SEGRETI

Delitto Moro, tutte le domande rimaste aperte

Delitto Moro, tutte le domande rimaste aperte

Ci sono due storie parallele che raccontano il delitto Moro. La prima è quella terribile ma rassicurante contenuta nelle versioni ufficiali e nei racconti dei brigatisti che hanno sequestrato e ucciso il presidente della Dc. La seconda è una infinita, interminabile, rizomatica proliferazione di piste, complotti, misteri, bugie, tradimenti, depistaggi, che parte da domande serie e dubbi inaggirabili, passa attraverso mille ricostruzioni giudiziarie, parlamentari, storiche e giornalistiche, e arriva fino ai bordi estremi del terrapiattismo e della paranoia.

Sono passati 44 anni da quel fatale 9 maggio 1978 in cui il cadavere di Aldo Moro fu ritrovato in via Caetani a Roma. La storia semplice è quella di un’organizzazione comunista armata, le Brigate rosse, che realizza in proprio, con “geometrica potenza”, un’operazione militare che cambia la politica e la storia d’Italia. Chi doveva proteggere Moro e trovare i suoi rapitori sembra restare attonito e imponente, riesce solo a ordinare centinaia di (inutili) posti di blocco e perquisizioni a tappeto eseguite in tutto il Paese, o poco di più.

Di certo c’è che i due investigatori esperti di terrorismo che lo Stato aveva a disposizione in quel momento, il generale dei carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa e il prefetto Emilio Santillo, sono esclusi dalle indagini. Tutti i capi degli appartati investigativi e d’intelligence, in particolare sulla piazza di Roma, sono invece uomini poi risultati iscritti alla loggia P2. Di certo c’è che in questa storia troppe cose non tornano, troppe domande restano aperte.

A partire dall’agguato di via Fani del 16 marzo 1978, in cui vengono uccisi i cinque uomini della scorta. Quanti sono i brigatisti che partecipano all’azione? Quante sono le armi che sparano? Erano presenti altri uomini, non brigatisti? Leggende, per gli irriducibili del partito armato e del “sappiamo già tutto”. In una vecchia foto, all’angolo tra via Fani e via Stresa, è stato riconosciuto (chissà?) Antonio Nirta detto “Due nasi”, uomo della ’ndrangheta e confidente del generale dei carabinieri Francesco Delfino. Ma le indagini su questa pista sono state chiuse con una archiviazione. Archiviata anche la presenza di Giustino De Vuono, calabrese, legionario, e di Camillo Guglielmi, colonnello del servizio segreto militare e istruttore di Gladio.

Uno dei fondatori delle Br, Alberto Franceschini, ricorda che per il sequestro Sossi, incomparabilmente più semplice di quello Moro, furono impiegati ben diciotto brigatisti. In via Fani invece solo nove, poi diventati dodici, forse quattordici.

Sentite che cosa scrive uno che se ne intende: “L’agguato di via Fani porta il segno di un lucido superpotere. La cattura di Moro rappresenta una delle più grosse operazioni politiche compiute negli ultimi decenni in un Paese industriale, integrato nel sistema occidentale. L’obiettivo primario è senz’altro quello di allontanare il partito comunista dall’area del potere nel momento in cui si accinge all’ultimo balzo, alla diretta partecipazione al governo del Paese. È un fatto che si vuole che ciò non accada. Poiché è comunque interesse delle due superpotenze mondiali mortificare l’ascesa del Pci, cioè del leader dell’eurocomunismo, del comunismo che aspira a diventare democratico e democraticamente guidare un Paese industrializzato. Ciò non è gradito agli americani. Ancor meno è gradito ai sovietici. Con Berlinguer a palazzo Chigi, Mosca correrebbe rischi maggiori di Washington. La dimostrazione storica che un comunismo democratico può arrivare al potere grazie al consenso popolare rappresenterebbe (…) la fine dello stesso sistema imperiale moscovita”. A scrivere queste parole non è oggi uno storico esperto di geopolitica, ma Mino Pecorelli, giornalista con ottime fonti nei servizi segreti, sulla sua rivista, Op, il 2 maggio 1978, sette giorni prima della morte del presidente della Dc.

Poi ci sono i dubbi sui luoghi dove Moro è stato tenuto prigioniero. Un solo “covo”, in via Montalcini 8, dicono i suoi carcerieri. Ma come sono spiegabili le tracce di “sabbia, catrame, parti di piante” provenienti dalle spiagge del litorale laziale trovate sui vestiti e sotto le scarpe del prigioniero? La mente del sequestro, Mario Moretti, abitava intanto in un appartamento in via Gradoli. Mai perquisito, malgrado qualche segnale arrivato anche dall’oltretomba. E malgrado i vicini di casa.

Pensate: a Roma gli appartamenti sono circa un milione. Ebbene: Moretti pone la sua base proprio in via Gradoli, in una palazzina in cui ben 24 dei 66 miniappartamenti erano di proprietà di tre società dei servizi segreti (la Monte Valle Verde srl, la Caseroma srl e la Gradoli spa). L’amministratore unico della Caseroma srl, Domenico Catracchia, amministratore anche della palazzina e dal 1980 amministratore unico della immobiliare Gradoli spa, il 6 aprile 2022 è stato condannato a 4 anni per false informazioni al pm al fine di sviare le indagini, nel processo sulla strage di Bologna.

E il “covo-prigione” di via Montalcini? Era in una zona controllata dalla Banda della Magliana, aveva segnalato a suo tempo l’indimenticato storico dei servizi segreti Giuseppe De Lutiis. Uno dei capi della Magliana, Danilo Abbruciati, abitava in via Fuggetta 59, a 120 passi da via Montalcini; Danilo Sbarra e Francesco Picciotto, uomo di Pippo Calò, abitavano in via Domenico Luparelli 82, a 230 passi dal covo (50 se si tiene conto dell’ingresso secondario); in via di Vigna Due Torri 135 (a 150 passi) abitava Ernesto Diotallevi, compare di Calò. Inoltre, in via Montalcini 1, vi è villa Bonelli, di Danilo Sbarra, riciclatore di Pippo Calò.

Anche l’allora capo di Cosa nostra, Stefano Bontate, cercò di trovare una strada per salvare Moro, ma Pippo Calò, il suo rappresentante a Roma, a sua volta legato alla Banda della Magliana, gli disse: “Stefano, ma ancora non l’hai capito, uomini politici di primo piano del suo partito non lo vogliono libero”.

Moro era meglio morto che vivo. Anche per gli americani e i sovietici: gli uni e gli altri non volevano il Pci nell’area di governo. Lo ha ammesso il consulente Usa Steve Pieczenik, componente del comitato di crisi voluto dall’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga. E Walter Laqueur, direttore del Centro studi strategici internazionali di Washington, ha sostenuto che le Br ricevevano armi e denaro dai servizi cecoslovacchi, dietro cui si muoveva il Kgb. Ma questa resta ancora una storia tutta da scrivere. Abbiamo tante domande, poche risposte certe.

Il partito non brigatista dell’omicidio
Intervista allo storico Francesco Biscione

“Nel caso Moro vengono giocate contemporaneamente due partite. L’attacco allo Stato sferrato dalle Br avviene all’interno di una partita più grande in cui sono coinvolte forze visibili e forze occulte, poteri interni e internazionali. L’intero quadro, 44 anni dopo, non è stato ancora interamente ricostruito”. Così spiega lo storico Francesco Biscione, già curatore del Memoriale di Aldo Moro, consulente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo e autore, tra l’altro, del volume Il delitto Moro.

44 anni dopo, abbiamo una verità completa sui fatti? Continuano a proliferare teorie e ad aggiungersi dubbi e sospetti.

Il delitto Moro è spesso trattato come un cold case poliziesco, con l’indicazione di piste significative, ma anche di piste senza prove. Siamo ancora al tempo delle istruttorie.

Di che cosa siamo sicuri?

Siamo sicuri che nel delitto Moro è avvenuta un’interazione tra forze diverse. La vicenda non si può spiegare se non si considera l’esistenza di quello che chiamo il “partito non brigatista dell’omicidio”. Che questo partito ci fosse, lo ammise il consulente Usa Steve Pieczenik, componente del comitato di crisi voluto da Francesco Cossiga. La domanda ancora senza risposta è se l’intento di bloccare con metodi illegali la politica di Moro sarebbe potuta prevalere anche senza l’azione delle Br.

Moro era consapevole del gioco grande in cui era entrato?

Sì, e per capirlo basta leggere il suo Memoriale. Moro è perfettamente cosciente delle tensioni interne e internazionali in cui il suo rapimento di colloca. Lo dimostra il suo attacco ad Andreotti, la polemica nei confronti del suo partito. Quelle tensioni erano antiche, si erano manifestate già ai tempi del primo centrosinistra.

Ma i “non brigatisti” hanno lasciato fare le Br o sono stati interni anche alla loro operazione militare?

Non abbiamo ancora risposte certe. Quello che sappiamo è che tutte le tendenze antistituzionali che si erano manifestate nella storia italiana, da piazza Fontana alla strage di Brescia, hanno poi avuto un superamento nella P2, che è un sistema di potere che conquista “dall’interno” pezzi dello Stato, tra cui i servizi segreti, controllati dalla loggia in maniera pressoché completa.

Sul delitto si allungano le ombre di Usa e Urss.

L’influenza degli Stati Uniti è provata al di là di ogni ragionevole dubbio, basti pensare ai conflitti tra Moro e Kissinger e poi all’influenza di Pieczenik sulla gestione del sequestro. Per quanto riguarda l’Unione sovietica, aveva sicuramente paura che un successo del Pci, che con Moro poteva arrivare al governo attraverso il metodo democratico, potesse far esplodere il blocco socialista, perché i Paesi dell’Est avrebbero potuto chiedere di fare come i compagni italiani, pretendendo democrazia, libere elezioni, libertà d’espressione. Poi sull’efficacia operativa di queste influenze è più difficile dire.

Il delitto Moro come cambia l’Italia?

Con la morte di Moro cambiano gli equilibri di potere, inizia l’agonia del Pci, che senza Moro non ha più una prospettiva politica strategica. Nella Dc prevale la visione empirica e tattica di Andreotti. Prevalgono i poteri oscuri, la P2, i poteri criminali. Il delitto Moro è soprattutto questo: il cambiamento dei rapporti di forza dentro la democrazia italiana, che diventa più debole, mentre diventano più forti i poteri criminali.

Consigli di lettura. “Delitto Moro. Carte nascoste”. Nel volume edito da Kaos si trova, tra l’altro, una ricostruzione delle figure e delle attività di Tommaso Gino Liverani, ex anarchico poi avvicinatosi alle Br, e dell’americano Ronald Harry Stark, collaboratore dell’intelligence statunitense e molto legato ai servizi segreti di Gheddafi.

Il Fatto quotidiano, 8 maggio 2022
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