POLITICA

Maroni, condanna a metà. Ma intanto ha perso la poltrona

Maroni, condanna a metà. Ma intanto ha perso la poltrona

Condannato a metà. Roberto Maroni, ex presidente della Regione Lombardia, è stato ritenuto colpevole del reato di “turbata libertà del procedimento di scelta del contraente”, ma assolto da quello, più grave, di “induzione indebita a promettere utilità”. Così il Tribunale gli ha inflitto, in primo grado, la pena (sospesa) di 1 anno di reclusione e 450 euro di multa.

Il processo girava attorno a due vicende. La prima: l’ex ministro dell’Interno era accusato dal pm Eugenio Fusco di aver fatto pressioni affinché una sua collaboratrice al Viminale, Mara Carluccio, ottenesse un incarico in una società controllata dalla Regione, Eupolis, con un compenso annuo di 29.500 euro. Per questa accusa, la condanna è arrivata per Maroni e per i suoi coimputati: la “favorita” Carluccio (6 mesi), il capo della sua segreteria Giacomo Ciriello e l’allora segretario generale della Regione e ora presidente di Fnm Andrea Gibelli (entrambi 10 mesi e 20 giorni). Il direttore generale di Eupolis Alberto Brugnoli aveva già patteggiato 8 mesi.

Il Tribunale ha ordinato anche di trasmettere in Procura le deposizioni al processo di quattro testimoni – la portavoce di Maroni, Isabella Votino, la sua amica avvocato Cristina Rossello, oggi parlamentare di Forza Italia, Brugnoli e Paturzo – per valutare l’ipotesi che abbiano reso falsa testimonianza.

La seconda vicenda ipotizzava che Maroni, da presidente della Regione, avesse fatto pressioni per portare con sé a Tokyo, in un viaggio del maggio 2014 a spese di Expo (6 mila euro per aereo e hotel), un’altra sua collaboratrice al Viminale, Maria Grazia Paturzo, con cui il presidente della Regione aveva in corso una “relazione affettiva”. Per questo Fusco aveva ipotizzato il reato di “induzione indebita”, una delle fattispecie della vecchia concussione. La missione fu poi annullata da Maroni all’ultimo momento, per le proteste di Isabella Votino contro la presenza della “concorrente” Paturzo.

Se per questo reato fosse arrivata una condanna superiore ai 2 anni, sarebbe scattata la legge Severino, che impone la decadenza di un amministratore pubblico condannato anche solo in primo grado. È per questo motivo che Maroni il 4 marzo non si è ricandidato alla presidenza della Regione, malgrado tutti i sondaggi prevedessero una sua vittoria sicura? È una spiegazione che qualcuno ha dato per il suo inaspettato ritiro dalle scene, affiancata da un’altra ipotesi: non candidarsi significava evitare un rischio a Milano (la decadenza da presidente a causa della Severino), per puntare su una vittoria a Roma (un importante ruolo di governo nel caso di vittoria del centrodestra).

Poi le cose il 4 marzo sono andate diversamente dalle previsioni, la Lega di Matteo Salvini ha superato il partito di Silvio Berlusconi, con cui Maroni è in sintonia più di quanto non lo sia con il suo successore alla guida del Carroccio. Conseguenza: Maroni è entrato in un cono d’ombra. Ora si dice deluso per l’assoluzione a metà: “Vengo assolto e condannato allo stesso tempo, un colpo al cerchio e uno alla botte. Sono deluso, ma non mi scoraggio. Ribadisco la mia totale estraneità a qualsiasi comportamento illecito e proprio per questo sono certo che in appello verrò completamente assolto”.

Ma forse intanto si mangia le mani: se fosse rimasto a fare il presidente della Regione, avrebbe evitato l’uscita dalla scena politica e oggi potrebbe festeggiare lo scampato pericolo.

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Il Fatto quotidiano, 19 giugno 2018 (versione ampliata)
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