EXPO

Comunque vada sarà un successo

Comunque vada sarà un successo

Expo è partita e, come diceva Chiambretti, “comunque vada sarà un successo”. Ma tra sei mesi chiuderà i cancelli: che cosa succederà allora? Come sarà utilizzata l’immensa area su cui sorge, di oltre 1 milione di metri quadrati? Se il ritardo per i padiglioni è stato quasi del tutto recuperato, resta e anzi si aggrava quello per il dopo Expo. Poteva essere un’occasione per progettare e ridisegnare un pezzo di città, pensandoci già dal 2008, quando Milano vinse contro Smirne. Invece si sta cercando ora, disperatamente, una soluzione a un puzzle complicatissimo. Ieri Arexpo, la società pubblica che ha comprato le aree, ha aperto le buste delle “manifestazioni d’interesse” di chi si fa avanti per fare l’advisor, il “regista” che dovrà tentare di comporre i pezzi: si sono presentati in 25, università, banche, immobiliaristi, “sviluppatori”, studi d’architettura. In dieci giorni Arexpo manderà le lettere d’invito per ricevere le offerte al ribasso. Entro tre settimane sarà deciso il vincitore.

La ricerca dell’advisor si è resa necessaria dopo l’intervento del presidente dell’Autorità anticorruzione Raffaele Cantone: ci sono in ballo soldi pubblici, dunque bisogna trovare, con una gara pubblica, un soggetto terzo capace di valutare le proposte e di mettere insieme diversi operatori (università, imprese, soggetti pubblici e privati). Più che un advisor sarebbe necessario un re filosofo, un Adriano Olivetti ma con i poteri di Hulk. Anche perché il bando offre soltanto 90 mila euro (con gara al massimo ribasso) per compensare questo santo disposto a lavorare tanto, con alta probabilità di insuccesso.

La fuga degli immobiliaristi

La strada dell’advisor è stata imboccata dopo che era andata deserta la prima gara, quella che doveva scegliere, nel novembre 2014, lo “sviluppatore” disposto a comprare l’area a 314 milioni. Naturalmente non si è fatto vivo nessuno. Nessun operatore immobiliare è così masochista da imbarcarsi in un’operazione costosissima e rischiosissima, in tempi di crisi e in una città già piena di grattacieli vuoti e di edifici invenduti. Ora il nuovo advisor dovrà valutare e tentare di comporre le idee sbocciate negli ultimi mesi. Il rettore dell’Università Statale di Milano, Gianluca Vago, ha proposto di costruire al posto dei padiglioni la nuova Città Studi, con le facoltà scientifiche, i campus, gli istituti di ricerca. Aggiungendoci, come il carico a briscola, un acceleratore di particelle tipo Cern o un’altra grande infrastruttura tecnologica.

Il presidente di Assolombarda, Gianfelice Rocca, ha proposto Nexpo, una Silicon Valley milanese, un polo dell’innovazione trasportando lì le aziende hi-tech piccole e grandi, da Microsoft a Cisco, da Ibm ad Alcatel, fino ad Accenture. Non esiste niente di simile in Italia, dice chi le propone, ma ci sono esempi in Europa, a Rotterdam, ad Amsterdam, a Barcellona. Ma è il puzzle più complicato del mondo: il tempo stringe, le bonifiche sono ancora da fare e, soprattutto, chi ci mette i soldi? L’idea università più polo hi-tech è ottima: creerebbe un’area d’eccellenza in una zona molto ben infrastrutturata. E potrebbe evitare, almeno in parte, l’ennesima cementificazione in città, con altri edifici per residenza e terziario a forte rischio di restare invenduti.

Peccato però sia difficile da realizzare. Innanzitutto perché c’è da lavare il peccato originale di Expo: l’esposizione di Milano è stata costruita, per la prima volta, non su terreni pubblici, ma privati. Questo ha caricato il pubblico (essenzialmente Comune di Milano e Regione Lombardia) di 160 milioni di debiti nei confronti delle banche (Intesa, Popolare di Sondrio, Veneto Banca, Credito Bergamasco, Bpm e Imi). Arexpo li dovrà restituire nei prossimi tre anni: 30 nel 2016, 30 nel 2017, 30 nel 2018. Altri 45 milioni li dovrà dare a Fondazione Fiera, per pagare i terreni messi a disposizione per Expo. Dove trovare questi soldi? Vendendo le aree. Arexpo, sulla scorta di una valutazione dell’Agenzia delle Entrate, pretende 314 milioni. Questo è il primo problema. Il secondo è trovare altre centinaia di euro per costruire le facoltà, gli impianti sportivi, l’acceleratore e gli edifici da offrire in affitto alle aziende tecnologiche disposte a trasferirsi.

Lo scaricabarile di Maroni

La prima riunione per cercare di mettere insieme i soggetti che dovrebbero trovare la soluzione del puzzle è stata venerdì 24 aprile. Per il Comune di Milano c’erano il sindaco Giuliano Pisapia e il vicesindaco Ada Lucia De Cesaris. Per la Regione Lombardia, il presidente Roberto Maroni. Per il governo, il ministro con delega Expo Maurizio Martina. Per la Statale, il rettore Vago. Per Assolombarda, Pietro Sala e il delegato per Expo Fabio Benasso (che è anche amministratore delegato di Accenture Italia). Presente anche Roberto Reggi del Demanio, interessato a trovare una nuova sede che unifichi i suoi diversi uffici sparsi per la città. E infine Franco Bassanini e Andrea Novelli, presidente e direttore generale di Cassa Depositi e Prestiti. I presenti si sono annusati. Maroni ha tentato il colpo: vendere al governo, o alla Cassa Depositi e Prestiti, la quota in Arexpo (il 27,6 per cento) di Fondazione Fiera. Così la Fondazione, che sta sotto l’ombrello della Regione, porterebbe a casa altri 26 milioni di euro, dopo averne incassati (almeno virtualmente) già 66 vendendo nel 2011 ad Arexpo una fetta dei terreni agricoli su cui è stata costruita l’esposizione. Realizzerebbe dunque un totale di 92 milioni, per terreni comprati nel 2002 a 14 milioni: almeno un miracolo, l’esposizione universale l’ha già fatto.

Restano da comporre gli altri elementi del puzzle. Primo: l’università. Il rettore Vago è stato il primo a formulare la proposta di spostare le facoltà scientifiche nell’area Expo, 18 mila persone tra studenti e professori. Costo: 450 milioni. Ora stanno a Città Studi: Matematica, Medicina, Farmacia, Agraria, Veterinaria, Fisica, Biologia, Chimica, Informatica occupano circa 160 mila metri quadrati; con un’area verde non ancora occupata e l’orto botanico di Cascina Rosa (non edificabile) si arriva a 200 mila. In più ci sono le residenze universitarie (Bassini, Modena, Plinio). Che fare? Chiudere tutto, vendere (a chi?) e con i soldi ricavati spostarsi a Expo? Difficile far tornare i conti. Gli specialisti dicono che si può ricavare da 80 a 200 milioni, meno della metà dei 450 necessari. Una parte dell’area vale poco, perché è tutelata da vincolo monumentale e gli edifici a due piani d’inizio Novecento non si possono demolire. Inoltre a Città Studi stanno già costruendo la nuova sede per Informatica, con un appalto di 24 milioni di euro: che fanno, si fermano a metà? Veterinaria sta già traslocando a Lodi, con un impegno di 53 milioni: cambiano in corsa?

Sognando la Cassa Depositi e Prestiti

La speranza è che i soldi che mancano li metta la Cassa Depositi e Prestiti, che però ha già fatto capire che, gestendo il risparmio postale degli italiani, vuole entrare solo se l’operazione non sarà in perdita. Dovrebbero poi essere fondi europei a finanziare l’acceleratore di particelle o altra infrastruttura di ricerca (costo previsto: 600 milioni) che dovrebbe fare dell’area Expo una sorta di nuovo Cern. Ma anche qui l’idea è ancora tutta da concretizzare. Poi c’è Assolombarda, che si propone come “aggregatore” di aziende: 120 piccole più le grandi e le multinazionali che hanno già dato la loro disponibilità di massima a trasferirsi all’area Expo, purché gli affitti non siano fuori mercato e l’area resti tutta compatibile con l’idea di polo tecnologico-innovativo.

Dunque niente stadio (che invece piaceva tanto a Maroni), niente megacentri commerciali. Anche qui, tempi lunghi e incerti, e l’operatore immobiliare ancora da trovare. C’è infine un problema di quantità. L’università potrebbe occupare 200 mila metri quadrati, Nexpo altri 100 mila. L’area è di oltre 1 milione di metri quadri: che cosa fare nel resto, anche considerando che metà dovrà rimanere a verde? Quanto terziario, pubblico e privato, dovrà essere aggiunto per far quadrare i conti, non solo dei metri quadrati, ma soprattutto dei milioni di euro necessari per rendere l’operazione finanziariamente sostenibile?

Delle due strutture che resteranno dopo Expo, solo una, la Cascina Triulza, ha un destino certo: sarà la sede di associazioni e ong del volontariato; l’altra, Palazzo Italia, non si sa a cosa sarà destinata. “Expo andava pensata in funzione del dopo, e non viceversa”, dice il presidente di Arexpo Luciano Pilotti. Ora il rischio è che il cerino, alla fine, resti in mano a chi ci ha già messo i soldi per le aree: Comune e Regione (32,6 milioni ciascuno). Si aprono mesi – anni? – incerti.

Il Fatto quotidiano, 9 maggio 2015
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