CORONAVIRUS

Un medico di famiglia: “Ci hanno lasciato senza strumenti contro il virus”

Un medico di famiglia: “Ci hanno lasciato senza strumenti contro il virus”

“Sono uno dei 2 mila medici di famiglia di Milano. Burocrate, mi chiamano. Fabbricante di ricette. Ma lavoro otto ore al giorno, tra visite ai miei 1.700 pazienti e preparazione delle ricette. Anzi: lavoravo, perché ora sto molte ore al telefono, ad ascoltare e supportare chi sta male, magari ha i sintomi del coronavirus. Ma io non ho gli strumenti per curarli”.

Giovanni Peracchi ha il suo studio nella zona di viale Monza, a Milano. Tra i suoi pazienti, anche molti stranieri. “Oggi ho 25 assistiti che hanno i sintomi del virus. Ogni giorno se ne aggiungono due o tre. Se moltiplichiamo questo numero per 2 mila, quanti sono i medici di famiglia a Milano, abbiamo 50 mila sospetti contagiati, più i loro famigliari. Ma nessuno li vuole contare. Del resto è impossibile: noi medici non abbiamo i tamponi per dire se davvero sono contagiati. Hanno i sintomi dell’influenza. Se continuano ad avere febbre oltre i sette giorni, io li ritengo sospetti covid-19 e li metto in isolamento a casa, con tutti i loro famigliari.

“Ma non ho i tamponi per saperlo con certezza. La Ats, l’azienda sanitaria territoriale, non ci ha dato alcuna indicazione di come comportarci. All’inizio dell’emergenza, ci è arrivata una email in cui ci è stato detto di non chiederli proprio, i tamponi, perché sono, testuale: ‘Riservati ai pazienti sintomatici in fase di ricovero ospedaliero’: così c’era scritto. Ho sentito l’assessore Giulio Gallera dire in tv che chi ha sintomi e vuole un tampone può andare in pronto soccorso. Non è vero.

“I tamponi non ci sono e io ho fatto fatica perfino a ricoverare in ospedale un paziente con polmonite: mi dicevano di aspettare, di contargli i respiri al minuto. In Germania si sono attrezzati e i pazienti possono fare il tampone drive-in, senza neppure scendere dall’auto. Io invece non posso dare alcuna sicurezza ai miei pazienti: li tengo in isolamento, anche se non ho alcuna certezza che i loro sintomi siano da covid-19 e non da normale influenza. Famiglie che si chiudono in casa angosciate, che non possono uscire e devono trovare qualcuno che faccia loro la spesa e la lasci davanti alla porta”.

Impossibiltà a individuare l’inizio del contagio, ma anche la fine. “Per quanto tempo li tengo in isolamento, i miei 25 sospetti? Dopo 15 giorni senza sintomi? Siamo sicuri? Nessuno mi da indicazioni. Ci vorrebbe un tampone per decretare la guarigione, ma non c’è. Eppure la Lombardia è ricca, più ricca del Veneto, ci sono state molte donazioni private. Ma i soldi per i tamponi non ci sono. E io, come tutti i miei colleghi, non riesco a stabilire né l’ingresso, né la fine del contagio.

“Ho visto in tv la vicesindaca di Brescia piangere, chiedendo più tamponi. E Gallera che le rispondeva che basta andare al pronto soccorso. Non è vero. Attenzione: io non chiedo il tampone per tutti, so che non si può fare, che ci vogliono ore per analizzare ciascun tampone. Lo chiedo per i pazienti malati, per sapere se sono malati di covid e poi se sono guariti. Non lo chiedo per me, che sono stato lasciato senza alcuna protezione, né per i miei colleghi che corrono il rischio di infettarsi, di diffondere il virus, in alcuni casi di morire. Non abbiamo alcuno strumento per difenderci, ma io li chiedo per i miei pazienti malati”.

Italiani e stranieri. “I cinesi sono scomparsi, si sono chiusi in casa dall’inizio dell’epidemia. Ma io ho pazienti filippini, sudamericani, nordafricani. Anche loro si ammalano, ma spesso non lo dicono, perché hanno paura di perdere il permesso di soggiorno o il lavoro. Niente. Andiamo avanti senza lamentarci. Ora Fontana ha detto che aumenterà i tamponi. Vedremo. Ma è mai possibile che la Regione più ricca d’Italia finora ci abbia lasciato così?”.

Il Fatto quotidiano, 28 marzo 2020
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