GIUSTIZIA

Eni. Sette domande a cui una sentenza d’assoluzione non può rispondere

Eni. Sette domande a cui una sentenza d’assoluzione non può rispondere Foto Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Roma Economia Trasmissione tv "In Mezz'Ora" Nella foto Claudio Descalzi (ad Eni) Photo Roberto Monaldo / LaPresse 17-01-2016 Rome (Italy) Tv program "In Mezz'Ora" In the photo Claudio Descalzi (ceo Eni)

Dopo la sentenza Eni-Nigeria, si può semplicisticamente gioire, come hanno fatto in molti, perché “anni di fango” gettati addosso alla più strategica delle aziende italiane sono stati lavati in 57 secondi, quelli in cui il presidente del Tribunale ha letto il dispositivo d’assoluzione. Oppure ci si può porre, più seriamente, alcune domande di fondo lasciate aperte da un’assoluzione che riguarda il solo piano giudiziario. Domande che riguardano il processo in cui i giudici hanno ritenuto non esserci prove della corruzione internazionale (“il fatto non sussiste”); e domande che più in generale riguardano i grandi business che le aziende italiane concludono in giro per il mondo.

1.
Quello che è certo è che neppure un cent, del miliardo di dollari pagati da Eni per la licenza petrolifera Opl 245, è rimasto nelle casse dello Stato nigeriano. Eni ha cambiato in corsa lo schema dell’affare, nel 2011, versando 1,092 miliardi di dollari su un conto del governo nigeriano e non direttamente (come era previsto dal primo schema) a un ex ministro del petrolio, già condannato in Francia per riciclaggio, che si era autoassegnato la concessione. “Safe sex”, scrisse The Economist, un affare fatto con uno schermo di protezione, dopo il quale i soldi sarebbero stati comunque tutti distribuiti a pubblici ufficiali, politici, faccendieri.

Non è provato, dice ora la sentenza, che Eni abbia partecipato a questo schema corruttivo. Ma non è comunque un problema che la più rilevante delle aziende pubbliche italiane abbia partecipato a un affare in cui ha buttato oltre un miliardo di dollari, senza ottenere nulla in cambio (non una goccia di petrolio è stata ancora estratta)? Soldi che hanno alimentato la corruzione nel Paese da cui proviene la maggioranza dei migranti africani che arrivano in Italia (80 mila negli ultimi cinque anni, di cui 22 mila minori).

2.
L’assoluzione nel processo di Milano confligge con la condanna a 4 anni per corruzione internazionale (in rito abbreviato) di due mediatori dell’affare, Emeka Obi e Gianluca Di Nardo. I due avrebbero dunque partecipato a uno schema corruttivo che non esiste? L’appello che si celebrerà fra qualche tempo confermerà o smentirà il giudice di primo grado che poteva, tuttavia, contare su prove importanti, non ammesse nel giudizio davanti al Tribunale. Nel rito abbreviato, invece, i giudici possono utilizzare le dichiarazioni di Emeka Obi in udienza preliminare e soprattutto le intercettazioni disposte nel 2010 dalla Procura di Napoli in cui il lobbista Luigi Bisignani parla con l’amico Paolo Scaroni anche dell’affare nigeriano (primo schema) proposto proprio da Bisignani al capo dell’Eni.

3.
I pm della Procura di Milano, in un altro procedimento, sostengono che i vertici Eni abbiano influito, o tentato di influire, sul processo milanese con manovre, ricatti, tentativi di comprare un testimone, operazioni d’intelligence, che hanno di certo ottenuto il risultato di infamare due consiglieri di amministrazione che cercavano di fare chiarezza sull’affare nigeriano (Karina Litvack e Luigi Zingales), uno dei quali spinto alle dimissioni.

4.
I protagonisti Eni dell’affare nigeriano sono gli stessi di un’operazione in Congo per cui stanno per patteggiare (sebbene tale scelta non equivalga per legge a un’ammissione di responsabilità). L’accusa di corruzione internazionale è stata derubricata a induzione indebita, ma resta il fatto che i vertici Eni hanno ottenuto il rinnovo delle concessioni petrolifere in Congo accettando le pressioni dei pubblici ufficiali congolesi e cedendo loro (attraverso la società Aogc) quote delle società che controllano i pozzi. È un comportamento eticamente accettabile?

5.
Alcune quote dei pozzi sono state poi girate da Aogc, dunque dai pubblici ufficiali congolesi, alla società Wnr, riferibile a “soggetti collegati a Eni spa”, tra cui Roberto Casula, il numero due operativo dell’amministratore delegato Claudio Descalzi. È una situazione tollerabile?

6.
In casa del numero uno di Eni si è consumato un irrisolto conflitto d’interessi. La compagnia ha per anni affidato a società riconducibili alla moglie lavori in Africa per almeno 300 milioni di dollari. Descalzi ripete di non averne mai saputo nulla. Ma che cosa è peggio, per un manager internazionale: avere un conflitto d’interessi in casa, o non accorgersi di quello che gli capita sotto il naso?

7.
C’è un non detto, in queste vicende. O detto sotto voce: così fan tutti, nei grandi affari internazionali, le mazzette sono il solo metodo per fare business in molti Paesi del mondo; e solo in Italia la magistratura poi ci mette il naso, indebolendo i campioni nazionali. Non è vero, gli Stati Uniti e i Paesi europei hanno organismi e sistemi di controllo severi ed efficaci. In Italia, solo la magistratura (a volte) interviene, con strumenti insufficienti, alti rischi di fallimento e conseguente tentazione, per il futuro, di avviare solo i processi “sicuri” (cioè nessuno). È una situazione accettabile in un Paese civile e in un contesto internazionale in cui la lotta alla corruzione è proclamata come necessaria per lo stesso buon funzionamento dell’economia e per accelerare la crescita dei Paesi in via di sviluppo?

Leggi anche:
– Eni-Nigeria, i giudici assolvono Descalzi & C. dall’accusa di corruzione

 

Sostegno ai pm, inchiesta doverosa
Il comunicato stampa del procuratore della Repubblica Francesco Greco:

– eni:greco:comstampa

Sul caso Eni-Nigeria scende in campo il procuratore della Repubblica di Milano. Francesco Greco ha emesso il 24 marzo 2021 un comunicato in cui difende in maniera netta ed esplicita i due magistrati che hanno sostenuto l’accusa nel processo Eni-Nigeria, il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, “i quali, nonostante le intimidazioni subite, hanno svolto il loro lavoro con serenità, professionalità e trasparenza”.

Mercoledì 17 marzo era arrivata la sentenza che ha assolto con formula piena Eni, Shell e i loro vertici dall’accusa di corruzione internazionale, stabilendo che il miliardo di dollari pagato dalla compagnia italiana e finito tutto a pubblici ufficiali, politici e faccendieri nigeriani e internazionali non era una tangente. Molti giornali avevano commentato la sentenza attaccando i pm e la loro inchiesta e protestando contro “il fango” gettato per anni su Eni. Qualche polemica era serpeggiata anche tra i magistrati.

Ora il procuratore replica segnando qualche punto fermo. Ricorda che “nel corso delle indagini sono stati imbastiti da un avvocato dell’Eni presso la Procura di Trani e presso la procura di Siracusa due procedimenti finalizzati a inquinare l’inchiesta condotta dalla Procura di Milano e a danneggiare l’immagine di alcuni consiglieri indipendenti dell’Eni, segnatamente Luigi Zingales e Karina Litvack; per taluni fatti specifici gli imputati, tra i quali un magistrato, hanno ammesso gli addebiti e sono già stati condannati. Nell’azione di inquinamento, chi l’ha ideata e portata avanti ha anche cercato di delegittimare il pubblico ministero di Milano”.

Greco ribadisce anche che “in materia di corruzione internazionale, l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale è rafforzata dagli impegni assunti dallo Stato italiano con la convenzione Ocse di Parigi del 1997”. (Il Fatto quotidiano, 25 marzo 2021)

 

Eni, l’inchiesta non è sperpero
La lettera dei tre ex magistrati della Procura generale di Milano

Laura Bertolé Viale, Maria Elena Visconti e Salvatore Sinagra, già magistrati della Procura generale di Milano, criticano la richiesta di assoluzione formulata nei giorni scorsi dalla stessa Procura generale nei confronti di Emeka Obi e Gianluca Di Nardo, già condannati in primo grado con rito abbreviato a 4 anni di reclusione. Durante la sua requisitoria, il sostituto procuratore generale Celestina Gravina aveva riservato pesanti critiche al lavoro della pubblica accusa nel primo grado di giudizio. E aveva criticato l’eccessivo costo delle indagini: “C’è stato un grande dispiego di risorse di cui qualcuno dovrà rispondere”. Ecco la lettera dei tre ex della Procura generale.

Le critiche per l’ eccessivo costo delle indagini del c.d. processo Eni, destano allarmanti perplessità. Innanzitutto per l’autrice, sostituto procuratore generale , quindi componente dell’Ufficio il cui titolare, il Procuratore Generale, ha la vigilanza sulla Procura della Repubblica, cui appartiene il magistrato “sperperatore“. Ed è al Procuratore Generale che pertiene il potere, presa visione del fascicolo del pubblico ministero, di formulare rilievi specifici e motivati, sulle supposte dissipazioni di denaro pubblico; non certo nella forma volatile, di cui si è letto e prima di conoscere le motivazioni della sentenza assolutoria. Tanto più inopportune appaiono le censure da partita doppia, ove si consideri che il processo è ancora in corso, potendo percorrere gli ulteriori gradi di giudizio. In terzo luogo il diritto di critica delle sentenze, ma anche delle indagini, non può appartenere al magistrato o al funzionario della porta accanto. Costoro, se dissentono dall’operato di un collega, debbono attivare gli interna corporis se non si vuole ridurre la macchina della giustizia, o in generale della pubblica amministrazione, ad un cortile vociante. Last but no least. Il processo penale non è un’ impresa tesa al perseguimento di utili (condanne) anche se non può essere consentito al Pubblico Ministero intraprendere azioni di pura sorte. Proprio questo delicato bilanciamento di fini e mezzi impone che siano solo gli organi competenti (Csm, ministro di giustizia) a controllare, nei modi previsti da leggi e regolamenti, l’operato del Pubblico Ministero sotto il profilo finanziario.
Laura Bertolé Viale, Maria Elena Visconti, Salvatore Sinagragià magistrati della Procura generale di Milano

 

 

Il Fatto quotidiano, 20 marzo 2021 (versione ampliata)
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