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Eni, la memoria dell’accusa: ecco perché condannare

Eni, la memoria dell’accusa: ecco perché condannare Foto Palazzo Chigi/Tiberio Barchielli/LaPresse 11-05-2017 Milano - Italia Politica Il Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni visita lo stabilimento ENI di Milano DISTRIBUTION FREE OF CHARGE - NOT FOR SALE - Obbligatorio citare la fonte ©LaPresse/Palazzo Chigi/Tiberio Barchielli

In 304 pagine, la storia della più grande tangente internazionale mai scoperta in Italia. È quella che secondo la Procura di Milano sarebbe stata pagata da Eni e Shell per ottenere, a condizioni di favore, la concessione per l’immenso campo d’esplorazione petrolifera Opl 245,in Nigeria. A firmarla sono il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e il sostituto Sergio Spadaro, pm nel processo milanese giunto a un passo dalla sentenza.

La lunga memoria ricapitola la vicenda e allinea con cura meticolosa interrogatori, dichiarazioni, email, 198 documenti da cui si ricava – secondo i pm – la certezza che il pagamento di 1 miliardo e 92 milioni di dollari fatto da Eni e Shell nel 2011 su un conto londinese del governo nigeriano è una gigantesca tangente poi transitata sul conto della società Malabu, riferibile all’ex ministro del petrolio Dan Etete (che si era autoassegnato la concessione), e infine distribuita a pubblici ufficiali nigeriani, tra cui l’allora presidente della Repubblica Goodluck Jonathan, il ministro della Giustizia Muhamed Adoke Bello e il ministro per le risorse petrolifere Diezani Alison-Madueke.

Imputati di corruzione internazionale sono, tra gli altri, l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, il suo predecessore Paolo Scaroni, il mediatore Luigi Bisignani. L’affare era quasi fatto – racconta la memoria – quando nel febbraio 2011 il mediatore “Bisignani, faccendiere pluricondannato per corruzione, balzava di nuovo agli onori delle cronache per un’inchiesta della Procura di Napoli su un gruppo organizzato che la stampa denominò P4”.

L’affare nigeriano fa capolino in alcune intercettazioni telefoniche. “In questo contesto va letta l’improvvisa prudenza che si impadronisce dei vertici Eni e arriva addirittura, in atti interni, a rinnegare la fattibilità dell’operazione”. In realtà, viene solo cambiato lo schema dell’affare, escluso Bisignani e “messo il preservativo”, come racconta The Economist in un articolo dal “titolo pittoresco” (“Safe sex in Nigeria”) “che descriveva il ruolo del governo come puro ‘dispositivo di protezione’ per evitare alle due società petrolifere rapporti diretti con un ex ministro del petrolio già condannato per riciclaggio”.

Ammette Descalzi: “Bisignani ai miei occhi rappresentava Scaroni. Volevo in qualche modo compiacerlo”. Questa “affermazione, di desolante crudezza, certifica (auto-certifica) la sudditanza dell’allora n.2 di Eni (ora n.1) a un pluripregiudicato per corruzione che, per sua ammissione, sperava di ottenere un guadagno dall’affare Opl 245”.

Nel nuovo schema (“Safe Sex”), il versamento viene fatto su un conto del governo nigeriano. Ma gli accordi corruttivi, già stretti, saranno rispettati. Il mediatore nigeriano di quegli accordi è Emeka Obi. “È evidente che è stata proprio l’iniziativa descritta da Descalzi a consentire a Obi di essere coinvolto nei negoziati”. Descalzi ha con lui 188 contatti, lo incontra alla cena con Etete all’Hotel Principe di Savoia di Milano, discute con lui le questioni poi trattate nell’incontro notturno con Etete nel 2010 all’Hotel Four Season di Milano.

Descalzi sa che il presidente Goodluck Jonathan non stava “tutelando gli interessi della parte pubblica, ma quelli privati di Dan Etete”. S’impegna a “tenere Obi dentro l’affare”. E proprio “uno dei colloqui avuti con Obi rivela con certezza la conoscenza di Descalzi della destinazione dei soldi a pubblici ufficiali nigeriani”: in un incontro tra Obi e Descalzi all’Eni di San Donato il 4 novembre 2010, Descalzi domanda: “Quanto prenderà il principale azionista di Malabu (50%)?”. Spiegano i pm: “Può essere interpretata soltanto in un modo, come una domanda sulla percentuale di corrispettivo che resterà in tasca a Etete. Logico corollario è che altri, diversi da Etete, prenderanno il resto”.

Descalzi ha poi “discusso con Brinded” (il manager di Shell) “l’aspettativa dei politici nigeriani, e segnatamente del presidente”. Dunque, “in considerazione delle estese ammissioni dell’imputato, si ritiene provato al di là di ogni dubbio che Descalzi fosse informato del carattere illecito dell’operazione e di versamenti agli sponsor politici nigeriani contigui a Dan Etete”.


La replica di Eni

Gentili Signori, in merito all’articolo pubblicato oggi a firma di Gianni Barbacetto dal titolo “Eni, la tangente in Nigeria. I pm: ecco perché colpevoli”, teniamo a ribadire come nel corso dell’istruttoria non sia emerso alcun elemento probatorio a supporto dell’accusa di corruzione internazionale e delle teorie suggestive avanzate dai pubblici ministeri. Come sostenuto in aula sino ad ora dalle difese in modo unanime (e in attesa dell’arringa difensiva di Eni prevista il 20 gennaio) e come del resto si evince dal resoconto che Barbacetto svolge oggi nel suo articolo, l’intera impalcatura accusatoria è basata esclusivamente su deduzioni e suggestioni (che tali restano) e non presenta alcun elemento in grado di dimostrare concretamente l’esistenza di un accordo corruttivo. E la ragione è che, semplicemente, l’accordo corruttivo non c’è mai stato. Così come è il caso di notare e ricordare su alcuni punti specifici riesumati nell’articolo che Emeka Obi non è mai stato un mediatore di Eni ma di Malabu, che già nel 2013 un tribunale inglese ha accertato che lavorasse per Malabu (che infatti ha dovuto remunerato non certo Eni), che nessuna relazione economica è mai intercorsa tra Eni e altri “presunti” mediatori. Nutriamo un grande fiducia nel lavoro del Tribunale e confidiamo che potrà accertare quanto prima, e finalmente, la verità dei fatti, vale a dire che si è trattato di un’operazione complessa, svolta su un asset gravato da diverse pendenze storiche che occorreva risolvere, condotta e conclusa direttamente nella sua fase contrattuale con un governo sovrano e concepita per valorizzare al meglio il potenziale del blocco, a vantaggio del paese e del suo sviluppo economico e realizzata nel pieno e puntuale rispetto delle procedure di Eni e delle migliori prassi internazionali. Come emerso dal dibattimento e ricordato dalle difese, non una goccia di petrolio è stata mai estratta nella realtà ed il soggetto danneggiato risulta essere Eni. Vi chiediamo cortesemente di pubblicare questa nostra precisazione.

Erika Mandraffino, Director External Communication, Eni spa

Il Fatto quotidiano, 14 gennaio 2021
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