Totò, Peppino e la Malapolitica

» Totò Cuffaro

L’incredibile storia del presidente della Regione Sicilia.
E della nuova «borghesia mafiosa» di Cosa nostra a Palermo


Totò Cuffaro e Bernardo Provenzano

C’è, nel Paese chiamato Italia, un’incredibile vicenda di politica e di mafia che molti conoscono, ma di cui nessuno parla. Una storia i cui singoli elementi sono noti, ma il risultato finale è invisibile. Una vicenda inesistente. La tv non ne parla. I giornali raccontano, in breve, di tanto in tanto, qualche passaggio, ma la trama complessiva resta sconosciuta.
E allora bisogna raccontarla, questa storia. Accade in Sicilia, nei palazzi del potere, della politica, dell’imprenditoria. E ha per protagonisti il politico più amato e votato dell’isola, Totò Cuffaro da Raffadali, e l’imprenditore più ricco e influente di Sicilia, Michele Aiello da Bagheria. Comprimari, in questa storia dove un ruolo centrale è giocato da Cosa nostra, non sono picciotti, pecorari, killer, ma stimati medici, irreprensibili professionisti: borghesia mafiosa, mai come oggi visibile nella trama sociale e criminale della Sicilia.
Questa, è chiaro, è una storia siciliana. Ma pone, come vedremo, un grosso problema anche alla politica nazionale: perché Totò Cuffaro, presidente della Regione e numero uno dell’Udc nell’isola, è l’azionista di maggioranza del partito di Casini, Follini e Buttiglione, che senza i voti raccolti in Sicilia da Cuffaro non potrebbero, a Roma, stare seduti dove sono. D’altra parte, qui è in corso una competizione durissima, come vedremo, tra Udc e Forza Italia, in lotta tra loro per conquistare il centro – in tutti i sensi – della scena politica.
Ma procediamo con ordine: questa storia, come tutte le storie siciliane, è complicata, dunque per non perdersi è necessario innanzitutto conoscerne personaggi e interpreti. Cuffaro e Aiello, protagonisti assoluti, li abbiamo già introdotti sulla scena. Il primo è un medico radiologo diventato politico straripante e infine presidente della Regione, dopo aver dimostrato sul campo di essere una macchina acchiappavoti, abilissimo a costruire consenso, tanto da aver saputo creare dal nulla, appunto, l’Udc, che qui è forte come in nessun’altra parte d’Italia (ha un quarto delle tessere e otto deputati su quaranta nazionali).
Al Nord è arrivata solo la leggenda di Totò Vasa-Vasa (Bacia-Bacia), per via dell’incredibile numero di mani che riesce a stringere e di baci che riesce a regalare nei suoi viaggi in giro per la Sicilia. Meno noto è un altro dei suoi soprannomi, “cioccolatino” (così veniva chiamato in vecchie intercettazioni telefoniche). E ancor meno conosciuta è la leggendaria dote delle sue agende, in cui sono memorizzati migliaia di nomi, e la sua mostruosa capacità di conoscere persone, incontrare gente, ricordare volti e nomi: per tutti ha la parola giusta, per ciascuno il saluto personalizzato, il ricordo preciso, la promessa da mantenere. Migliaia di richieste, grandi o minute, gli arrivano, personalmente o attraverso la sua segreteria. A tutte risponde, esaudendo le preghiere e dispensando miracoli.

Puffaro il kamikaze. L’ultimo miracolo l’ha fatto al Vinitaly di Verona, poche settimane fa: ha presentato due vini, “Euno” e “Pluzia”. Il primo è un nero d’Avola, il secondo un blend di grillo e chardonnay. Per la cronaca, Euno è un siciliano che nel secondo secolo avanti Cristo difese gli schiavi, per questo finì processato, ma fu infine dagli schiavi stessi proclamato re.
Il pubblico della tv lo vide per la prima volta nel 1993, durante una tesissima puntata di Samarcanda in cui Michele Santoro aveva voluto raccontare, in diretta da un teatro palermitano, le vicende di Calogero Mannino, boss democristiano accusato di essere sceso a patti con Cosa nostra. D’improvviso, irruppe sulla scena un ometto rotondo che, contro tutto e tutti, difese strillando il leader dc. Quell’ometto era Totò Cuffaro, allora sconosciuto collaboratore di Mannino. Dopo quell’azione kamikaze, l’ometto fu irriso e per lungo tempo chiamato Puffaro. Ma è stato sufficiente aspettare qualche anno e la ruota della storia lo ha riportato alla ribalta. E in posizione di primo piano, questa volta: era lui, ormai, il leader dell’eterna Dc targata Udc.
Sempre al governo: Totò Vasa-Vasa, diventato assessore regionale all’Agricoltura, era come la Terra nel sistema tolemaico, le maggioranze cambiavano, al centrodestra seguiva il centrosinistra e poi ancora il centrodestra, ma lui era sempre al suo posto, eterno assessore con ogni maggioranza. Fino al 2001, quando il voto popolare con un milione e mezzo di suffragi lo incorona “governatore” della Sicilia.
Cuffaro continua a controllare l’azienda di famiglia, una delle più grandi imprese siciliane di autolinee. Con ciò dà origine, in verità, a un piccolo conflitto d’interessi: con una mano elargisce, come presidente della Regione, finanziamenti ai trasportatori privati (una lobby potente che intasca denaro pubblico per 300 miliardi di lire l’anno); con l’altra incassa quei finanziamenti e li mette nella sua tasca d’imprenditore. Ma chi sta a guardare un conflitto d’interessi per qualche rete d’autobus, nell’Italia delle reti televisive?
Totò, comunque, è soprattutto medico. Questo gli è stato utilissimo anche in politica: quante persone, da medico, ha incontrato, assistito, consolato, indirizzato, aiutato… Per tutti una ricetta, un consiglio, una raccomandazione. Quanti amici si è fatto, Totò, grazie al camice bianco, quanti voti si è conquistato. Ma il settore della sanità si presta a interventi anche più remunerativi. Un vecchio amico di partito, Salvatore Lanzalaco, con lui nella segreteria politica dell’onorevole Mannino, ha raccontato che già dalla fine degli anni Ottanta il giovane Cuffaro era, per conto di Mannino, il grande manovratore dei concorsi ospedalieri, lo specialista nella distribuzione di incarichi a medici e primari e di posti di lavoro in ospedali e Asl. Era lui – sempre secondo Lanzalaco – che determinava i membri delle commissioni di concorso, riuscendo così a “sistemare” da 2.000 a 2.500 tra medici e paramedici.
Lui nega, smussa, minimizza. Ammette, è vero, di aver ricevuto almeno 200 medici, nel 2001, accorsi a farsi segnalare per un concorso con in palio sei posti di assistente medico. Ma giura di avere sempre ascoltato tutti, senza aver mai fatto niente per nessuno (e come mai allora in tanti continuavano ad andare da lui?).

Aiello ne ha fatte di strade. Ha a che fare con la sanità anche il secondo protagonista di questa storia, Michele Aiello. Re delle cliniche siciliane, scrivono i giornali, proprietario di strutture mediche d’eccellenza, nel 2000 risulta essere il maggior contribuente della Sicilia: vuol dire che, se non è effettivamente il più ricco, è almeno quello che nell’isola deve dichiarare il reddito più alto (2.899.446 euro quattro anni fa), visto che le sue entrate in gran parte provengono dai finanziamenti pubblici, della Regione, per la sanità.
Aiello ha però una lunga storia alle spalle. Ingegnere, è titolare di un gran numero di società che si occupano di movimento terra, edilizia, servizi, forniture di materiali per ufficio, oltre che di sanità, oggi il suo core business. Ma ha cominciato, a metà degli anni Ottanta, costruendo strade interpoderali. In questo campo la sua Straedil srl diventa rapidamente quasi monopolistica. Dieci anni dopo si butta nel business della salute. Nel 1996 rileva la Diagnostica per immagini srl, che poi diventa la Villa Santa Teresa di Bagheria. L’espansione è rapida: dalla diagnosi clinica alla terapia, dalla degenza alla riabilitazione.
Per un giorno è socio anche di Cuffaro, o meglio di sua moglie, Giacoma Chiarelli, che aveva una quota del Laboratorio Diagnostica Ormonale. Il 29 luglio 1997, infatti, Aiello entra nella società e sottoscrive l’aumento di capitale. I vecchi soci, tra cui Giacoma Vasa-Vasa, non seguono l’esempio e se ne vanno. Il Laboratorio diventa così di Aiello.
I guai per l’impresario di strade diventato re della sanità arrivano nel 2003. Di un certo Aiello in rapporti con Cosa nostra si era già sentito parlare a metà degli anni Novanta. Su un “pizzino”, un biglietto proveniente da Provenzano e caduto nelle mani degli sbirri nel 1994, era scritto: “Ditta Aiello: deve fare lavoro strada interpoderale a Bubudello. Lago di Pergusa Enna. Ditta Aiello deve fare lavoro strada interpoderale al Bivio Catena Piazza Armerina”. Ma è Nino Giuffré, l’ultimo dei “pentiti”, a far chiudere il cerchio: l’Aiello vicino a Bernardo Provenzano, con il suo assenso costruttore di strade prima e re della sanità poi, è proprio l’ingegnere di Bagheria. Arrestato il 5 novembre 2003, con l’accusa di essere un imprenditore a disposizione di Cosa nostra.

Il tariffario segreto. Destino comune, quello di Aiello e quello di Cuffaro: sono due uomini di successo del settore sanitario. Potevano non incontrarsi? Si conoscono, si parlano, si consultano, si vedono. Ma dalla primavera 2003, quando decollano le indagini su di loro, smettono di comunicare. Evidentemente sanno dell’inchiesta. Hanno un incontro diretto, ma con accorgimenti tali che sembra uscito da un film di spie. Avviene alle 18 del 31 ottobre 2003, cinque giorni prima dell’arresto di Aiello. Niente contatti diretti tra i due. Nessuna telefonata. Intermediari per fissare l’appuntamento. Luogo scelto: una boutique di Bagheria, Bertini Uomo. Cuffaro, per non avere testimoni, addirittura semina la scorta. E infine, eccolo di fronte ad Aiello. Di che cosa parlano? L’ingegnere, dopo l’arresto, lo confessa: “Quel giorno parlammo del tariffario regionale della sanità che a me interessava per i rimborsi delle prestazioni delle mie strutture, ma discutemmo anche delle indagini in corso”.
Sì, perché entrambi sanno che i carabinieri sono sulle loro tracce: hanno notizie di prima mano e una squadretta di spioni che li tiene ben informati. Cuffaro, nel suo interrogatorio del 9 febbraio 2004, non può non ammettere l’incontro, ma cerca di limitare i danni: “Non abbiamo parlato di indagini, ma solo del tariffario”. Quella del tariffario della sanità è una bella grana, in Sicilia. Mettete due cordate imprenditoriali in competizione tra loro: Aiello da una parte, Guido Filosto dall’altra. Mettete, alle loro spalle, due diversi sostegni politici: l’Udc di Cuffaro dietro Aiello, Forza Italia e l’assessore Ettore Cittadini dietro Filosto. Mettete che, comunque, è la Regione che paga sempre. Otterrete uno scontro epico, in cui diventa determinante il tariffario dei rimborsi regionali: se si pagano meglio gli interventi sofisticati, incassano di più le strutture d’eccellenza di Aiello; se si privilegiano le prestazioni medie, cresce il guadagno di Filosto. In casa di Aiello è stata sequestrata una bozza del tariffario regionale, ancora segreto, con sottolineate in blu le parti più “delicate”. Ma mentre lo scontro era ancora in corso, sono arrivati i carabinieri.
Ora la contesa continua sul piano politico: Forza Italia ha fatto il pieno di voti in Sicilia, ma l’Udc di Cuffaro continua a erodere consensi, e proprio nel bacino da cui attinge anche Forza Italia. La vocazione dell’Udc, in fondo, è quella di rendere inutile il partito di Berlusconi, di sostituirsi a Forza Italia, di conquistarne gli interlocutori (di ogni tipo), di riconquistare infine il ruolo che fu della Dc. Come finirà? A chi gioveranno le indagini in corso? Lo sapremo il 13 giugno.

La squadretta di spioni. Per difendersi da eventuali indagini, Aiello aveva a disposizione una squadretta di spioni che lo informavano in tempo reale sulle inchieste, sulle intercettazioni, sulle microspie. Ne facevano parte il maresciallo dei carabinieri Giorgio Riolo, il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, l’ex carabiniere passato alla politica (nell’Udc, naturalmente) Antonio Borzacchelli. Aiello per mesi non parla mai ai telefoni della sua clinica di Bagheria (sa che sono intercettati). A chi lo chiama fa dire che non c’è. Poi, appena viene sospeso il servizio d’intercettazione, si attacca al telefono e parla, parla, parla. Che qualcosa non quadri appare chiaro anche al tenente colonnello dei carabinieri che sta conducendo le indagini, Giammarco Sottili, che poi, con vezzo classico, titolerà il suo rapporto “Timeo Danaos”: “Temo i Greci, anche quando portano doni”, scriveva Virgilio. Il dono in questione era un grande cavallo di legno; e cavalli di Troia erano le talpe che scavavano tra investigatori e magistrati del palazzo di giustizia di Palermo per poi riferire ad Aiello. Avevano organizzato una rete telefonica parallela e segreta, per evitare le intercettazioni. Ma Sottili la scopre e scopre così il gioco delle talpe. Ciuro e Riolo vengono arrestati insieme ad Aiello.
Le notizie più delicate, però, arrivano al re delle cliniche da una fonte diversa, più informata: una supertalpa. Chi è? Secondo i magistrati è Totò Cuffaro in persona. È lui ad avvertire Aiello e i suoi coimputati degli snodi più delicati, dei passaggi più critici dell’indagine: “Cuffaro mi disse”, “L’ho saputo da Totò”, ripetono i protagonisti di questa storia. E le fonti del “governatore” non sono le talpine palermitane, ma semmai una qualche talpona romana. Finora senza volto.

Borghesia mafiosa. I guai di Cuffaro precedono quelli di Aiello. Cominciano nel 2001, quando due magistrati di Palermo determinati e intelligenti, Nino Di Matteo e Gaetano Paci, mettono sotto indagine un gruppo di professionisti palermitani. La loro attenzione è catturata dapprima da un medico quarantenne: Mimmo Miceli, ex assessore alla Sanità a Palermo, uomo di fiducia di Cuffaro, da questi posto al vertice della Multiservizi, la società che svolge le manutenzioni per il Comune di Palermo ed è uno dei serbatoi di consenso dell’Udc.
Miceli, secondo i magistrati, era in stretti rapporti con Giuseppe Guttadauro detto Peppino, ex primario dell’ospedale civico di Palermo. Oggi Guttadauro, come medico, è in pensione, ma resta in attività – sempre secondo i magistrati – come mafioso: boss di Brancaccio, già condannato in passato per la sua affiliazione a Cosa nostra, è lo sponsor di Miceli alle elezioni regionali del 2001. Miceli non riesce a essere eletto, ma diventa il braccio operativo di Guttadauro dentro l’amministrazione comunale e la politica. “Berlusconi, se vuole risolvere i suoi problemi, ci deve risolvere pure quelli nostri”, dice Guttadauro, intercettato dai carabinieri.
Nel mirino di Di Matteo e Paci entra anche un mafioso di Altofonte residente a Milano e a Milano in contatto con Marcello Dell’Utri: Salvatore Aragona, anch’egli medico, grande amico di Guttadauro, già condannato a nove anni per favoreggiamento di Giovanni Brusca, l’uomo che azionò il telecomando contro Giovanni Falcone.
Borghesia mafiosa, gente colta, rispettati professionisti. Ben inseriti in quell’area grigia che collega Cosa nostra con la società, gli affari, la politica. Guttadauro, Aragona e Miceli vengono arrestati il 26 giugno 2003. Hanno tutti una cosa in comune: stretti rapporti con Totò Cuffaro. E Miceli, il pupillo di Guttadauro, che lo aveva sostenuto in campagna elettorale, era il tramite tra i mafiosi e Vasa-Vasa. Scatta così il primo avviso di garanzia inviato al presidente della Regione: per concorso esterno in associazione mafiosa. Totò era stato eletto “governatore” da meno di tre settimane e già andava a incontrare all’hotel Excelsior di Palermo, il 30 luglio 2001, Miceli e il cognato di Peppino Guttadauro, Vincenzo Greco, anch’egli medico, già condannato nel 1996 per avere curato il killer di padre Pino Puglisi. Peccato che le telecamere dei carabinieri abbiano ripreso tutto. Le microspie, poi, registrano Peppino che spiega alla moglie Gisella: “Ogni volta che ci andiamo ci devono mettere il tappeto, devono stare affacciati al finestrone e dire: stanno venendo. Perché quando tu fai a uno una campagna elettorale, e gliela fai per davvero, non è che poi si babbulia”. Non si scherza con il boss che ti ha fatto eleggere.
Dopo aver individuato i rapporti tra Totò, Mimmo e Peppino, i magistrati si dedicano alle indagini su Aiello, sul suo collaboratore Aldo Carcione, sulle talpine e sulle talpone. Altri uomini dell’Udc finiscono sotto inchiesta: accanto a Miceli e Borzacchelli, capita al deputato nazionale Francesco Saverio Romano, uomo di collegamento tra Cuffaro e Roma; all’ex consigliere provinciale Antonino Cosimo D’Amico, candidato di Provenzano alle regionali del 2001 (“I picciotti di Bagheria hanno u piaciri di portare questo signore”, aveva detto Binnu a Giuffré, consegnandogli i “santini” elettorali da diffondere); a Bartolo Pellegrino, assessore di Cuffaro, che a pranzo con un boss malediva – intercettato – gli “sbirri e infami”; e a Nenè Lo Giudice, detto Mangialasagne, assessore regionale che aveva fatto la campagna elettorale con la musica del Padrino e diceva: “Io sono amico di quelli giusti, i mafiosi con le palle”.

Problema Udc. Ma gli occhi sono puntati su di lui, su Totò. Nessuno oggi ricorda più la vecchia inchiesta per abusivismo edilizio e abuso d’ufficio aperta dalla procura di Agrigento su Cuffaro in quanto socio della H&C and Sons, proprietaria dell’albergo di Capo Rossello a Realmonte. Poca attenzione hanno avuto anche le rivelazioni di Gioacchino Genchi, superconsulente della procura di Palermo.
Più clamore hanno fatto le indagini in corso a Palermo, in cui Cuffaro deve rispondere dei reati di concorso esterno in associazione mafiosa e rivelazione di segreto d’ufficio. A queste ora si è aggiunta l’indagine di Messina sullo smaltimento rifiuti: è accusato, anche qui, di aver divulgato notizie riservate sugli appalti. Del resto, Cuffaro è anche commissario straordinario per l’emergenza rifiuti in Sicilia. Da uomo trasversale qual è, Totò a Messina non si è smentito: è indagato insieme a uomini della sinistra, gli “imprenditori rossi” Gulino e il boss Ds Mirello Crisafulli.
Ma pochi hanno ritenuto scandaloso che il presidente della Regione sia indagato per mafia. Pochissimi hanno rilevato che già le ammissioni fatte (“Con Aiello abbiamo parlato solo del tariffario”) siano gravissime. La vicepresidente della Commissione parlamentare antimafia, Angela Napoli di An, ha chiesto le dimissioni di Totò, ma è stata subito smentita anche dai leader del suo stesso partito.
Dell’affaire Cuffaro la politica non si cura. Non se ne cura il suo partito, solitamente così giudizioso a Roma. Non se ne curano i più alti esponenti dell’Udc, il presidente della Camera Pierferdinando Casini, il segretario Marco Follini, il ministro Rocco Buttiglione. Ormai la mafia non indigna, l’antimafia non appassiona. Un investigatore di Palermo dice, con un sorriso amaro: “La situazione è migliorata. Ieri si diceva: “La mafia non c’è”. Oggi si dice: “La mafia c’è stata”. Quanto a lui, Totò Cuffaro, dopo avere a suo tempo difeso dalle “mascariate” il suo amico e maestro Calogero Mannino, ora difende se stesso. Anche candidandosi alle elezioni europee: un seggio a Strasburgo vuol dire immunità.

di Gianni Barbacetto e Alessio Gervasi. Diario, 30 aprile 2004