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Sarajevo addio. “25 anni dopo, le tre tribù continuano a produrre odio”

Sarajevo addio. “25 anni dopo, le tre tribù continuano a produrre odio”

Di troppa memoria si può anche morire. Amina ha 29 anni, occhi chiarissimi sottolineati dal trucco, maglietta bianca scollata, jeans attillati, una pagina Facebook con foto da modella. Racconta i massacri di 25 anni fa a Sarajevo come fossero di oggi. La granata al mercato, il sangue, i cecchini, i bambini dilaniati, il tunnel sotto l’aeroporto, i 1.425 giorni d’assedio, i 12 mila morti di Sarajevo, gli 8 mila di Srebrenica sterminati in un giorno solo, i suoi ricordi di bambina, la fame, le lacrime di sua madre, gli amici uccisi. E infine, la pace in cui non si spara più, ma si ricorda, ogni giorno, la macelleria dei serbi e le sofferenze dei bosniaci musulmani.

Amina al City Pub di Sarajevo

“Avevo un nome cristiano, ma ho scelto di chiamarmi Amina, un nome musulmano”. Racconta: “Io non mi copro il capo, bevo alcol, non vado in moschea. Bisogna tenere coperto il cuore, poi coprire la testa è una scelta che si può fare oppure no. Io penso che da giovani si può fare tutto”, dice seria. S’interrompe un attimo e sorride: “Quasi tutto”. In attesa di andare all’estero, forse in Italia, la memoria è diventata il suo lavoro: guida i turisti stranieri al tour dell’assedio, mostra i nascondigli dei cecchini serbi, porta ai cimiteri con infinite tombe allineate, spiega che cos’è la “rosa di Sarajevo”, le tracce lasciate dalle granate serbe segnate con la vernice rossa per ricordare il sangue schizzato. A ogni pioggia, quel rosso ravviva il colore.

La “rosa di Sarajevo” e un cartello che ricorda i terreni minati

L’assedio è iniziato il 5 aprile 1992 ed è terminato il 29 febbraio 1996. La guerra in Bosnia è stata tremenda, con vicini di casa che di colpo hanno cominciato a comportarsi da nemici mortali, stupri, pulizia etnica. Sarajevo era una città unica, piena di cultura, di musica e di arte, dove serbi, croati e bosniaci vivevano insieme pensando poco e niente all’etnia da cui provenivano e ancor meno alla religione. Poi il sangue ha cominciato a scorrere e i serbi si sono ricordati di essere ortodossi, i croati cattolici, i bosniaci musulmani. La pace di Dayton (novembre 1995) ha fatto tacere le armi dividendo: ogni etnia ben separata dalla altre.


Zlatko Dizdarevic

“I sarajevesi veri sono quelli che si rifiutano di essere inquadrati in una delle tre tribù”, dice Zlatko Dizdarevic, il giornalista che durante i 1.425 giorni dell’assedio ha diretto il quotidiano Oslobodenje senza fermarsi neppure per un giorno. Quando finì la carta, stampò il giornale su carta da pacchi. “Ma oggi Sarajevo non c’è più”, dice. Oggi non essere inquadrati in una delle tre “tribù” è impossibile. Amina si sceglie un nome musulmano, Andro (“sono nato cattolico”) vende bandiere e vecchi ricordi della Jugoslavia di Tito nella sua bottega nella zona croata della città, i serbi si sono trasferiti a Sarajevo Est, nella Repubblica Srpska.

Sono passati 25 anni dal massacro. In Italia nel 1970, 25 anni dopo la fine della nostra guerra, avevamo avuto la ricostruzione, il boom economico, il Sessantotto. La guerra era un ricordo lontano. Qui no. La memoria – giustamente – è invincibile. Ma divide, divide inesorabile. Tutti a rinfacciarsi i reciproci massacri. “I veri cittadini di Sarajevo vivono di nostalgia”, racconta Dizdarevic, “rimpiangono quando c’era la guerra: era terribile, ma allora non contavano la fede politica, la classe sociale, i soldi, il livello di cultura. Eravamo tutti uguali. Contava solo chi eri tu come uomo”.

Il cimitero della Moschea dell’Imperatore

Oggi invece tutto è diviso. È l’effetto di Dayton. Ogni poltrona della politica e dell’amministrazione è moltiplicata per tre: quella per il serbo, quella per il croato, quella per il musulmano. Tre presidenti si alternano. La Repubblica di Bosnia ed Erzegovina è composta da due “entità”, una Federazione croato-musulmana e una Repubblica Srpska che ha un suo territorio e una sua “capitale”, Banja Luka. “Viviamo in un’isteria amministrativa e politica”, commenta Dizdarevic. “Prima della guerra”, racconta, “avevamo il 40 per cento dei matrimoni misti. Ora chi si sposa con qualcuno di un’altra tribù è guardato con sospetto. La tv ha fatto un sondaggio per le strade ponendo a chi passava una sola domanda: che cosa sei? La stragrande maggioranza ha risposto: sono serbo, sono croato, sono musulmano. Pochi hanno risposto: sono un barbiere, sono una maestra, sono un carpentiere… L’abbiamo scritto nella Costituzione della Bosnia ed Erzegovina: ci sono tre popoli costitutivi, i serbi, i croati, i bosniaci. E poi ci sono ‘gli altri’, chi non è puro o chi come me non vuole dichiararsi di una tribù. I sarajevesi erano cosmopoliti, ora devono definirsi come appartenenti a una tribù”.

E questa è una condizione per sopravvivere: “Non puoi lavorare, non puoi vincere un concorso, non puoi avere un posto pubblico, se non ti dichiari di una tribù. E l’appartenenza è più importante delle tue capacità. E attenzione: il 62% dei posti di lavoro sono pagati con il budget dello Stato. L’economia è distrutta. Non c’è più produzione. La classe media è scomparsa. Il socialismo morbido di Tito è stato sostituito da un capitalismo selvaggio, le privatizzazioni hanno creato i nuovi ricchi, pochi amici dei capi-tribù, e hanno lasciato migliaia di lavoratori senza diritti, senza posto, senza pensione. Siamo nelle mani del Fondo monetario e della Banca mondiale”.

Li chiama, senza perifrasi, “i Bastardi”: “Sono quelli al governo, i capi delle tre tribù. Li conosco bene, li ha conosciuti tutti personalmente: dopo aver fatto il giornalista e diretto Oslobodenje, sono stato diplomatico, ambasciatore a Zagabria e in Medio Oriente. I Bastardi fanno finta di litigare ogni giorno tra loro, ma in realtà sono alleati per tenersi il potere. La divisione in tribù è l’unico modo con cui possono continuare a comandare ed evitare la galera, vista la corruzione che hanno prodotto. Mantengono il potere con la produzione di odio: trovano sempre nuove fosse comuni, fanno scoppiare nuovi scandali. Dopo 25 anni, ogni campagna elettorale è ancora basata sulla produzione di odio e di divisioni, invece che sulla costruzione di spazi comuni per tornare a vivere insieme”.

La lapide che ricorda l’incendio dell’antica biblioteca di Sarajevo

Dizdarevic guarda fuori dalla finestra, il fiume, i ponti, i minareti, i campanili. Quasi tutto è stato ricostruito. “Ma Sarajevo non è più la stessa. Centomila giovani con un’ottima educazione se ne sono andati all’estero. Un milione e 200 mila cittadini sono emigrati dopo la guerra. Più della metà degli abitanti se n’è andata, soprattutto i serbi e i croati, e sono arrivati dalle campagne e dalle piccole città nuovi cittadini, soprattutto musulmani. Il processo di pace ha funzionato fino al 2004, quando si è tentato di cambiare la Costituzione nata a Dayton e di unificare la Bosnia e riunire i cittadini. Il progetto non è passato per un solo voto: è più conveniente, per chi sta al potere, continuare a produrre odio e divisioni”.

Il 12 maggio 2017 il presidente della Repubblica Srpska, Miloard Dodik, l’ha detto apertamente: “Non abbiamo alcun interesse che la Bosnia funzioni, dato che il livello centrale del Paese ci provoca soltanto problemi”. E l’Europa? “Non ci serve a niente”, dice brusco Dizdarevic. “Non è interessata a quello che succede qui. Non si spara più, e questo le basta, non ci ammazziamo più a vicenda, dunque va tutto bene. Interessiamo di più alla Turchia di Erdogan, che regala gli autobus gialli che percorrono Sarajevo e spera di riprendere qui l’influenza che aveva ai tempi dell’impero Ottomano. Interessiamo ai Paesi arabi, che vengono a fare business e a costruire moschee. Interessiamo alla Russia di Putin, che invece sostiene i serbi”.

Un cartello all’ingresso della Moschea dell’Imperatore ricorda i divieti per chi entra: niente bici, no abiti succinti, vietate la armi, niente baci…

Amina chiede: “Mi trovate un marito in Italia? Voglio andarmene da qui”. Nel frattempo torna ai suoi tour della memoria. Qualche tentativo c’è, di ricostruire la Sarajevo in cui non ci si ricordava nemmeno chi era serbo, chi croato, chi musulmano. Si è appena conclusa una mostra aperta da un convegno alla Casa della cultura della città che è riuscito a mettere insieme artisti e intellettuali di tutta la ex Jugoslavia, serbi, croati, bosniaci, sloveni, kossovari, montenegrini, macedoni. Hanno discusso tra loro come era normale nella Sarajevo di prima della guerra, hanno esposto opere di 900 pittori chiamati da Imago Mundi, il progetto artistico della Fondazione di Luciano Benetton (prossima tappa: Trieste). Ma poi, finito il convegno, chiusa la mostra, torna a prevalere il disincanto di Dizdarevic: “C’è chi si mobilita per superare le divisioni, per dimenticare le tribù. Ma Sarajevo sta andando da un’altra parte”.
 
Alcune delle opere di Imago Mundi esposte a Sarajevo e la copertina del catalogo Imago Mundi dedicato agli artisti bosniaci

Il Fatto quotidiano, 12 giugno 2017
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