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La condanna di De Benedetti, restato senza il Grande Nemico Silvio

La condanna di De Benedetti, restato senza il Grande Nemico Silvio

La condanna per amianto costringe a riscrivere la biografia di Carlo De Benedetti, ingegnere, imprenditore, finanziere, editore. Ora, in attesa delle motivazioni della sentenza e poi del processo d’appello, il film della sua vita acquista un altro ritmo, un altro colore.

La sua ascesa era iniziata a metà degli anni Settanta, quando era stato chiamato ai vertici della Fiat come amministratore delegato. Durò quattro mesi: poi Gianni Agnelli lo cacciò. “Divergenze strategiche”, si disse. Voleva scippare l’azienda agli Agnelli, si sussurrò. Molti anni dopo, De Benedetti spiegò che voleva tagliare drasticamente l’occupazione e per questo fu messo alla porta. I tagli furono comunque fatti quattro anni più tardi, ma “dopo aver perso una barcata di soldi”. Sia Gianni, sia Umberto non erano più di questo mondo, e non poterono replicare.

L’Ingegnere da Torino passò a Ivrea, dove Camillo e Adriano Olivetti avevano creato un’azienda diventata un modello industriale, sociale, culturale. Certo, l’indebitamento era alto e la storia imponeva il difficile passaggio dal mondo della macchina per scrivere a quello dei computer. L’appuntamento fu perso, malgrado gli splendidi inizi (il grande calcolatore Elea, il piccolo Programma 101, primo computer da tavolo al mondo). De Benedetti gestì il lungo declino, non senza adesione allo stile dell’epoca: le mazzette per vendere computer e telescriventi alla pubblica amministrazione. Nel 1993, presentò al pool Mani Pulite di Milano un memoriale in cui ammetteva di aver pagato tangenti per 10 miliardi di lire ai partiti per ottenere una commessa dalle Poste italiane. Roma gli fece lo sgambetto: un mandato d’arresto firmato da Augusta Iannini, giudice (e moglie di Bruno Vespa). Manette e liberazione, tutto in un giorno. Iannini, vent’anni dopo, in una lettera al Foglio ha detto di avere un solo pentimento: di averlo scarcerato troppo in fretta.

Dieci anni prima, si era imbarcato sul galeone pirata del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Nel 1981 aveva comprato il 2 per cento del già traballante Banco e ne era diventato vicepresidente. Dopo due mesi, era sbarcato di corsa dal veliero che stava per andare contro gli scogli del crac. Porta a casa una plusvalenza di 40 miliardi di lire: gli costa un processo per concorso in bancarotta fraudolenta con condanna in primo grado (8 anni e 6 mesi), confermata in appello, ma evaporata in Cassazione.

È nel 1987 che De Benedetti diventa editore. Compra una partecipazione nella Mondadori e dunque anche nel gruppo Espresso-Repubblica. Tre anni dopo, la Mondadori di Mario Formenton, sfiancata dal tentativo di entrare nel mercato televisivo, riceve le promesse d’aiuto di due cavalieri bianchi, Silvio Berlusconi e, appunto, Carlo De Benedetti. Entrambi vantano un accordo con la famiglia Formenton per comprarne le azioni. Scoppia la “guerra di Segrate”.

La contesa viene sciolta da un lodo arbitrale che dà ragione all’Ingegnere, ma il Cavaliere impugna il lodo Mondadori davanti alla corte d’appello di Roma che, nel gennaio 1991, con sentenza firmata dal giudice Vittorio Metta annulla il lodo e spiana la strada a Berlusconi il quale, con una trattativa propiziata da Giuseppe Ciarrapico, taglia con la spada il gruppo e conquista la Mondadori, lasciando all’Ingegnere il gruppo Espresso-Repubblica. Peccato che la Procura di Milano, indagando a partire dal 1996 sulle “toghe sporche” di Roma, scopra che la sentenza Metta era stata comprata con 400 milioni Fininvest, distribuiti dall’avvocato Cesare Previti. Segue risarcimento danni a De Benedetti: 540 milioni.

Ormai l’Ingegnere è l’editore di Repubblica e del gruppo l’Espresso. Ed è diventato il grande antagonista di Previti e Berlusconi. Così riesce a ottenere ottimi sconti dall’opinione pubblica antiberlusconiana, per i suoi tanti affari. Nel settore sanitario con il gruppo Kos. Nell’energia con Sorgenia che, piena di debiti, passa alle banche che lo avevano finanziato. Nel 1988 suona troppo presto la ricreazione in Belgio, quando credeva di aver già conquistato la Société Générale de Belgique. Deve consolarsi con operazioni minori, come il bliz finanziario della società M&C, in cui era stato annunciato l’ingresso del Grande Nemico (Berlusconi): nel 2005 gli frutta belle plusvalenze, ma anche un’accusa di insider trading per cui ha pagato una sanzione di 30 mila euro.

L’anno scorso trascina in tribunale Marco Tronchetti Provera, che l’aveva sintetizzato così: “È stato molto discusso per certi bilanci Olivetti, per lo scandalo legato alla vicenda di apparecchiature alle Poste Italiane, che fu allontanato dalla Fiat, coinvolto nella bancarotta del Banco Ambrosiano, che finì dentro per le vicende di Tangentopoli”. Per questo fulminante “bigino” della De Benedetti story, chiede un risarcimento di 500 mila euro, ma il tribunale glielo nega. Ora arriva il colpo più duro: 5 anni e 2 mesi per l’amianto che uccideva in Olivetti. E non è più sull’onda quel Berlusconi che l’aveva fatto diventare il cavaliere buono che aveva osato sfidare il Cavaliere cattivo.

Il Fatto quotidiano, 19 luglio 2016
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