GIUSTIZIA

Davigo condannato, “perse la postura istituzionale”

Davigo condannato, “perse la postura istituzionale”

di Gianni Barbacetto e Antonio Massari /

In 111 pagine, il giudice di Brescia Roberto Spanò spiega perché, secondo il collegio da lui presieduto, Piecamillo Davigo è colpevole di rivelazione del segreto d’ufficio. Sono le motivazioni della sentenza di condanna in primo grado a 1 anno e 3 mesi: per aver diffuso i verbali segreti in cui l’avvocato dell’Eni Piero Amara ha ricostruito, tra il dicembre 2019 e il gennaio 2020, le gesta di una settantina di politici, magistrati, funzionari dello Stato, imprenditori, avvocati, banchieri, alti prelati vaticani, generali dei carabinieri e della Guardia di finanza che a suo dire erano riuniti in un gruppo massonico segreto chiamato “loggia Ungheria”.

Davigo, magistrato del pool Mani pulite, poi per dieci anni giudice in Cassazione e a fine carriera membro del Consiglio superiore della magistratura, aveva fatto conoscere quei verbali ai vertici e ad alcuni membri del Csm. Li aveva ricevuti nella primavera del 2020 dal pm di Milano Paolo Storari, che “ha sostenuto in dibattimento, con grande partecipazione emotiva, di aver subito condotte ostruzionistiche da parte del proprio ufficio”: “a suo dire, il procuratore Francesco Greco e l’aggiunto Laura Pedio gli avevano impedito di compiere gli approfondimenti investigativi indispensabili per riscontrare” le dichiarazioni di Amara.

Davigo aveva scelto allora “modalità carbonare”, vie informali, perché – ha spiegato in aula – una denuncia formale avrebbe fatto conoscere i contenuti dei verbali segreti anche ai due componenti del Consiglio indicati da Amara come appartenenti alla loggia Ungheria: “Ho agito dunque nelle uniche forme consentite dalla particolarità della situazione”. I giudici di Brescia non hanno accolto questa spiegazione e ora scrivono che le modalità “carbonare” appaiono “sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale”.

Dal processo “è emerso un quadro storico assai divergente da quello illustrato” da Storari. L’allora procuratore di Milano, Greco, “ha infatti spiegato di aver adottato una serie di cautele per tenere riservato lo sviluppo di un’indagine che si presentava assai delicata e che proponeva aspetti ‘assolutamente da approfondire’, attesa la genericità del materiale raccolto e la mancanza di riscontri esterni”: “la scelta organizzativa improntata alla cautela poteva dunque essere ispirata non a colpevole titubanza o, peggio, a volontà di insabbiamento, quanto piuttosto a ragioni di garantismo, onde evitare ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto a notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali”.

Secondo i giudici bresciani, è stato Davigo a indurre Storari “a compiere un atto extra ordinem quale la consegna brevi manu di copia dei verbali secretati”. Storari è stato poi “assolto dall’accusa speculare per aver riposto affidamento in un soggetto qualificato che lo aveva indotto in errore nell’interpretazione delle norme che regolano la trasmissione degli atti dalla Procura al Csm”.

La responsabilità, dunque, secondo la sentenza è tutta di Davigo, che non aveva invece singolarmente titolo per ricevere quegli atti, che andavano semmai portati alla Procura generale di Milano e poi al Csm: il processp “non ha fornito la sponda alla tesi della non opponibilità del segreto investigativo a un singolo consigliere, così come del resto non ha trovato appiglio l’eventualità che fosse ammissibile la circolazione di atti riservati in assenza di passaggi formali”.

I giudici bresciani segnalano “l’oscuramento degli indirizzi di posta elettronica nella disponibilità” di Davigo “e la mancata conservazione dei documenti nella memoria del suo computer” che non hanno “consentito di tracciare appieno gli accadimenti”: c’è stato “un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica”, avvenuto “in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla dottoressa Contrafatto” (la segretaria di Davigo al Csm, in quel momento indagata con l’accusa di aver inviato copie dei verbali al Fatto, a Repubblica e al consigliere del Csm Nino Di Matteo).

Alla fine, “se l’elusione dei binari formali aveva lo scopo di impedire la divulgazione di una notizia da mantenere segreta, il risultato ottenuto è stato quello di averla diffusa in modo incontrollato”. E “quando si maneggia materiale altamente sensibile (‘il tritolo’), si ha il dovere di prevedere anche l’imprevedibilità”, scrivono i giudici, “poiché dopo la rivelazione la notizia riservata fuoriesce necessariamente dalla sfera di controllo del depositario che non può fare assoluto affidamento sulla tenuta ermetica del recettore”. Davigo non ha voluto commentare le motivazioni della sentenza, contro cui ricorrerà in appello.

Il Fatto quotidiano, 4 luglio 2023
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