo, non siamo mai diventati una lobby, nessuno di noi ha mai indossato l’eskimo, nessuno di noi ha fatto carriera, mentre molti di quelli che indossavano l’eskimo sono diventati direttori, direttori editoriali, editorialisti, commentatori con fotina, savonarola televisivi, vignettisti buoni per tutti i giornali e tutte le stagioni, da Lotta Continua al Corriere della sera, da Repubblica a Cuore, moralisti osannati a destra, a sinistra e al centro, professionisti dell’antidietrologia, in verità fustigatori di tutte le dietrologie degli altri ed esaltatori di una, la propria”. Così aprì il suo ultimo libro, orgogliosamente intitolato Il Pistarolo, pubblicato dal Saggiatore dopo la sua morte.

Quando morì l’anarchico Pinelli, scrisse: “Controllare qualsiasi notizia, personalmente, mi veniva naturale, così come controllare le veline. Anche la velina è una notizia, indipendentemente dal suo contenuto. L’importante è scoprire come nasce, la velina. E chi la fa nascere. E perché. E a chi è destinata. Che giornalista è uno se non tenta di vedere cosa c’è dietro (anche dietro una velina)?”.

Prese così a seguire le “piste”, a confrontare le versioni, a osservare i dettagli, a riempire i taccuini. Raccontò tutto, con la sua prosa inconfondibile, sul Giorno e sul Bcd, il Bollettino di contoinformazione; e poi ancora nel volume Le bombe di Milano, scritto a caldo insieme a Corrado Stajano, Giampaolo Pansa, Camilla Cederna, Giorgio Bocca, Giorgio Manzini, Marco Fini, Ermanno Rea, il primo libro su piazza Fontana, che precedette anche La strage di Stato.

Poi fece una cosa che i giornalisti oggi non fanno più: seguì i processi su piazza Fontana e sulle stragi, giorno dopo giorno, raccontando gli imbarazzi, i silenzi, le bugie. Infine scrisse delle Br. Con il risultato che lo volevano uccidere i “neri” e che scampò per caso a un attentato dei “rossi”.

Non tradì mai il suo giornale, Il Giorno. Non lo lasciò quando Eugenio Scalfari gli chiese di passare a Repubblica. Rifiutò gli inviti di Piero Ottone ad andare al Corriere (agli amici confidò: non posso scrivere sul giornale del “mostro Valpreda”). Il Giorno lo ripagò, negli ultimi anni, sottoutilizzandolo e poi dimenticandolo. Lui, da grande cronista, lavorò umilmente fino all’ultimo giorno prima della pensione, in cui scrisse di un “semplice” omicidio ad Aosta, senza mai lamentarsi, senza mai rifiutare un servizio. Al suo paese lo hanno ricordato con una bella pubblicazione ricca di immagini. Il giornalismo italiano dovrebbe non dimenticare Marco Nozza, il “pistarolo”.

Il Fatto quotidiano, 29 maggio 2014
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