SEGRETI

Strage di Bologna. “Io, il figlio del male. Mio padre, Paolo Bellini”

Strage di Bologna. “Io, il figlio del male. Mio padre, Paolo Bellini”

Le ultime parole del libro di Guido Bonini sono rivolte al padre, Paolo Bellini: “Beh, se pensi che io meriti di morire per questo, sappi che io non scappo. So che saprai dove trovarmi. E ti aspetto, tanto non potrà mai essere peggio del male che mi hai fatto fino ad ora. Firmato Guido Bonini, il figlio del Male”. Proprio Il figlio del male è il titolo del libro scritto e autoprodotto da un uomo, oggi quarantaquattrenne, che racconta una storia privata, la sua vita, segnata però dalla presenza, e ancor più dall’assenza, di suo padre, fascista che da bambino gli insegnava a cantare Faccetta nera, poi ladro di mobili, assassino del ragazzo di Lotta continua Alceste Campanile, killer della ’ndrangheta, infiltrato dei carabinieri in Cosa nostra, infine condannato in primo grado per la strage di Bologna.

Che padre è stato, per lei, Paolo Bellini?

Non è stato un padre. Quasi mai presente, quando era presente era una persona non violenta, perché non mi ha mai messo le mani addosso, ma cattiva, aggressiva a parole. Affetto non me n’ha mai dato. Mi ha insegnato l’odio, mai l’amore. Odio per i gay, i neri, i diversi e più di tutti, per i comunisti. Ricordo una volta che mi ha portato, bambino, insieme a lui su una giostra. Io ero terrorizzato, piangevo. E lui m’insultava: “Sei un cagasotto, non vali niente. Non sei un uomo, non sei mio figlio”. Un’altra volta mi portò con lui a fare un giro in moto. Io ero molto contento, non mi sembrava vero. Ma in autostrada un camion sorpassò la sua Suzuki con una manovra pericolosa. Mio padre seguì il camion fino all’uscita, poi si accostò finché il camionista non si fermò e scese con una grossa chiave inglese. Paolo si fece sotto, gli puntò la pistola in faccia e gli disse: “Oggi è il tuo giorno fortunato. Vedi quel bambino? Ti ha salvato la vita, non ti ammazzo solo perché c’è lui”.
Quell’uomo ci ha sempre terrorizzati, me, mia sorella, mia madre da cui ho voluto prendere il cognome. Ci terrorizzavano i suoi occhi, i suoi sguardi, le sue minacce. Io l’ho tanto cercato nella mia vita, mi è mancato. Ma forse non mi mancava lui, mi mancava il non avere un vero padre.

A casa sua giravano armi e droga.

Una volta mi ero addormentato sul divano di casa. Mio padre venne a spostarmi, perché doveva prendere una cosa che aveva nascosto sotto un bracciolo: era una bomba, una bomba ad ananas. Quando poi scoprì che, cresciuto, fumavo hashish e marijuana, mi costrinse a dirgli chi era il mio fornitore, un compagno di scuola. Non so che cosa sia successo dopo, ma di certo andò dai suoi fratelli, che erano quelli che la vendevano. Poi mi disse: “Ti capisco, è normale alla tua età voler fare esperienze, però non comprare da gente che non conosci o che potrebbe vendicarsi nei miei confronti. Se proprio vuoi qualcosa di buono vieni da me che so cosa ti do”. Bel padre, eh? Lui faceva uso soprattutto di cocaina.

Anche lei ha avuto in seguito problemi di droga.

Tra i 18 e i 24 anni ho affrontato tre separazioni, anche se non sono mai stato sposato. Ho scoperto un padre assassino, per colpa del quale ho perso diversi lavori. Sono stato usato più volte da mio padre come alibi. Sono finito come un esiliato in due programmi protezione. Ho rischiato due volte di essere ucciso. Così ho avuto un periodo in cui andavo verso l’autodistruzione. Droga, sesso, violenza, gioco d’azzardo. Poi sono riuscito a reagire.

Guardavate la televisione insieme, quando era a casa, ad Albinea, vicino a Reggio Emilia.

Sì, il nostro programma preferito era Striscia la notizia, ma prima vedevamo i telegiornali. Una volta, ero alle medie, sullo schermo apparve Giulio Andreotti. Mio padre si scatenò: “Mafioso, schifoso, traditore. Io sarei a Roma a comandare, se tu non ci avessi tradito”. Faceva riferimento ai golpe tentati, mi disse che erano stati pronti a occupare la Rai di Roma.

Invece a suo padre piaceva un altro politico, Francesco Cossiga.

Un giorno vidi che stava scrivendo su alcuni foglietti. Gli chiesi cosa stesse facendo: stava cercando le parole giuste per mandare un telegramma a Cossiga. Mi disse: “Siamo uniti da un patto di sangue. Io faccio parte di Gladio, un’élite di pochi uomini addestrati a intervenire in caso di minaccia comunista”. Poi il telegramma lo fece e lo mandò. Diceva: “Sarai sempre il mio presidente”.

Le parlava anche della Torre di Pisa.

Mi diceva che se era ancora in piedi era grazie a lui. Erano gli anni della trattativa Stato-mafia, lui era un infiltrato dei carabinieri dentro Cosa nostra e poi riferì che i mafiosi nel 1993 volevano attaccare i monumenti italiani per trattare con lo Stato. Io dico che lo dobbiamo ringraziare se ha salvato la Torre di Pisa, ma lo dico ironicamente: lui ha sempre, sempre, avuto i piedi in due staffe, quando non erano tre. Io non ho prove, ma mi sono convinto che fu lui a suggerire a Giovanni Brusca di fare attentati ai monumenti, lui era un ladro di mobili antichi, un appassionato d’arte, conosceva quel mondo.

Bellini era amico di Nino Gioè, uomo di Cosa nostra implicato nella strage in cui morì Giovanni Falcone.

Lo conosceva bene, lo incontrò diverse volte in Sicilia, dove andava con la scusa del recupero crediti, con la sua società Finbelco. Una sera, al telegiornale sentimmo la notizia della fine di Gioè, morto suicida in carcere, lasciando una lettera in cui citava Paolo Bellini. Mio padre stava facendo la carbonara, che cucinava meravigliosamente. Sbiancò in faccia e disse: “Che cosa hai fatto, mi hai condannato!”. Mi portò giù al ristorante Capriolo dei miei nonni materni e sparì per diverso tempo. “Se dovesse venire qualcuno a cercarmi, dei siciliani, tu non sai niente, non sai niente di me da tanto tempo”. Io, terrorizzato, annuii.

Suo padre parlava dei suoi rapporti con apparati dello Stato?

Non chiaramente, anche se io ho sempre sospettato che avesse rapporti con i servizi segreti o con apparati occulti. Una volta, nel 1992, seguendo i programmi sulle stragi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, vedemmo in tv il magistrato Giuseppe Ayala. Mio padre disse: “Lui è il prossimo, quello è un morto che cammina!”. Poi non fu così, perché cambiò la strategia mafiosa e l’ordine di ucciderlo non fu dato. Ma come faceva mio padre a sapere che Ayala era davvero nel mirino di Cosa nostra?

Poi arrivarono le accuse per la strage di Bologna.

Io sapevo che aveva fatto molti omicidi, ma non volevo credere che fosse coinvolto in una strage così orribile, con tanta gente innocente. Nel 1980 io avevo un anno. Poi, parlandone con mia madre, che in un primo tempo lo salvò dandogli un alibi, mi sono convinto che è coinvolto, e se non è stato lui a portare la bomba, però c’entra e sa chi è stato.

In recenti intercettazioni ha minacciato di uccidere sua madre. E ha accennato a un “giuramento”.

Mi ha stupito che lo abbia minacciato al telefono, l’omicidio a mia madre, invece di farlo. E che abbia al telefono parlato di un giuramento: credo che siano messaggi a qualcuno, minacce per essere salvato. Per questo penso che la vicenda Bologna non sia ancora finita.

La risposta di Bellini al figlio

Il “figlio del Male” scrive e il padre risponde. Con quattro fogli a quadretti scritti a mano, in stampatello, Paolo Bellini, condannato in primo grado all’ergastolo per la strage di Bologna e attualmente rinchiuso nel carcere di Spoleto, replica alle accuse che Guido Bonini ha affidato a un volume autoprodotto, intitolato appunto Il figlio del Male. Sprezzante, Bellini sostiene che i racconti del libro, angosciati e dolenti, sono soltanto una sequenza di bugie: “Una moltitudine di atti processuali e sentenze passate in giudicato parlano da sole. Gli atti vi sbugiardano”.

La lettera è stata inviata al direttore del sito Reggio Emilia Report che la pubblica integralmente. “Chiedo pubblicamente un confronto-interrogatorio con Bonini Guido, per potere bilanciare i miei diritti di difesa. Dopo la lettura di quei 167 fogli ho capito bene che avete sbagliato titolo. Avrebbe dovuto essere: Le nostre calunnie e bugie su Paolo Bellini”.

Indicandolo come “Guido figlio di Bonini Maurizia”, sua ex moglie, Bellini contesta alcune ricostruzioni del figlio concludendo: “Adesso, appena ti vedranno per strada, prima rideranno a squarciagola e poi diranno: ridammi indietro i soldi del libraccio, ci hai fregato”.

Bellini indica alcune contraddizioni che ritiene di avere individuato nel “libraccio”. “Con mio padre andai al Casinò in diverse occasioni, tra i 9 e i 17 anni”, vi si legge. “Ma il problema è che i minorenni al Casinò non entrano”.

Il figlio scrive di aver visto insieme al padre, nel luglio 1993, il Tg che annunciava la morte di Antonino Gioè, uno degli assassini di Giovanni Falcone, che aveva lasciato una lettera in cui parlava di Bellini. “Accusando il colpo esclamò: ‘Che cosa hai fatto, mi hai condannato’”. Ma “io Paolo Bellini a luglio 1993 ero in galera a Reggio Emilia”.

La lettera si conclude così: “Gli altri capitoli li lasciamo ai magistrati perché è penale. Vi saluto bugiardoni. Ridate i soldi a chi ha acquistato… Tale madre tale figlio”.

 

Il Fatto quotidiano, 20 ottobre 2023 (versione estesa)
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