MILANO

Bilancio (semiserio) della Milano dei due Saloni

Bilancio (semiserio) della Milano dei due Saloni

Milano è appena uscita dalla folle e glam “settimana dei due Saloni”: il Salone del mobile, a Rho Fiera, e il Fuorisalone, disseminato in città. Sette giorni d’invasione da tutto il mondo, eventi e mostre, incontri e affari, aperitivi e cocktail party, lunghe code e brevi flirt, total black e gonne fluo, streetwear e workwear, Hugo e bollicine, crostini con trota affumicata e ganache di topinambur.

Bisogna vederla, questa “Design week”, per capire che cos’è Milano. Il solito storytelling drogato e agiografico la racconta con toni entusiastici ed eroici. Ma che cosa c’è sotto la melassa della retorica, del provincialismo e dell’ideologia?

Il Salone del mobile – 2 mila espositori da 37 Paesi del mondo, 300 mila visitatori da 181 Paesi – è un appuntamento imperdibile d’affari per l’Italia che nel 2020 ha sorpassato la Germania ed è diventata leader europeo del settore arredamento, con 28 miliardi di fatturato, +11% sull’anno precedente, prima nell’export in Cina davanti a Germania, Giappone, Vietnam e Polonia, prima anche negli Usa per prodotti di alta gamma. In Italia, il mercato in frenata è stato sostenuto – dichiarano gli analisti del settore – dal bonus mobili e dal bonus 110%.

In questo, indubitabilmente, Milano è capitale: di un mercato manifatturiero che resta forte – 16 mila imprese, 125 mila addetti, ottima internazionalizzazione – continuando a incrociare impresa e cultura dello stile e dell’oggetto, come negli anni Sessanta in cui Milano cominciò a essere capitale del mobile e del design. Un mercato che è fatto fuori da Milano, in distretti tradizionali e vicini, come la Brianza che ha resistito all’Ikea coltivando l’alta gamma e puntando sull’export, ma anche lontani, come Treviso, Udine, Pordenone. Un mercato che si sta concentrando (vedi la recente acquisizione di Zanotta da parte di Cassina) e finanziarizzando (con l’arrivo anche in questo settore dei fondi di private equity).

E il Fuorisalone? È cresciuto con il crescere del Salone del mobile e del “Modello Milano”, diventando una Disneyland urbana, la settimana più divertente dell’anno in città, in cui si incrociano riti metropolitani e affari, internazionalizzazione e provincialismo, cultura e marchette, culto dell’“evento” e dittatura del catering, cinismo del mercato e dominio delle pierre.

A girare come Indiana Jones nelle mille location del Fuorisalone 2023 è stata una folla variopinta composta da buyer e operatori del settore, 5 mila giornalisti accreditati al Salone (di cui quasi la metà stranieri), milanesi che hanno rinunciato al weekend a Santa o a Curma, provinciali in gita scolastica, cultori del design, adoratori del brand, curiosi frastornati, ragazzine che hanno visto su Tiktok l’elenco dei dieci posti del Fuorisalone dove bere e mangiare gratis.

Divertente, in ultima analisi, al netto delle lunghe file e delle interminabili attese per entrare nei posti più cool. Con la possibilità di vedere, forse per l’ultima volta prima del risucchio immobiliare, luoghi meravigliosi come l’ex macello di Milano, un tempo occupato da Macao e ora rimpilzato per l’occasione di oggetti oggettini prodotti merci e mercanzie di cui non sentiremo la mancanza, mentre sentiamo la mancanza delle geniali invenzioni di Achille Castiglioni, Enzo Mari, Giò Ponti, Ettore Sottsass, Alessandro Mendini.

Vinta in un attimo la nostalgia passatista, possiamo consolarci, se ci riusciamo, con le seggioline di Philippe Starck che ballano per Dior. Poi la Design Week finisce, il Fuorisalone spegne le luci e sbarra le location. Resta la londrizzazione della città in cui è sempre più difficile vivere e abitare, resta la gentrificazione delle aree periferiche toccate dal soffio divino del design brandizzato che moltiplica i valori immobiliari e spinge la trasformazione della città in una Disneyland permanente, crudele e senza regole, del real estate, del food e dell’Airbnb.

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Il Fatto quotidiano, 28 aprile 2023
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