SEGRETI

Marina scrive. Difende il padre, attacca i magistrati, aiuta Marcello

Marina scrive. Difende il padre, attacca i magistrati, aiuta Marcello

Puro amore filiale che rompe gli argini del silenzio, a un mese dalla morte del padre. Questa è l’unica spiegazione che negli ambienti della famiglia viene data per la lettera che Marina Berlusconi ha fatto pubblicare ieri sul Giornale. Nessun retropensiero politico, semplice slancio d’affetto di una figlia che difende il padre dai magistrati della Procura di Firenze che stanno indagando sui possibili mandanti esterni delle stragi mafiose del 1993 e indicano due nomi: Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.

“L’accusa più delirante”, scrive Marina, dopo una “persecuzione di cui mio padre è stato vittima e che non ha il pudore di fermarsi nemmeno davanti alla sua scomparsa”. La “lettera scarlatta giudiziaria che marchia l’avversario resta indelebile, gli sopravvive. E il nuovo obiettivo è chiaro: la damnatio memoriae”.

All’amore filiale si aggiunge, tutt’al più, la dichiarata indignazione della famiglia per il coinvolgimento dell’amico Dell’Utri, un uomo ormai gravemente malato.

L’effetto finale, comunque, è un paradosso: rende visibili anche nel campo dei sostenitori di Berlusconi accuse che finora erano state confinate in due o tre di giornali (tra cui il Fatto). Scrive infatti Marina: “Ci sono ancora pm e giornalisti che insistono nella tesi, assurda, illogica, molto più che infamante, secondo cui mio padre sarebbe il mandante delle stragi mafiose del 1993-94. Ma davvero qualcuno può credere che Silvio Berlusconi abbia ordinato a Cosa nostra di scatenare morte e distruzione per agevolare la sua discesa in campo del gennaio 1994? Ed è credibile, poi, che abbia costruito una delle principali imprese del Paese utilizzando capitali mafiosi?”.

Sono proprio le ipotesi d’accusa che i pm fiorentini stanno vagliando di nuovo, dal 2020, quando sono andati a interrogare in carcere il boss delle stragi, Giuseppe Graviano, che ha raccontato di aver incontrato Berlusconi a Milano tra la fine del 1993 e l’inizio del 1994, al culmine della stagione stragista.

Un vecchio “teorema” risuscitato dalla “Procura di Firenze, per riprendere imperterrita la caccia a Berlusconi”. Così una “sia pur piccola parte della magistratura si trasforma in casta intoccabile e soggetto politico, teso solo a infangare gli avversari”. “Nel frattempo gli organi di informazione amici avranno diligentemente pubblicato le carte dell’accusa, anche quelle in teoria segrete, facendo di tutto per presentarne le ipotesi come fossero verità assolute”.

Con queste parole il dichiarato affetto filiale di una questione solo di famiglia si trasforma in un attacco politico ad alzo zero alla Procura di Firenze. Anzi, in una intimidazione ai pm Luca Tescaroli e Luca Turco che proprio oggi devono interrogare Dell’Utri in un’inchiesta che è stata riaperta perché sulle scrivanie dei pm sono arrivati fatti nuovi, tra cui le dichiarazioni di Graviano, gli incroci con i racconti del suo braccio destro Gaspare Spatuzza, e una nuova consulenza tecnica sui conti Fininvest “che individua ingressi di flussi finanziari nelle imprese riconducibili a Berlusconi, di cui Dell’Utri già all’epoca era referente e fidato collaboratore, privi di paternità per 70 miliardi e 540 milioni di lire, nel periodo febbraio 1977-dicembre 1980”.

L’inchiesta, dunque, non è “teorema”, ma conseguenza dell’obbligatorietà dell’azione penale, in presenza di nuovi elementi indiziari, anche per appurare eventuali calunnie ai danni di Berlusconi. E la lettera della figlia, che comprensibilmente desidera difendere il padre dalla più infamante delle accuse, diventa segnale giudiziario e atto politico. Rassicura Dell’Utri, ribadendo che non sarà lasciato solo (anche perché “simul stabunt, simul cadent”). Ma chiama a raccolta il centrodestra, il ministro della Giustizia Carlo Nordio e la stessa Giorgia Meloni, per schierarli contro i pm in difesa della memoria del padre. Con un primo risultato raggiunto: l’accordo per mandare a Firenze gli ispettori del ministero.

Infine la stampa: i pochi giornalisti e giornali che, nel silenzio generale, hanno in questi mesi raccontato l’ultima inchiesta sulle stragi da cui è nata la Seconda Repubblica – argomento d’interesse non solo per la cronaca ma anche per la storia – sono accusati di collusione con i pm e di aver allestito una gogna mediatica: i giornali, le tv e soprattutto la nuova Rai melonizzata sono avvisati.

Il Fatto quotidiano, 18 luglio 2023
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