AFFARI

L’Ocse boccia l’Italia per i processi Eni e Finmeccanica

L’Ocse boccia l’Italia per i processi Eni e Finmeccanica

Una secca bacchettata all’Italia per come sta gestendo i processi di corruzione internazionale. Un plauso alla Procura di Milano e al suo terzo dipartimento, quello specializzato in indagini proprio sulla corruzione internazionale. Sono questi i clamorosi esiti del rapporto dell’Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), stilato dopo l’esame periodico che l’Italia, come tutti i Paesi a turno, ha subito nei mesi scorsi.

Il rapporto, di 118 pagine, è stato approvato dal Working Group on Bribery, il Gruppo di lavoro sulla corruzione dell’Ocse, dopo i numerosi incontri che gli esaminatori (tedeschi e statunitensi) hanno avuto nell’aprile 2022 in Italia con rappresentanti dell’industria pubblica e privata italiano, pubblici ministeri, magistrati, giornalisti e rappresentanti della società civile. Fa riferimento anche ad alcuni precisi procedimenti giudiziari, come quelli a Finmeccanica per una vendita di elicotteri all’India e a Eni per affari petroliferi in Algeria e in Nigeria.

“La creazione del Terzo dipartimento presso la Procura di Milano per contrastare la corruzione internazionale”, si legge nel rapporto, “dimostra l’impegno dell’Italia ad attuare la Convenzione Ocse ed è una buona pratica che dovrebbe essere mantenuta”. È il Dipartimento formato dall’allora procuratore Francesco Greco e guidato dall’aggiunto Fabio De Pasquale.

“Tuttavia – aggiungono i commissari Ocse – il Gruppo di lavoro è seriamente preoccupato per il fatto che i processi in Italia sui casi di corruzione all’estero abbiano prodotto un numero elevato di assoluzioni. Quasi tutte le condanne per corruzione all’estero sono garantite dal patteggiamento, una forma di risoluzione non processuale”. Per il resto, “dopo una condanna nel 2013, gli ultimi sette processi hanno prodotto cinque assoluzioni totali, una assoluzione parziale e una condanna. Le assoluzioni si verificano perché non viene presa in considerazione la totalità delle prove indiziarie”.

La frammentazione degli elementi di prova uccide i processi, sostiene il rapporto. Facendo riferimento ai casi Finmeccanica-India, Eni-Algeria e Eni-Nigeria, “in ciascuna di queste tre vicende, invece di considerare contemporaneamente la totalità delle prove fattuali, si considera ciascun elemento di prova solo singolarmente. Per ciascuna voce viene adottata un’interpretazione alternativa, a discarico”. Così si rende impossibile sanzionare le corruzioni internazionali.

Non solo. La soglia di prova richiesta dai tribunali è troppo alta: l’applicazione delle leggi italiane “nella pratica ha portato a uno standard di prova molto pesante nei casi di corruzione all’estero”. Come correggere queste prassi? La relazione suggerisce qualche rimedio: “Per correggere queste carenze sono necessari emendamenti legislativi e formazione dei giudici”. Il rapporto dedica molte pagine al processo Eni-Nigeria sull’acquisto della licenza d’esplorazione petrolifera Opl 245, terminato con assoluzioni in primo grado diventate definitive perché la Procura generale di Milano non ha voluto – caso rarissimo – neppure celebrare l’appello.

“I giudici hanno ritenuto che le società in questo caso non possano essere ritenute responsabili di corruzione all’estero, anche se il titolare della licenza aveva un accordo di corruzione con funzionari nigeriani”: “questa interpretazione del diritto italiano non è conforme alla Convenzione Ocse”.

Il rapporto critica esplicitamente (senza farne il nome) il sostituto procuratore generale di Milano che ha comunicato in aula la decisione di non procedere (era la pg Celestina Gravina): “Il pm d’appello ha affermato che vi è una ‘debolezza e assoluta insignificanza degli elementi’ della prova, e che le prove sono ‘incongrue e insufficienti’, il che suggerisce ‘diverse possibili ricostruzioni che riflettono l’assenza di fatti alla base dell’accusa e non la presenza di un accordo corruttivo’. Così, ‘non vi è alcuna prova di un accordo corruttivo, né una prova del pagamento di tangenti’. Per inciso”, continua il rapporto, “il procuratore d’appello ha anche formulato alcune osservazioni sconsiderate, descrivendo l’atteggiamento del procuratore del processo (Fabio De Pasquale, ndr) come ‘neocolonialista’ e che le società incriminate (Eni e Shell, ndr) ‘avevano fatto la ricchezza della Nigeria’”.

Il rapporto segnala anche “un aspetto preoccupante” nel caso Eni-Nigeria, in cui “uno dei presunti intermediari della corruzione era un cittadino della Federazione Russa”: si è verificata una “interferenza del governo” russo, perché “dopo che l’intermediario è stato accusato di corruzione internazionale, il ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov nell’ottobre 2018 ha consegnato una lettera al suo omologo italiano” in cui esortava a “dimostrare un approccio ragionevole e far cadere le accuse all’intermediario”.

Per leggere il rapporto, clicca qui

Il Fatto quotidiano, 19 ottobre 2022
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