Sulla cattiva strada

» Marcellino Gavio

Storia di Marcellino Gavio, signore delle autostrade.

Marcellino Gavio è oggi uno dei grandi signori degli appalti. Forse quello che con maggior abilità si destreggia tra il rosso e il nero, tra destra e sinistra. Ai rapporti con Ugo Martinat di An, o con Luigi Grillo di Forza Italia, unisce senza imbarazzo quelli con Fabrizio Palenzona della Margherita, o con Pierluigi Bersani dei Ds. Ha alle spalle una lunga storia, in cui ha imparato non solo quanto è importante la politica per gli affari, ma anche ad avere una visione ecumenica della politica. Nasce l’11 aprile 1932 a Castelnuovo Scrivia, in provincia d’Alessandria. Figlio di cavatori di ghiaia abituati a scavare profondo, arriverà in alto, molto in alto. Fino a battere la Madonnina: è stato infatti il primo a costruire a Milano una struttura che supera in altezza la più alta delle guglie del Duomo. I milanesi, per lo più, non lo sanno, ma dai primi anni novanta la torre delle telecomunicazioni Italposte, a Rozzano, con i suoi centosessanta metri guarda dall’alto anche il simbolo tradizionale della città.

Lui, Marcellino, non ha mai fatto niente per farlo sapere in giro. La riservatezza è la sua religione, gli piace restare nell’ombra. Non ha cariche neppure nelle sue società, che pure controlla da padre padrone. Invece di scavare ghiaia, ha cominciato a mettere mattoni uno sull’altro, a innalzare piloni di cemento armato, a stendere sulla ghiaia chilometri e chilometri d’asfalto. Le sue imprese di costruzioni – Itinera, Italvie, Codelfa, Marcora… – lo portano negli anni ottanta a scalare la classifica delle società del settore, fino ai primi posti della hit parade. Poi sono venute le autostrade, di cui è diventato, nell’era della privatizzazione, un vero collezionista: la Milano-Torino, l’autostrada della Valle d’Aosta, la Torino-Piacenza, la Savona-Ventimiglia, la Cisa, le autostrade liguri-toscane, l’Autobrennero… Oggi controlla un sistema di undici concessionarie ed è il secondo operatore autostradale in Italia, dopo i Benetton.

Ne ha fatte di strade, Marcellino. Sì, perché il suo è un business integrato: conquista le concessioni e poi, per le manutenzioni e gli ampliamenti, fa scendere in campo le aziende di casa. Tutto in famiglia. I primi passi fuori dalla valle dello Scrivia e da Tortona – dove resta, appartato come si conviene al personaggio, il suo quartier generale – li aveva compiuti al fianco di certi politici di un piccolissimo partito che nella Prima Repubblica aveva però il dono di contare tantissimo nel campo degli appalti: il Psdi del sole nascente. È di Tortona la dinastia dei Romita, che mandò Pier Luigi, sotto la bandiera socialdemocratica, fino al ministero dei Lavori pubblici. Di un altro socialdemocratico asceso allo stesso ministero, Franco Nicolazzi, Gavio era poi come l’ombra: i due erano inseparabili. Discreto, riservato, suadente, Marcellino costruisce relazioni molteplici e ad ampio spettro politico. Soprattutto con democristiani (dal ministro Gianni Prandini al sottosegretario andreottiano Vito Bonsignore, con il quale poi romperà). Ma anche con socialisti e perfino comunisti: come quel Primo Greganti, il «compagno G», che proprio Gavio renderà famoso.

Il capolavoro di Marcellino è la rete di rapporti intessuta negli anni ottanta negli ambienti dell’Anas, del ministero dei Lavori pubblici, di quello dei Trasporti. Risultato: appalti, appalti, appalti. Appalti a trattativa privata per centinaia di miliardi, per progetti speciali come le Colombiadi, per lavori d’emergenza come in Valtellina. E poi strade e autostrade, viadotti e gallerie. Fino ai ricchi banchetti dell’Alta velocità e delle Grandi opere. Il 18 agosto 1992 il primo serio incidente di percorso. I magistrati di Mani pulite lo vorrebbero interrogare su una serie piuttosto lunga di mazzette, ma i carabinieri non lo trovano a casa. Diventa ufficialmente «irreperibile», ricercato per corruzione. Inizia una delle latitanze più lunghe di Tangentopoli. Soltanto il 15 settembre 1993, quando ormai era impossibile resistere all’effetto valanga di Mani pulite, il suo uomo-ombra, Bruno Binasco, si presenta davanti ad Antonio Di Pietro e ammette le accuse. Racconta di tangenti per miliardi. Pagate a Bettino Craxi, al democristiano Gianstefano Frigerio, al comunista Greganti. Quattro giorni dopo, anche Gavio plana nell’ufficio di Di Pietro, conferma le dichiarazioni del suo braccio destro e ottiene la scarcerazione.

Binasco subisce sei arresti, record assoluto di Mani pulite. È lui a inguaiare il compagno G, raccontando a Di Pietro di avergli dato un miliardo di lire per il Pci-Pds. Poi sono arrivati i processi. Per il finanziamento a Greganti, Binasco è stato condannato, insieme al compagno G. In altri casi, l’esito è paradossale, come capita spesso in Italia. Per le tangenti pagate a Craxi e confessate da Binasco, per esempio, è stata condannata con rito abbreviato a più di due anni Enza Tomaselli, la mitica segretaria di Bettino: per aver aperto la porta e ritirato le buste di cartone marroncino con dentro 250 milioni alla volta. Chi portava quelle buste, Binasco e Gavio, no: loro hanno tirato in lungo il processo, hanno risarcito con quattro soldi la società Serravalle, a proposito della quale erano state pagate le mazzette, così che nel 2003 la Serravalle (presidente Ombretta Colli) ha ritirato la sua costituzione a parte civile, agevolando la concessione delle attenuanti generiche e dunque della prescrizione. Gavio è salvo.

Ma si sa, sul luogo del delitto si torna. Dieci anni dopo, la Serravalle è diventata teatro dell’ultima, grande contesa tra i poteri a Milano. I milanesi l’hanno sempre chiamata così, «la Serravalle», anche se per un periodo il nome ufficiale è stato Milano Mare: è l’autostrada che porta da Milano a Genova, quella delle vacanze in Liguria dei lombardi, dei weekend in riviera. Gavio, nella sua collezione d’autostrade, aveva anche un pacchetto d’azioni della Serravalle, che restava però saldamente in mano agli enti pubblici, primi fra tutti il Comune di Milano e la Provincia. A un certo punto Marcellino, unico azionista privato, comincia a rastrellare azioni. Va avanti in silenzio. Nel 2000 aveva in tasca solo il 7,5 per cento. Quattro anni dopo arriva al 26,98. E punta dritto al 33,34 per cento, l’agognato traguardo dell’un terzo più uno che gli sarebbe servito per cominciare a comandare, sostituendosi al sindaco di Milano e al presidente della Provincia. Aveva cominciato nel 1999, comprando a 1,6 euro l’una le azioni della Provincia di Genova, ben contenta di fare cassa. Poi aveva corteggiato gli enti (Comuni, Province, Camere di commercio…) che possedevano quote, per convincerli a vendere offrendo cifre attorno ai 2,8 euro per azione.

In tanti avevano abboccato. Per capire che i prezzi accettati senza fiatare fossero stracciati bastava guardare il cash flow – 75 milioni di euro l’anno – o gli utili: 16 miliardi di lire nel 2000, diventati 24 nel 2001, 48 nel 2002, 54 nel 2003. E basta guardare le offerte che Gavio fa al culmine della contesa: nel febbraio 2003 offre 103 milioni di euro al Comune di Milano per il suo pacchetto del 18,6 per cento; nel luglio 2004 per lo stesso pacchetto rilancia fino a 180 milioni di euro (cioè 160 miliardi di lire più dell’anno prima!). È dunque disposto a sganciare 4,8 euro ad azione. Vuole conquistare il controllo della Serravalle. Non soltanto perché è un gioiellino capace di fare ottimi utili e un succulento cash flow con i pedaggi, ma anche per i nuovi business che sta per innescare, come quel collegamento tra Milano e la nuova Fiera di Pero che vale una vincita alla lotteria (almeno 70 milioni di euro): le concessionarie autostradali possono far eseguire i lavori a imprese collegate, senza sottostare ad alcuna gara; e per Pero, Gavio mette in campo la Valdata. A questo punto però incontra sulla sua strada un amico e un nemico: l’amico è il presidente della Provincia di Milano, che in quegli anni si chiama Ombretta Colli, ex cantante, ex attrice (in tv nel 1988 con «Una donna tutta sbagliata»), ex femminista, moglie di Giorgio Gaber, approdata alla politica sotto le bandiere di Forza Italia; il nemico è il sindaco di Milano Gabriele Albertini, anch’egli di Forza Italia ma deciso a opporsi a un’operazione che non condivide.

La benzina di Ombretta Colli

Ombretta Colli in effetti si fa in quattro per favorire Gavio. Cambia perfino lo statuto della società per facilitargli lo shopping. Fa pulizia etnica dei manager che avevano garantito alla Serravalle una crescita prodigiosa (il direttore generale Bruno Rota, il direttore operativo Corrado Cagnola). Impone per Pero la Valdata, società nell’orbita di Gavio priva dei requisiti richiesti. E poi si autoinsedia al vertice della Milano Mare, come presidente. Albertini trasecola, e con lui metà dei milanesi, che non aveva- no mai visto un presidente della Provincia nominare se stessa presidente di una società controllata dalla Provincia. Avevano già assistito, è vero, allo sbocciare d’irresistibili amori tra un amministratore pubblico e un imprenditore, ma di solito erano amori che cercavano di restare più defilati, per salvare almeno le apparenze.

Albertini fa la voce grossa. Denuncia quella che sembra – e non solo a lui – un’indecenza. Dopo un furibondo litigio, e dopo un teso vertice ad Arcore davanti a un esperto in conflitti d’interessi, Ombretta Colli cede la presidenza. La passa però al migliore amico di Marcellino Gavio, Giancarlo Elia Valori, l’unico «fratello» espulso dalla loggia P2 perché faceva paura perfino a Licio Gelli. A questo punto tutti a Milano, a destra e a sinistra, si chiedono: ma come mai l’Ombretta è così sdraiata su Gavio? Una possibile risposta arriva da palazzo di Giustizia, sotto forma di avviso di garanzia per Colli e il suo assessore più fedele, Luigi Cocchiaro (Forza Italia): Gavio, secondo i sostituti procuratori milanesi Stefano Civardi e Alfredo Robledo, finanzia la «signora Provincia», aveva promesso di sostenere economicamente la sua campagna elettorale. Il direttore generale Rota, che non sta al gioco, riceve minacce e intimidazioni. L’assessore Cocchiaro gli annuncia che lo avrebbero fatto saltare, perché «in questa vicenda ci sono persone precise e decise». Rota rifiuta di favorire anche un imprenditore, Aslan Pignatelli, il quale gli viene indicato come il predestinato che deve vincere l’appalto per la manutenzione del verde sulla Serravalle.

È un appalto minore, ma diventa importante perché Rota, quando Cocchiaro va a trovarlo per fornirgli le istruzioni necessarie, è preparato: è appena andato da Marcucci, un grande negozio milanese di elettrodomestici e hi-fi, a comprare un piccolo registratore che mette in funzione non appena l’interlocutore comincia a parlare. Così documenta la sua violenza verbale e ottiene la prova che l’appalto è stato combinato. «Pensa» dice Cocchiaro «se ci stessero ascoltando i carabinieri ci metterebbero in galera tutti e due!» La cosa finisce davanti al giudice. Pignatelli accetterà nove mesi di pena patteggiata per violenza privata e tentata turbativa d’asta: è l’ammissione che le intimidazioni e la combine per il verde ci furono davvero. Per il piccolo appalto anche l’assessore Cocchiaro viene processato e, nell’ottobre 2006, condannato in primo grado a un anno e mezzo per turbativa d’asta, tentata estorsione e minacce.

Aslan Pignatelli, per gli amici Gimmi, è un personaggio mitico per chi ha memoria degli intrecci tra politica e criminalità negli anni ottanta e novanta a Milano. Nel 1973 aveva già subìto una condanna per fatti di droga, ma è alla fine degli anni ottanta che s’era imposto sulla scena pubblica, diventando segretario del Psi a Magenta e dandosi molto da fare all’interno del gruppo dirigente socialista lombardo. Gimmi aveva un amico molto particolare: il boss mafioso Gioacchino Matranga, già condannato al maxiprocesso di Palermo e protagonista del narcotraffico a Milano. Gli amici sono amici, così Gimmi lo presenta ai leader milanesi del Psi (Loris Zaffra, Ugo Finetti, Maurizio Ricotti), con la promessa che Matranga porterà loro un bel pacchetto di voti. Tutti insieme, i politici e il mafioso, nel 1990 partecipano anche a un paio di affollate cene elettorali nell’hinterland milanese. Indimenticabile quella al ristorante Clara di Caleppio di Settala. Dopo un’indagine dei giudici antimafia che scoprono l’imbarazzante vicenda, Pignatelli esce di scena. Per ricomparire nel 1994: i socialisti dopo la scoperta di Tangentopoli si sono eclissati, a Milano brilla la stella della Lega di Umberto Bossi, e proprio ai Lumbard Gimmi si è legato, tanto da ottenere per una sua società gli appalti comunali per la manutenzione del verde pubblico.

Archiviata dopo qualche tempo anche l’esperienza leghista, Pignatelli adotta i colori di Forza Italia e si lega al carro di Ombretta Colli: sono immancabilmente suoi, senza gara, molti degli appalti per la manutenzione del verde della Serravalle. Fino alla condanna patteggiata per violenza privata e tentata turbativa d’asta. Ma quello del verde è un piccolo affare. Quello grande si chiama Serravalle. Rota racconta ai magistrati in che storia stavano cercando di farlo entrare a proposito dell’appalto grosso, quello che aveva come vincitore designato Marcellino Gavio. Rivela che il 6 novembre 2002 era andato da lui l’assessore Cocchiaro e gli aveva fatto un discorso chiaro: «Mi disse che i lavori sarebbero stati fatti sicuramente da Gavio, che la Colli si sarebbe candidata alle elezioni europee del 2004 ed era un personaggio in crescita con un sostegno crescente, che dopo le europee la Colli avrebbe fatto il sindaco di Milano, che le elezioni europee erano molto costose, che Gavio l’avrebbe sostenuta economicamente». Un membro del consiglio d’amministrazione, Carlo Alberto Belloni, che i magistrati qualificano come «personaggio del sottogoverno lombardo», al telefono (intercettato) racconta che il braccio destro di Gavio, Bruno Binasco, si è assicurato un posto nel consiglio d’amministrazione della Serravalle «con un paio di latte… di buona vernice»; che a Cocchiaro sono state date «120 noccioline », anche se poi si lamenta: «Per entrare nel piatto, eh, bisogna garantire un po’ di minestra a tutti… Voglio la minestra da garantire anch’io, sostanzialmente, o no?». E ancora, in polemica con Valori (chiamato «la Star» ma anche, con una buona dose di antisemitismo, «l’Ebreo» per la sua nota amicizia con Israele): «Quando a giugno ho in mano gli argomenti, che mi dà Binasco per portarglieli alla donna, poi a giugno ci sono anch’io attorno al tavolo… L’Ebreo me l’ha sempre insegnato come si tratta, con gli argomenti in mano, eh? Hai capito? Allora, cosa fai? Ti tieni la Star?… Ridammi indietro i miei argomenti che ti ho portato!».

Cocchiaro incontra di persona Gavio l’8 giugno 2004, in una saletta riservata dell’aeroporto di Milano Linate. L’assessore affronta subito il problema, chiedendo all’imprenditore «se si fosse ricordato della promessa fatta alla presidente di un sostegno economico ». Gavio risponde «che non vi erano problemi e che bastava avere i riferimenti su “a chi far fare la cosa”». Cocchiaro, concreto, domanda «a chi rivolgersi all’interno del suo gruppo per tali questioni»: avrebbe poi «proceduto lui stesso a prendere contatti, concordando direttamente le modalità dell’operazione». Seguono nomi, riferimenti, numeri di fax. L’assessore accenna alla campagna elettorale in corso, dice che politicamente va bene: «Ma al momento siamo alla canna del gas». Gavio, pronto: «Senta, allora domani vi faccio avere della benzina». Poi chiama un suo uomo e gli ordina: «Stefano, domani porta all’assessore dei buoni benzina, nella mattinata, possibilmente. Consegnali personalmente a lui».

Nel dicembre 2003 era successo però un misterioso imprevisto: una fuga di notizie aveva rivelato l’indagine segretissima che era in corso e aveva ucciso l’inchiesta. I magistrati sospettano che siano entrate in funzione talpe molto ben informate, spioni dell’agenzia americana Kroll, assoldati da Gavio. Ma devono sostanzialmente rinunciare all’indagine: ormai i protagonisti stanno coperti e gli investigatori sono nell’impossibilità di trovare le prove documentali delle eventuali tangenti. Individuano una sola erogazione di denaro: un contributo di 40mila euro che Gavio fa avere alla fondazione costituita in onore di Giorgio Gaber dopo la sua morte. Commentano i magistrati: «Al di là dei motivi di eleganza e opportunità che forse avrebbero sconsigliato la richiesta del contributo, proprio quando la Provincia di Milano votava nell’assemblea dei soci della Serravalle l’entrata di Binasco, braccio destro di Gavio, nel consiglio d’amministrazione», resta «la sproporzione fra i poteri asserviti agli interessi in gioco» e l’esiguità della cifra versata.

Preso atto che gli elementi raccolti non bastano per vincere un processo, nell’aprile 2005 i sostituti procuratori Civardi e Robledo chiedono l’archiviazione del procedimento. Ombretta Colli canta vittoria, chiede le scuse di chi l’ha accusata, pretende piena riabilitazione e vuole tornare con ruoli di primo piano alla politica: fa finta di dimenticare che ha schivato le conseguenze giudiziarie, ma il suo ruolo nella storiaccia della Serravalle resta politicamente ingiustificabile. Come spiega – non ai giudici ma ai cittadini – il tifo per Gavio, le «noccioline», le «latte di buona vernice», gli «argomenti portati alla donna», le richieste di «sostegno elettorale», i buoni benzina? Come spiega che il suo assessore Cocchiaro sia stato processato e condannato in primo grado a un anno e mezzo per turbativa d’asta, tentata estorsione e minacce, per quel piccolo appalto sul verde che doveva essere vinto da Pignatelli?

Ma Ombretta Colli confida nella scarsa memoria e nella poca informazione. Nel giugno 2004 si ricandida alle provinciali: a sorpresa, viene battuta dal candidato di centrosinistra, Filippo Penati. Poi viene investita dall’inchiesta giudiziaria, che diventa pubblica e viene raccontata dai giornali. Rimasta senza cariche e scottata dal fuoco delle polemiche con il sindaco Albertini e con una parte del suo stesso partito, sarà, a ogni buon conto, risarcita da Forza Italia. Le offrono non una, ma ben due poltrone: dopo aver minacciato di candidarsi con una sua lista a sindaco di Milano (avrebbe tolto voti preziosi alla candidata ufficiale del centrodestra, Letizia Moratti), ottiene l’assessorato alle Periferie e decentramento del Comune di Milano e un posto sicuro in lista alle politiche del 2006, diventando così anche senatrice della Repubblica.

Il caffè di Filippo Penati

La storia della Serravalle, alla fine del 2004, sembra arrivare a un soffio dal lieto fine: Colli è fuori dai giochi, Albertini pare aver vinto la sua battaglia, Gavio sembra averla persa. La società resta nelle mani di Comune e Provincia, finalmente alleate. Torna perfino il grande epurato, Bruno Rota, il direttore generale minacciato e poi cacciato nel 2003, che viene premiato addirittura con la presidenza della società.

Se non che succede qualcosa. Il nuovo presidente della Provincia di Milano, Filippo Penati, dopo aver fatto fronte comune con Albertini, nell’estate del 2005 fa un colpo di teatro: compra, e a caro prezzo, il 15 per cento di azioni Serravalle nelle mani di Gavio. La Provincia spende 238 milioni di euro (poco meno di 500 miliardi di lire) per arrivare al 53 per cento e consolidare il controllo di una società che era già saldamente in mani pubbliche. Paga 8,93 euro ad azione. Solo diciotto mesi prima, Gavio le aveva pagate 2,9: dunque realizza una plusvalenza di 176 milioni di euro. In più, Gavio potrà sempre avere ciò che della Serravalle più gli interessa, e cioè i ricchi appalti per i lavori autostradali connessi con il suo sviluppo. Si spezza di colpo il fronte Albertini-Penati. Il sindaco di Milano è durissimo: afferma che il diessino presidente della Provincia ha fatto un regalo cash a Gavio. In cambio, ecco che questi sostiene Giovanni Consorte, presidente Unipol, nella scalata alla Bnl: compra lo 0,5 per cento della banca, investendo 50 milioni di euro. Advisor di Unipol è Guido Roberto Vitale, lo stesso che mette il timbro di congruità sul prezzo finale delle azioni Serravalle comprate da Penati.

È un patto segreto, uno scambio di favori sulla sponda sinistra, denuncia Albertini, che parla di una «questione morale nel centrosinistra»: «Quelle stesse azioni, appena diciotto mesi prima, erano state vendute al gruppo Gavio da, diciamo così, “distratte” amministrazioni pubbliche, prevalentemente di sinistra, a 2,9 euro l’una. Qual è il prezzo congruo, 2,9 oppure 8,93? E chi ha fatto l’affare?» si chiede l’allora sindaco di Milano. L’operazione, per Albertini, «è incomprensibile». Perché la Provincia «ha sperperato il denaro dei cittadini per acquisire il controllo di una società che già deteneva, attraverso il patto con il Comune». Lo scambio Serravalle-Unipol, secondo il sindaco, è invece «un’ipotesi basata su elementi di dominio pubblico, nel tentativo di spiegare un’operazione altrimenti del tutto priva di senso».

Ci sono intercettazioni telefoniche che sembrano confermare questi cattivi pensieri. In una conversazione del 2004, Gavio confessa: «Sto facendo un pensierino sottovoce a vendere tutto per 4 euro». E Binasco: «Sicuramente portiamo a casa dei bei soldi». Replica Gavio: «Così non ci facciamo sangue cattivo, che questi ci fan diventare matti». Dunque era disposto a vendere a 4 euro: ma un anno dopo riesce a portare a casa più del doppio. «Il problema non è Penati» dice Binasco a Gavio il 28 giugno 2004 «perché con lui un accordo lo si trova. Il vero problema è Albertini.» Due giorni dopo, entra in scena Pierluigi Bersani, dirigente dei Ds che poi nel 2006 diventa ministro dello Sviluppo economico. Con lui, confida Binasco al Giornale, «Gavio ha da sempre un ottimo rapporto». 30 giugno 2004: «Bersani dice a Gavio che ha parlato con Penati… Dice a Gavio di cercarlo per incontrarsi in modo riservato: ora fermiamo tutto e vedrà che tra una decina di giorni, quando vi vedrete, troverete un modo…».

Il 5 luglio, è Penati a chiamare Gavio: «Buon giorno, mi ha dato il suo numero l’onorevole Bersani…». Gavio: «Sì, volevo fare due chiacchiere con lei quando era possibile…». Penati: «Guardi, non so… Beviamo un caffè». L’incontro avviene. «In modo riservato», come suggerito da Bersani: non in una sede istituzionale, ma in un albergo di Roma. Alla fine, la Provincia compra la Serravalle. Penati vuole contare nelle prossime opere viabilistiche lombarde, la Pedemontana, la nuova tangenziale esterna di Milano. Stringe un patto con il presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, per arrivare a gestire insieme, in una futura holding comune, le partecipazioni nelle autostrade, nei trasporti, negli aeroporti, nell’acqua potabile… «Una piccola Iri» protesta Albertini. «Un ritorno al passato, in direzione opposta a quella dello Stato imprenditore che sta invece lasciando il campo ai mercati» critica Bruno Tabacci, Udc.

Penati si difende. Sostiene che aveva cercato di comprare le azioni dal Comune, il quale però non aveva neppure risposto. Che il prezzo pagato è ottimo, visto che è comprensivo del premio di maggioranza e che il valore medio, tra azioni vecchie e nuove, è di 2,97 euro l’una. Che è «una solenne stupidaggine» stabilire connessioni tra vicenda Serravalle e scalata Unipol. Che la Provincia ha perseguito soltanto il bene dei cittadini, «salvaguardando l’interesse pubblico in modo innovativo e non statalista». Poi si butta a fare politica, dimostrando una statura da leader. I panni di amministratore dell’ente provinciale gli vanno stretti. Progetta la città metropolitana, apre il «tavolo per Milano », cerca alleanze con gli altri amministratori locali: non sempre in armonia con i dirigenti locali del suo partito, stringe rapporti di grande collaborazione con il presidente della Regione Roberto Formigoni e con il sindaco di Milano Letizia Moratti, entrambi di Forza Italia. Dopo un dibattito Penati-Moratti alla festa dell’Unità, Nando dalla Chiesa dichiara: «Qui c’è un’aria da baci Perugina. Questo clima non fa bene alla necessità di una chiara distinzione dei ruoli tra maggioranza e opposizione a Milano. C’è troppa gente che soffia sulle vele dell’inciucio». Quanto a Bruno Rota, il manager già messo alla porta da Ombretta Colli (da destra), è licenziato in fretta anche da Penati (da sinistra): l’uomo che fu cacciato due volte.

Il commercialista con gli effetti speciali

Il rapporto tra Gavio e il mondo delle cooperative rosse, evocato da Albertini per il presente (dopo il passato dell’era Greganti), è fatto di una rete fitta di rapporti e di affari con gli uomini coop. Si materializza anche nel corso di un’inchiesta condotta a Milano da Stefano Civardi e Maurizio Romanelli. Un piccolo rapporto strutturale: emerge una società, Milano Logistica spa, che appartiene per metà al gruppo Gavio e per metà a due cooperative emiliane, Coopsette e Ccpl.

I due magistrati s’imbattono per caso nella Milano Logistica, perché il commercialista dell’azienda, Giuseppe Berghella, consulente delle coop, il 29 settembre 2005 entra in un ufficio milanese dell’Agenzia delle entrate e consegna (sotto l’occhio di una telecamera nascosta) una busta con 50mila euro a un funzionario dell’Agenzia. Era la prima tranche di una tangente di 200mila euro da versare a tre dirigenti dell’amministrazione, affinché chiudessero con un forte sconto un contenzioso fiscale: all’azienda era stato chiesto di pagare, tra imposte evase e sanzioni, un massimo di 3 milioni di euro; se la sarebbe cavata versando solo 495mila euro al fisco, più la mazzetta. Conveniente. Il commercialista delle coop non ha coinvolto l’azienda. Ha dichiarato che la busta era una sua iniziativa personale. Voleva risolvere brillantemente il contenzioso fiscale, tentando di stupire Gavio con effetti speciali: che cosa non si fa per conquistare un nuovo, prezioso cliente.

Affari e amici eccellenti

Le intercettazioni che hanno portato alla ribalta i rapporti tra Gavio e Bersani dimostrano una rete ben più ampia di contatti: con Emilio Fede, con l’allora ministro dei Trasporti Pietro Lunardi, con l’allora presidente del Senato Marcello Pera… Tutti a dire la loro, a fare il loro numero nel gran circo degli affari. Fede è usato da Gavio come messaggero per Arcore, affinché interceda in favore di Vincenzo Pozzi, il direttore generale dell’Anas inviso al ministro Tremonti. «Ciao, Emilio. Senti… Io ho un piccolo problemino: tu sabato sei in circolazione?» chiede Gavio al direttore del Tg4, l’11 marzo 2004. «Sì, certo» risponde Fede. «Quando vai ad Arcore?» «Ci sono stato l’altro ieri… e questo fine settimana, salvo contrattempi, dovrei andare là.» «Volevo farti un messaggino. Piccola cosa, eh?» «Facciamolo, io al 90 per cento dovrei andare con lui in Sardegna…» Allora Gavio gli dice: «Va bene, allora te lo faccio avere sabato… Senti, io sono qua con un amico che è Pozzi dell’Anas, che vuole salutarti, un caro amico…». Pozzi: «Direttore! …Noi diamo sempre un appoggio a quello che riteniamo legittimo… a chi sta lavorando per rifare l’Italia, per rifare le strade…». Qualche ora più tardi, Gavio parla ancora dell’Anas con Binasco: «Dunque ci sono degli spostamenti. Il ministro Tremonti vuole mandare una persona a fare il direttore generale… In quel caso si sfascerebbe l’Anas… Io a Fede gli ho già dato un colpettino. Mando due righe domattina da mandar su… molto riservate. Per poter dire che noi l’abbiamo aiutato… Questo adesso viene da noi a piangere… Del resto, se viene un altro che comanda lui, io non posso vedere più i piani finanziari, né tutto, insomma!».

Il 22 marzo, Fede annuncia a Gavio che la missione è compiuta: «Io ieri ho parlato a lungo con lui, però spero di vederlo oggi di persona per quella cosa, anche se sta un po’ incasinato…». Gavio: «Tu manovra sempre in modo cauto, perché poi ti parlo a voce… Cauto, tu sei un maestro in materia!». «Sì, appunto!» «Se possiamo, è una persona che vale… Però stai molto guardingo, si rischia la guerra con il Tesoro…» Se Tremonti per Gavio è un nemico, Lunardi e Pera sono amici. Con l’allora presidente del Senato, Gavio e Lunardi sono stati anche a colazione a palazzo Giustiniani: Pera, seconda carica della Repubblica, ben fuori dai suoi poteri e doveri istituzionali, pretende di mettere incredibilmente becco nelle nomine della Salt, l’autostrada ligure-toscana.

Il 10 marzo 2004 Lunardi chiede a Gavio: «Come stai? Senti, quella persona con cui abbiamo fatto colazione un po’ di tempo fa lì, a palazzo Giustiniani… mi diceva che ha saputo oggi che c’è un consiglio e nominano un Ds di La Spezia… No, perché, guarda che voi fareste la fine di…». Gavio lo interrompe: «No, stai tranquillo! Te l’ho detto che facciamo uno interno e poi facciamo entrare Nanni Fabbri… e il sindaco di Sarzana… Non fa il presidente di sicuro!». Lunardi: «Grazie! Però adesso chi è il presidente?». Gavio: «Presidente faccio Arona, uno dei miei!». Lunardi: «Ma quello lì di Sarzana è molto di là… Bisognerebbe un pochino ripulire». Gavio: «L’unico che ha poteri è il vicepresidente, il suo di Pera!». Lunardi: «Sì, ma non è che valga molto…». Gavio: «No, è un architetto molto scarso».

La contesa per il presidente della Salt prosegue nei giorni seguenti: «Guarda, sono stufo, devo andare da Pera. Lui vuole un presidente, ma si arrabbiano gli altri…» protesta Gavio l’8 giugno. E poi: «Sono andato da Pera e mi sono sentito una girata da fuori di matto, perché non facciamo il presidente… Adesso vediamo cosa possiamo fare per aiutarlo a fare ‘ste strade…». Il mercimonio continua. Accontentato Pera, Gavio ha subito modo di pentirsi, come riassume il brogliaccio delle intercettazioni: «Ha problemi con il nuovo presidente che gli ha fatto nominare Pera. Dice che è un medico e non sa nulla di autostrade, che dovrebbe accontentarsi di prendere i soldi e non intralciare il loro lavoro…». Gli stretti rapporti con la politica e con gli uomini dell’Anas spiegano anche un’altra impresa di Gavio: la scalata alla Sitaf, la società che controlla l’autostrada del Frejus. Una vicenda che sembra gemella a quella della Serravalle: anche qui, nella proprietà, ci sono un Comune e una Provincia (di Torino, questa volta) e, in più, l’Anas. Sono i magistrati torinesi, in questo caso, a volerci vedere chiaro.

Ma Gavio, pur punzecchiato dalle inchieste giudiziarie per appalti in Lombardia, Piemonte, Liguria, prosegue la sua corsa. Ha tanti progetti per la testa. Tanti cantieri da aprire, nuovi tratti autostradali da realizzare, ricchi appalti da vincere. La politica cambia, gli affari restano.

Gianni Barbacetto. Compagni che sbagliano, Il Saggiatore 2007