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Il papà del polo dopo-Expo promette l’elisir di lunga vita

Il papà del polo dopo-Expo promette l’elisir di lunga vita

Per capire che cosa sarà Human Technopole, la città della ricerca da costruire sull’area Expo, bisogna conoscere il papà di questo progetto: Pier Giuseppe Pelicci. È un noto scienziato italiano, condirettore dello Ieo, l’Istituto europeo di oncologia fondato da Umberto Veronesi, e di Veronesi è il braccio operativo. Pelicci non ha per ora alcun ruolo ufficiale, perché il progetto per il dopo Expo voluto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi non ha ancora una struttura definita. È una promessa: creare un grande polo di ricerca sul genoma, per studiare i meccanismi delle malattie oncologiche e neurodegenerative, associarle agli stili di vita, all’alimentazione e alla storia familiare dei pazienti; aggiungerci un centro sui “big data”, per sviluppare gli algoritmi necessari a processare l’immensa mole di dati necessari agli studi sulla genomica; e sviluppare un centro di “nano-science & technology” che progettino nuovi dispositivi per monitorare la salute dei pazienti.

Ht, una Signoria con ricco tesoretto

È solo un annuncio, ma ha già tre punti fermi. Uno, si deve fare sull’area Expo, altrimenti non si saprebbe come utilizzarla, visto che nessun privato ha voluto comprarla, dopo che sono stati spesi 200 milioni di denaro pubblico per acquistarla e altre centinaia di milioni per infrastrutturarla. Due, la regia sarà del genovese Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), che ha il pregio di essere sotto il diretto controllo del governo. Tre, i soldi per finanziare la fascinazione – ha promesso Renzi – saranno 150 milioni all’anno per dieci anni, cioè 1 miliardo e mezzo di euro.

Sono bei soldi, che porterebbero risorse alla bistrattata ricerca italiana. Eppure finora un pezzo del mondo scientifico (dalla biologa e senatrice a vita Elena Cattaneo all’ex presidente dell’Istituto nazionale di Astrofisica Giovanni Bignami) hanno detto no a un metodo di finanziamento considerato opaco e non meritocratico. “Così come è concepito oggi”, dice Elena Cattaneo, “Human Technopole sarà solo una Signoria creata per legge e dotata di tesoretto. Fatta di una corte, completa di vassalli e valvassori, così nessuno avrà voglia di dissentire”. “Un clamoroso atto di sfiducia nei confronti della ricerca pubblica da parte del governo che ne è responsabile”, aggiunge Bignami. “Uno spot che svilisce la ricerca”, incalza Cattaneo, uno sfavillante teatrino messo in scena per “mettere una toppa glamour al dopo Expo”.

Con soldi distribuiti senza gare pubbliche, senza valutazioni indipendenti, senza libera competizione, senza trasparenza sulle assegnazioni, senza controlli. Il direttore dell’Istituto Italiano di Tecnologia, Roberto Cingolani, sarà trasformato da Renzi in un Re Mida a cui ogni studioso, ogni centro di ricerca, ogni università dovrà pagare pegno se vorrà avere accesso ai fondi ed essere coinvolto nei suoi programmi. Nel progetto Human Technopole Italy 2040 non c’è solo Cingolani, che ci ha almeno messo la faccia. C’è anche Pelicci, che ha steso il progetto sulla genomica. È lo scienziato che da anni promette l’elisir di lunga vita. È lui che ha convinto a entrare nella partita il finanziere Francesco Micheli, con cui ha fondato Genextra, holding specializzata in ricerca biofarmaceutica. Micheli ha poi coinvolto Marco Carrai, l’uomo d’affari più vicino a Renzi, che ha fatto da ponte con il presidente del Consiglio, il quale ha infine fatto suo e lanciato il progetto. Ricerche sul genoma, con la promessa di allungare la vita: è la fascinazione di Human Technopole, ma è anche da sempre il programma di Pelicci, lo scienziato che vuole portare la vita dell’uomo a 120 anni.

Progetto affascinante. Ma perché è stato scelto proprio questo, senza una valutazione preventiva di altri temi, senza un confronto con altri programmi possibili? Per esempio la medicina rigenerativa e la terapia genica, in cui l’Italia è prima al mondo, grazie agli studi dell’università di Modena e Reggio Emilia e del San Raffaele di Milano. In questo campo, gli italiani Michele De Luca e Graziella Pellegrini hanno prodotto il primo farmaco al mondo a base di cellule staminali. Invece non c’è stata alcuna discussione, alcuna comparazione: a scegliere, senza aver ricevuto alcun incarico trasparente e senza aver messo in comune percorsi e motivazioni della scelta, è stato un gruppo informale di persone, tra cui il professor Pelicci; poi Renzi ha annunciato in pubblico l’ideona per salvare il dopo-Expo, con annessa promessa del tesoretto miliardario. Solo a cose fatte, e dopo le proteste di una parte del mondo scientifico, è stato coinvolto un gruppo di scienziati internazionali a cui è stato affidato il compito di elaborare una valutazione del programma: ma senza alternative, senza la possibilità di confrontare programmi diversi.

L’uomo che sussurra a Matteo Renzi

Pier Giuseppe Pelicci vede la luce a Semonte di Gubbio, in Umbria. Ma come scienziato nasce all’Università di Perugia, ateneo ad alta densità massonica. Lì si laurea in medicina nel 1981, poi fa il ricercatore e il docente. Lì entra in contatto con Veronesi, che ha costruito nel tempo una fitta rete di rapporti negli ambienti accademici italiani, con punti di forza soprattutto a Milano, Napoli, Trento, Bari e, appunto, Perugia. Tra il 1981 e il 1986, Pelicci fa il ricercatore in Francia e poi nel laboratorio di biologia molecolare della New York University Medical Center diretto dall’italiano Riccardo Dalla Favera.

Tornato in Italia, dello Ieo di Veronesi diventa direttore del dipartimento di oncologia sperimentale, poi vicedirettore, infine, dal 2010, co-direttore scientifico. Intanto insegna a Perugia, a Parma, a Milano alla Statale e all’Università Vita Salute del San Raffaele. Ha ruoli nella Fondazione Veronesi, nell’Int (l’Istituto nazionale dei tumori), nella Firc-Airc (la Fondazione italiana per la ricerca sul cancro), nell’Ifom (l’Istituto Firc di oncologia molecolare). È co-fondatore di Genextra, la holding di Micheli.

Ha un curriculum scientifico lungo 27 pagine, ma riassumibile in quattro parole: elisir di lunga vita. È il 1999 quando pubblica sulla prestigiosa rivista Nature un articolo sulla proteina P66. È un gene che controlla il metabolismo. Pelicci sostiene che i ratti a cui viene tolto il P66 hanno una vita più lunga del 30 per cento. Senza alcun effetto collaterale. Senza alcuna variazione di peso. È una folgorazione. Negli anni seguenti, Pelicci spiega in interviste bombastiche che “spegnendo” il P66 nell’uomo si potrebbe prolungare la vita fino a 120 anni. “La scoperta del meccanismo che determina la senescenza ha rivoluzionato la teoria del processo di invecchiamento. In precedenza era attribuito prevalentemente all’ambiente per effetto usura; oggi invece responsabile dell’invecchiamento deve essere considerato in primis il gene programmato dal codice genetico, che ogni individuo si porta dalla nascita”.

Così parla Pelicci. “Gli studi finora condotti dimostrano che la funzione del gene umano è identica a quella del topo. Quindi è verosimile che anche nell’uomo il gene si comporti come nel topo. L’obiettivo della ricerca scientifica è quindi portare la durata media della vita da 80 anni a 120”. Con questo canto delle sirene, facile mettere in moto il meccanismo dei finanziamenti, pubblici e privati. La promessa è quella di trovare, prima o poi, qualcosa di molto simile alla “pillola” dell’eterna giovinezza.

Contrordine: ma è tutta colpa dei topi

Da quell’annuncio del 1999, passa un decennio in cui il sogno dell’elisir di lunga vita rimbalza dalle riviste scientifiche a giornali e tv. La mirabolante scoperta viene citata e ripresa in centinaia di lavori specialistici, dando lustro (e carriera) a Pelicci, che accumula riconoscimenti, ottiene incarichi pubblici e privati, porta a casa finanziamenti. Dodici anni dopo, la promessa comincia a sfaldarsi. È Pelicci stesso, nel 2012, a mettere i puntini sulle i. Comunica in un altro articolo, pubblicato su Aging Cell, di aver verificato che se il P66 viene tolto a ratti che vivono non in laboratorio, ma in ambiente selvatico, il risultato è opposto: vivono non di più, ma di meno.

Nella ricerca succede: si può anche sbagliare, si possono trovare nuove evidenze che smentiscono quelle precedenti. Ma in questo caso c’erano stati diversi segnali, negli anni precedenti, che avevano messo in dubbio la “scoperta” di Pelicci, mai presi però sul serio dallo scienziato. Già nel 2003 un gruppo di ricercatori del Texas, capitanati da Arlan Richardson, aveva obiettato che il campione di animali testati da Pelicci era troppo piccolo per avere valore statistico. Nel 2005 il team portoghese de Magalhães aveva sostenuto che i ratti utilizzati nello studio erano troppo pochi e che l’allungamento osservato nella vita degli animali senza P66 poteva essere un inganno statistico. Inoltre ipotizzava che non fossero i ratti senza P66 a vivere il 30 per cento in più, ma gli animali di controllo, quelli restati con il P66, a vivere il 30 per cento in meno, per le condizioni di vita in laboratorio.

D’altra parte, anche in un convegno del 2004 due studiosi italiani, Stefano Salvioli e Claudio Franceschini, avevano raccontato che gli umani arrivati alla soglia dei cento anni, al contrario di quanto prevedeva Pelicci, avevano più P66 e non meno di quelli a cui sopravvivevano. Niente da fare: Pelicci per oltre un decennio tace sulle critiche dirette e indirette che vengono rivolte alla sua teoria. E solo nel 2012, quando evidentemente le sue promesse non possono più reggere, fa marcia indietro, dicendo che lo avevano ingannato i ratti in laboratorio.

Càpita. I ricercatori possono sbagliare. Negli ultimi anni sono emersi molti casi di ricerche scientifiche sbagliate. Sono anche stati denunciati molti casi di ricerche addirittura taroccate. Come quelle del professor Alfredo Fusco, sotto indagine giudiziaria prima a Milano e ora a Napoli, che secondo l’accusa “aggiustava” con il photoshop le immagini di proteine studiate per associarle all’insorgere di tumori. Così poteva chiedere e ottenere finanziamenti per la ricerca. Sotto processo, a Perugia, anche un altro professore, Stefano Fiorucci, addirittura arrestato nel 2008 con l’accusa di aver inviato a riviste scientifiche Usa immagini non originali, spacciate come frutto della sua ricerca. Con quelle pubblicazioni aveva ottenuto finanziamenti per 2 milioni.

Dopo i geni, la dieta: i cibi che fanno miracoli

Pelicci si è, se pur tardivamente, autocorretto. Continua a inseguire il sogno dell’elisir di lunga vita, ma ora lo declina, come progetto a breve termine, nella miracolosa dieta “Smartfood”; a lungo termine, invece, lo proietta nel dopo Expo di Human Technopole.

“Smartfood” promette una vita più lunga grazie ai cibi che “dialogano con il nostro Dna”: dal cioccolato alla cipolla, dalle patate viola agli asparagi, dai frutti di bosco alla curcuma, il libro La dieta smartfood (scritto per Rizzoli da Eliana Liotta con Pier Giuseppe Pelicci e Lucilla Titta) svela le proprietà degli alimenti che “mimando il digiuno, modificano le vie genetiche che presiedono alla durata della vita”. E promette “il primo regime alimentare tutto italiano a marchio scientifico: quello dello Ieo di Milano”.

Per chi ha più tempo, almeno fino al 2040, c’è Human Technopole. Annunciato così, nel gennaio 2016, da un entusiastico servizio di Sette, il settimanale del Corriere della sera: “L’uomo di domani, quasi immortale, nascerà negli ex padiglioni di Expo. Ecco come 1.600 scienziati lo culleranno, tra mappature genetiche e cibi anti-malanni”. In otto pagine che sprizzano ottimismo, Pelicci viene presentato (ancora) come “lo scienziato acclamato sulla rivista Nature per aver scoperto uno dei geni dell’invecchiamento”. E come il vero padre di Human Technopole: “I rumors raccontano che sia stata una sua relazione a Cernobbio, al Forum Ambrosetti, ad avere acceso una lampadina nella testa di Renzi”.

Sì, l’uomo che accende le lampadine nella testa di Renzi è uno dei promotori della “medicina di precisione, che non propone terapie uguali per tutti, ma cure mirate alla persona”. Quest’anno, ci dicono le dure statistiche, l’età media degli italiani dopo molti anni di crescita torna a calare. Ma Sette annuncia invece che “forse, prima della fine di questo secolo, l’Italia sarà popolata da arzilli novantenni lucidi e in salute”. Avranno “i farmaci personalizzati per curarsi, il cibo che previene i malanni, i vestiti antibatterici, l’ambiente meno inquinato, i robot intelligenti per le faccende di casa”: venghino venghino, benvenuti nel meraviglioso mondo di Human Technopole Italy 2040.

Il Fatto quotidiano, 8 maggio 2016
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