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Milano, la città ai tempi dello storytelling

Milano, la città ai tempi dello storytelling

La sfilata di moda sul palcoscenico della Scala, Milano non l’aveva ancora vista. Ci hanno pensato Dolce&Gabbana e il sovrintendente Alexander Pereira. Pereira non sapeva come far quadrare i conti del teatro, i due stilisti hanno messo sul piatto 600 mila euro per cinque anni ed ecco le modelle sfilare nel tempio. I puristi si sono indignati, hanno gridato al sacrilegio. Ma il vero scandalo non è la sfilata, che si poteva pure fare, ma l’esibizione della sfilata, come fosse una vera conquista: “Questo è il maximum spettacolo che la Scala può produrre”, ha esclamato entusiasta Pereira. Il maestro Riccardo Chailly si sarà messo le mani nei capelli, poverino. Perfino Domenico Dolce e Stefano Gabbana si sono stupiti: “Ci sembrava impossibile, ma l’abbiamo chiesto a Pereira. Eravamo certi che la risposta sarebbe stata negativa, però lui ci ha spiazzato: ‘Certo, perché no?’”.

La ricchezza

Milano 2016 è così. Ricca e raffinata, esibizionista e cafona, sobria e smargiassa, colta e pop, internazionale e provinciale. Bellezza e degrado, moda e design, disoccupati e poveri in aumento, ricerca scientifica e analfabetismo di ritorno, lusso e periferie, rigore calvinista e ruberie, grattacieli e topaie, chef stellati e mense dei poveri. Con i suoi contrasti, è l’unica vera metropoli italiana. Una delle aree più ricche e produttive d’Europa. Qui ci sono 123 imprese con fatturato superiore al miliardo di euro. Sono solo 61 a Monaco di Baviera, soltanto 25 a Barcellona. Qui hanno la loro sede 3.100 multinazionali straniere, un terzo di tutte quelle presenti in Italia. Se con un compasso puntato in piazza Duomo tracciamo un cerchio del raggio di 60 chilometri, disegniamo un distretto che produce un quarto del valore aggiunto manifatturiero e di tutto l’export italiano.

È anche una capitale dell’innovazione, una città di vecchi, ma piena di giovani e di studenti (oltre 200 mila, di cui 13 mila stranieri). Il master in management dell’Università Bocconi nelle classifiche mondiali è tra i primi dieci. La facoltà di Engineering and Technology del Politecnico è al 24esimo posto, in linea con Princeton. Qui, negli ultimi sette anni, sono nate 12 mila start up “knowledge intensive”, nuove imprese ad alta intensità di sapere. Più delle 10 mila nate nel Baden-Württemberg, la regione tedesca di Stoccarda con cui Milano si confronta. Altre aree con cui fare gara sono la Baviera (Monaco) e la Catalogna (Barcellona). E qui cominciano i guai: la produzione tecnologica dell’area di Milano, misurata in brevetti per abitante, è solo un terzo di quella del Baden-Württemberg e della Baviera. Secondo i dati dell’Assolombarda di Gianfelice Rocca, in brevetti anche la Catalogna ha ormai superato Milano (+26 per cento). E l’export dell’area di Barcellona dal 2008 a oggi è cresciuto del 19,2 per cento, quello di Milano solo del 5,3.

La povertà

Resta l’area più ricca del Paese, ma la crisi ha picchiato duro anche qui. Dal 2008, il Pil è calato del 3,7 per cento, i consumi delle famiglie del 4, gli investimenti del 28,4. Alcuni sono diventati più ricchi, molti più poveri. Sono più che raddoppiati coloro che cercano lavoro: i disoccupati erano 149 mila nel 2007, sono 378 mila oggi. A Milano ci sono 18 mense per i poveri che nell’ultimo anno hanno distribuito 2 milioni di pasti gratuiti. La sola Caritas ambrosiana ha assistito 436.694 persone, con 15.277 pacchi viveri, 2.085 panini e 196 pasti. Nella città più ricca d’Italia aumentano coloro i quali non riescono neppure a mettere insieme il pranzo con la cena.

I grandi affari

La città nei prossimi anni sarà letteralmente trasformata da due grandi operazioni: il dopo Expo e gli scali ferroviari. Riguardano, insieme, quasi 3 milioni di metri quadrati, una città nella città. L’area Expo, 1,1 milioni di mq, è il vero buco nero dell’esposizione universale. Era terreno agricolo, valeva sì e no 25 milioni di euro. Ma è stata invece pagata dal Comune di Milano e dalla Regione Lombardia ben 200 milioni. Denaro pubblico che sarebbe dovuto rientrare mettendola all’asta: ma nessun operatore privato si è presentato alla gara, nel novembre 2014. Così ora si sta faticosamente mettendo insieme un progetto per farlo diventare un polo universitario, produttivo e scientifico. Il governo Renzi ha imposto che la regia dell’operazione sia dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), non senza polemiche con le altre istituzioni di ricerca milanesi. Ma la chiarezza sui soldi necessari per realizzare il progetto (almeno 500 milioni di euro) ancora non c’è, come non c’è la soluzione per restituire alle banche i soldi prestati a Comune e Regione per l’acquisto dei terreni. Sarà un problema del prossimo sindaco.

Come pure la sistemazione degli scali ferroviari, sette aree più pregiate e più centrali di quelle Expo, per un totale di 1,250 milioni di metri quadrati. Dopo una lunga trattativa con le Ferrovie dello Stato, proprietarie delle aree, il Comune di Milano – sindaco Giuliano Pisapia e assessore all’urbanistica Ada Lucia De Cesaris – aveva spuntato condizioni migliori di quelle accettate dalla precedente giunta Moratti: quasi dimezzato il costruito (674 mila metri quadrati); più verde e servizi (525 mila); una quota del costruito (156 mila) a edilizia sociale, con 2.600 alloggi da affittare a basso prezzo. Ma con le Ferrovie libere di trasformarsi, per il resto, in operatore immobiliare, con l’obiettivo di incassare dall’operazione almeno 500 milioni di euro. Bocciata a dicembre 2015 la delibera della giunta, tutto tornerà in discussione.

Con una domanda: la città ha davvero bisogno di altri 700 mila metri quadrati di costruito? Ha 100 mila abitazioni vuote e oltre 1 milione e mezzo di metri quadrati di terziario inutilizzati. City Light (costruita sull’area della ex Fiera) è in parte invenduta. Porta Nuova è stata salvata dagli arabi del Qatar. Servirebbe un grande piano di abitazioni a basso prezzo, questo sì: quello che Milano seppe fare negli anni Sessanta, quando il “riformismo” non era solo uno slogan e sorsero quartieri popolari come Quarto Oggiaro, il Gallaratese, Gratosoglio… Oggi lo chiamano “hausing sociale”: vedremo come lo declinerà la prossima giunta milanese. Intanto c’è il paradosso delle case popolari che già ci sono: a Milano sono 10 mila gli appartamenti vuoti a e 20 mila le persone senza casa. Proprio impossibile far incontrare i due insiemi?

Moda, design, food

La Grande Milano delle fabbriche, della Pirelli, della Falck, dell’Alfa Romeo, dell’Innocenti, non c’è più da tempo. Cambiato il tessuto produttivo, meno industria, più servizi. La moda, il design, e ora il food, sono i settori sotto i riflettori. Non senza retorica. La stessa retorica che gronda da Expo, che ha contribuito a fare più bella la città, soprattutto nella zona Darsena rimessa a nuovo, ma non molto più ricca. Il milione di cinesi promesso non è arrivato (erano solo 200 mila), i turisti arrivati nei sei mesi dell’esposizione sono stati poco più di 4 milioni, solo la metà è arrivata dall’estero. A sentire gli albergatori e i ristoratori di Milano, la crescita portata da Expo è stata contenuta. Portano molti più soldi, in proporzione, la settimana della moda e quella del design. A settembre 2015, la Vogue Fashion Night Out ha registrato 200 mila presenze a cui si sono aggiunti i visitatori delle varie kermesse del sistema moda, con un’affluenza del +12 per cento rispetto al 2014. Milano Moda Donna ha avuto 70 sfilate, 105 presentazioni, 26 eventi che hanno portato al nuovo Fashion Hub 8.200 presenze.

Lo storytelling su Milano, di solito abbinato a quello su Expo icona della ripartenza italiana, dimentica non solo l’inquinamento e le nuove povertà, ma anche che la città è diventata oggetto dello shopping straniero. La Pirelli è cinese, pezzi della moda sono stranieri, i grattacieli di Porta Nuova sono del Qatar, la Borsa di Milano è una depandance della City di Londra, perfino le squadre di calcio sono state comprate, l’Inter da un imprenditore indonesiano, il Milan ancora non si sa…

Lo sharing

A Milano i trasporti pubblici, sotto lo zar Bruno Rota, presidente di Atm, funzionano. E la città è diventata anche una capitale europea dello sharing, cioè dei mezzi condivisi. Qui si concentra il 40 per cento dell’offerta di servizio car sharing (auto) di tutta Italia, con cinque operatori (Car2go, Enjoy, Share’ngo, Guida-mi, E-vai), 2 mila auto e 340 mila iscritti. Share’ngo è un servizio di auto elettriche, con zero inquinamento e tariffa personalizzata. Il bike sharing (biciclette) ha in strada 3.650 bici tradizionali e mille a pedalata assistita, con 274 stazioni attive e 45 mila utenti. È partito anche lo scooter sharing, offerto da Eni con 150 tricicli. È uno dei primi servizi “free floating” d’Europa: ovvero è possibile parcheggiare lo scooter in qualsiasi posteggio moto disponibile in città, senza dover portarlo in aree apposite.

Gli immigrati

Gli immigrati sono una componente essenziale della città, in cui lavorano, ben integrate, schiere di custodi, badanti, donne di servizio, camerieri, baby sitter, fattorini. Malgrado esista una propaganda che fa leva sulla paura e sull’insicurezza, Milano ha saputo gestire senza conflitti (con la regia dell’assessore all’assistenza Pierfrancesco Majorino) anche l’emergenza che nell’estate 2015 ha portato in città migliaia di profughi in fuga dalla guerra e dalla povertà. In due anni, dall’ottobre 2013 a oggi, Milano ha offerto assistenza e ricovero a 85 mila persone, di cui oltre 17 mila donne e 16 mila bambini. In maggior parte siriani (62 per cento) ed eritrei (28 per cento), si fermano qui in media 4 o 5 giorni e poi ripartono verso la Germania, la Svezia. Finita l’emergenza e cessato il clamore mediatico, i profughi sono tornati invisibili: almeno fino alla prossima emergenza.

Il Fatto quotidiano, 7 febbraio 2016 (modifiche il 15 febbraio 2016)
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