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Addio a Scola vescovo triste, “straniero” a Milano

Addio a Scola vescovo triste, “straniero” a Milano

Papa Bergoglio, si sa, è imprevedibile. Difficile dunque il lavoro dei bookmaker che vogliano indovinare chi sarà il successore di Angelo Scola, arcivescovo di Milano. Papa Francesco arriva oggi, 25 marzo 2017, in città, dopo avere più volte rinviato il viaggio e avere addirittura rifiutato di venire per l’esposizione universale (“Expo fa parte del paradosso dell’abbondanza, se obbedisce alla cultura dello spreco, dello scarto e non contribuisce a un modello di sviluppo equo e sostenibile”). Sbarca ora a Milano, con Scola che ha ormai esaurito il suo mandato episcopale per limiti d’età. Da domani, ogni giorno è buono: potrebbe arrivare la notizia della nomina del centoquarantottesimo successore di Sant’Ambrogio e non gli resterebbe che prendere le valige che ha già preparato e tornare nella brumosa campagna lecchese dove è nato.

Se ne va proprio dopo le celebrazioni dei 90 anni dalla nascita di Carlo Maria Martini, l’ultimo degli arcivescovi ambrosiani che ha lasciato un segno forte a Milano, nel cuore dei cattolici e in quello dei laici. Non c’è una parola, un gesto di Scola che sia rimasto impresso nelle cronache di questi anni. Se ne va solo, portandosi via la sua propensione alla depressione che, si dice, negli anni Settanta affrontò a Parigi con Jacques Lacan in persona. In fondo, si è sempre sentito uno straniero nel grande arcivescovado che si affaccia su piazza Fontana. La sua provenienza culturale ed ecclesiale – il movimento di Comunione e liberazione – lo ha sempre fatto sentire un’estraneo nella Chiesa di Milano, tra i preti formati sulle parole di Martini, nelle parrocchie e negli oratori dove il verbo ciellino non ha mai messo radici.

A Milano arrivò da vescovo, nel giugno 2011, spinto da una lettera scritta a papa Ratzinger da Julián Carrón, il capo della Fraternità di Comunione e liberazione, che lo propose dopo aver duramente criticato, senza citarlo, il suo predecessore Dionigi Tettamanzi, accusato di “intimismo e moralismo” e di “un sottile ma sistematico collateralismo verso una sola parte politica, il centrosinistra, trascurando, se non avversando, i tentativi di cattolici impegnati in politica, anche con altissime responsabilità nel governo locale”. Il riferimento era al ciellino Roberto Formigoni, allora presidente della Regione. Il rimprovero massimo a Tettamanzi era di aver bollato “come affarismo le opere educative, sociali e caritatevoli dei movimenti”, cioè di Cl. “Data la gravità della situazione”, per Carrón a Milano c’era bisogno di “un pastore che sappia rinsaldare i legami con Roma e con Pietro”.

Ratzinger ascoltò Carrón e non Martini, che aveva delineato la figura ideale del successore in un aureo libretto intitolato Il vescovo (Rosemberg & Sellier 2011). Scola entrò così da cardinale nella diocesi che non lo aveva voluto ordinare prete: nel 1970, il mitico rettore del seminario di Venegono, monsignor Bernardo Citterio, non concesse a lui e ad altri seminaristi di Cl il suddiaconato che avrebbe loro permesso di evitare il servizio militare. Di fatto, fu un’espulsione. Scola dovette emigrare a Teramo, dove fu ordinato prete da un vescovo vicino a Cl.

Eppure, una volta tornato a Milano, Scola non ha imposto né i metodi né gli uomini di Cl. Ha cercato di rispettare le tradizioni ambrosiane della Chiesa che, prima di Martini, fu di Giovanni Battista Montini, papa Paolo VI. Così ha assistito da spettatore silente al declino del sistema di Formigoni, travolto dagli scandali. Ha assistito anche al cambiamento di pelle di Cl, che Carrón ha tentato di riportare a una dimensione più ecclesiale, lasciando ai singoli la responsabilità delle scelte affaristiche e politiche (ormai spalmate a destra e a sinistra). Da vescovo, Scola non ha fatto le barricate neppure per i temi “etici”: niente battaglie contro le unioni civili “municipali” del sindaco Giuliano Pisapia; e niente opposizione al saluto in chiesa a Dj Fabo, che ha dolorosamente scelto di andarsene da una vita non più vivibile.

Poi ha subito lo shock di entrare in Conclave papa e di uscirne sconfitto (malgrado un comunicato stampa che lo dava per eletto) proprio da Bergoglio. Ora, nell’imprevedibilità delle scelte di papa Francesco, i nomi dei possibili successori frullano come palline del bingo. La “scelta interna”, di continuità ambrosiana, è Mario Delpini, vescovo ausiliare di Milano. Pierbattista Pizzaballa, dei Frati Minori, è Custode di Terra Santa e arcivescovo di Gerusalemme. Franco Brambilla è vescovo di Novara. Antonio Spadaro, gesuita, è direttore della rivista La Civiltà Cattolica e ghostwriter di papa Francesco. Virginio Colmegna, fondatore della Casa della Carità di Milano, sarebbe l’outsider che solo la “follia” di Bergoglio, che vuole “pastori con l’odore delle pecore”, potrebbe insediare alla guida della diocesi di Ambrogio.

Il Fatto quotidiano, 24 marzo 2017
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