POLITICA

C’è un problema a sinistra: il caso Panzeri figlio dell’affarismo rosso

C’è un problema a sinistra: il caso Panzeri figlio dell’affarismo rosso

Quando l’altro giorno Giorgia Meloni ha detto: “Più Italia in Europa”, a Bruxelles hanno tremato. Il Parlamento europeo è scosso da una inedita Eurotangentopoli che non è, certamente, solo italiana, ma di certo interroga la politica italiana. Anzi, specificamente la sinistra italiana.

L’arresto di Antonio Panzeri ha scoperchiato uno scandalo che ha per protagonisti sindacalisti, politici e persone di sinistra che avrebbero dovuto difendere i diritti dei lavoratori e invece accettavano (tanti) soldi (dal Qatar e non solo) per convincere l’Europarlamento che i 6 mila operai morti nei cantieri dei Mondiali (fonte The Guardian) erano uno scherzo, che il Paese dove vigeva la semischiavitù era “in cammino” verso i diritti e che anche i morti sul lavoro – scriveva Panzeri – “vanno guardati in controluce e statisticamente relativizzati”.

Da dove viene tanto cinismo, che sarebbe politicamente imperdonabile anche se azzerassimo la vicenda giudiziaria, anche se non esistessero le tangenti, i soldi nascosti negli armadi, le borse e i trolley pieni di banconote che gli indagati hanno cercato di nascondere durante le perquisizioni?

Io temo che questa storia di corruzione sia una conseguenza patologica dell’affarismo praticato da anni da una parte della sinistra italiana. Panzeri è cresciuto nel Pci come fedelissimo di Massimo D’Alema ed è politicamente figlio di quel Filippo Penati che era stato sindaco Pci di Sesto San Giovanni e poi, da presidente della Provincia di Milano, decise di comprare (con soldi pubblici, e a caro prezzo) dal costruttore e re delle autostrade Marcellino Gavio la maggioranza della Milano-Serravalle.

Gavio incassò 238 milioni, vendendo a 8,93 euro azioni che solo diciotto mesi prima aveva pagato 2,9 euro e realizzò una plusvalenza di 176 milioni. Penati dissanguò le casse della Provincia per acquistare una autostrada che (con la quota del Comune di Milano) era già a maggioranza pubblica. Perché allora realizzare quell’operazione? Sappiamo che Gavio utilizzò una parte di quelle plusvalenze (50 milioni) per appoggiare le scalate dei “furbetti del quartierino”, sostenendo Giovanni Consorte, il presidente di Unipol (la compagnia d’assicurazioni delle coop rosse, legata al vecchio Pci), nella sua scalata alla Banca nazionale del lavoro. E Penati fu premiato da Pier Luigi Bersani che lo chiamò a diventare il capo della sua segreteria politica.

In quella stessa, cruciale estate del 2005, Piero Fassino, allora segretario dei Ds, telefonò a Consorte (intercettato) e gli pose la domanda destinata ad entrare nella storia politica italiana: “Allora, abbiamo una banca?”. Era la Bnl, che Consorte credeva di aver conquistato. L’anno seguente, la telefonata in cui il segretario del maggior partito della sinistra discuteva d’affari e gioiva per l’acquisizione di una banca fu diffusa dal Giornale e usata da Silvio Berlusconi in campagna elettorale per quasi ribaltare le previsioni di voto.

Ora Bersani chiama “la Ditta” quel gruppo politico proveniente dal Pci di cui egli stesso fa parte, insieme a D’Alema (ormai diventato un mediatore d’affari) e tanti altri che avevano dato vita al Pd e si sono poi ritrovati (come Panzeri) in Articolo 1. “La Ditta” è una definizione affettuosa, è una delle tante, simpatiche trovate linguistiche di Bersani, politico ironico e perbene. Ma, senza volere, connota un gruppo in cui la lunga pratica del potere e la consolidata abitudine a governare hanno avuto l’effetto di saldare la politica con gli affari. Con il rischio di far via via prevalere gli affari sulla politica. Fino agli esiti estremi: elogiare il Qatar e dimenticare – grazie al fruscio delle banconote – i lavoratori morti per costruire gli stadi degli emiri.

Il Fatto quotidiano, 15 dicembre 2022
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