SEGRETI

Quel che resta del caso Moro

Quel che resta del caso Moro

di Stefania Limiti /

Nove maggio 1978, ore 7.45: Francesco Cossiga è di buonissimo umore verso le 8 del mattino, mentre prende un caffè alla buvette di Montecitorio. Assicura un testimone che era lì: “Andavo sempre verso quell’ora proprio perché si poteva incontrarlo facilmente, erano minuti preziosi per parlarsi. Credo che avesse convocato Signorile al Viminale nelle ore successive, come è noto, proprio perché avrebbe dato ai socialisti, al di là del loro effettivo ruolo, la responsabilità dell’esito positivo del sequestro. Sì, Cossiga era davvero contento durante quel caffè, naturalmente non mi disse nulla. Perché non voglio comparire con il mio nome? Cossiga mi impedì di raccontarlo quando era in vita figuriamoci se mi espongo adesso che non c’è più”.

Quella stessa mattina piazza del Gesù brulica di uomini dello scudocrociato in attesa dell’annunciato intervento di Amintore Fanfani che avrebbe dovuto dire con parole di velluto: trattiamo, liberiamo Aldo Moro! Qualche giorno prima (6 maggio) il luogotenente di Fanfani aveva fatto quel discorso a Montevarchi: “La Dc ha sollecitato il governo a esaminare la praticabilità delle varie iniziative prospettate per la liberazione di Moro”.

Si dice che la telefonata a casa Moro fatta dal capo Mario Moretti il 30 aprile avesse provocato una intensa reazione della Dc, mettendo in moto consultazioni, riunioni, iniziative. Qualcosa stava accadendo e, di certo, gli animi erano lieti nel palazzo della Democrazia cristiana alle prime ore del 9 di maggio. Anche se sul punto le cronache sono confuse, Fanfani non aveva ancora parlato alla direzione del partito quando arrivò la notizia del ritrovamento del corpo di Moro portando gelo, scompiglio, terrore.

Beppe Pisanu era seduto accanto a Benigno Zaccagnini ed è sicuro dei suoi ricordi: “Mi chiamarono per una telefonata. Mi recai nella piccola stanza dell’Ufficio stampa che si trovava proprio accanto alla sala più grande dove era in corso la riunione, e appresi la notizia. Toccò così a me riferirla al segretario il quale si alzò per il triste annuncio. Fanfani, glielo assicuro, non aveva ancora parlato. Non intervenne. Eravamo sconvolti. Non mi chieda l’ora perché non me la ricordo, non ricordo neanche cosa disse Zaccagnini”.

Autoassolvendosi dal delitto di Aldo Moro, la Dc ha evitato di confrontarsi pubblicamente con il fallimento dello Stato. Mostrandosi come soggetto disarmato, passivamente dilaniato dalla brutalità̀ degli eventi, ha potuto indugiare sulla paralisi degli apparati investigativi o sui silenzi degli uomini dell’intelligence, o sulla porosità dei propri spazi di potere nei quali avevano potuto scorrazzare un cinico criminologo inviato dal centro pulsante dell’impero e piduisti infedeli. L’anomalia di un potere “ibrido”, chiamato a fare i conti con scelte e volontà estranee agli organismi legittimi, è stata taciuta e nascosta dal grande silenzio attorno al rapimento di Aldo Moro.

Ponendosi poi solo come parte lesa, la Democrazia cristiana ha potuto agevolmente evitare di confrontarsi con le elaborazioni di Moro condensate nel memoriale, opera unitaria e storiograficamente ormai considerabile come il suo bilancio di trent’anni di governo. Dando a quelle analisi il valore della rabbia disperata del prigioniero si volle nasconderne il potenziale critico, operazione facilitata dall’assenza per dodici anni delle fotocopie dei manoscritti.

La dolorosa consapevolezza del distacco umano degli amici della Dc uccide nel prigioniero “l’orgoglio democristiano”, pure tante volte declamato, e la Dc, avendo avallato la versione di una perdita patita e non contrattabile, evitò di misurarsi con quel sentimento.

Da segretario, Moro aveva rivolto quasi un inno al suo partito, “unito, completamente consapevole delle esigenze del Paese, capace di affrontare tutto, io credo nel mio partito, nei suoi uomini, nella sua storia nella intatta funzione nella vita nazionale”; tra i banchi di Montecitorio aveva gridato: “La Dc fa quadrato intorno ai propri uomini. Non ci lasceremo processare nelle piazze”. Della Dc era figlio e padre, tuttavia il partito che descrive con ritmo serrato e inquieto nei suoi scritti dalla prigione non è diverso da quello che egli aveva conosciuto: è che ora non vuole assolverlo.

Qualche anno prima del suo rapimento si tenne una riunione a Roma, in via Teulada, vicino alla sede della Rai, davanti a un ristretto e qualificato numero di collaboratori di Moro. Era il 22 luglio 1971 e per diverse settimane osservatori, amici e nemici andarono a caccia del suo discorso che non era stato affatto ordinario, conteneva una cruda analisi del Paese, della Dc e dei suoi errori, mentre nel partito era in corso l’offensiva della destra che voleva rompere finanche con il Partito socialista.

Dice Moro in quel consesso: “Il 13 giugno l’avanzata elettorale del Msi ai danni essenzialmente della Dc è un fatto grave. È il primo sintomo, dopo 25 anni, della possibilità che possa aprirsi in Italia la prospettiva di una dissoluzione della Dc e di una involuzione, forse della fine, del regime democratico voluto dalla nostra Costituzione […]. Secondo me il problema centrale del nostro partito è ricostruire un nuovo legame tra la Dc e le forze sociali in movimento […] la Dc deve riguadagnare il suo prestigio ma nel Paese che è nato dopo le elezioni politiche del 1968. Il centro sinistra va difeso sviluppandolo con una Dc che riacquisti pienamente la sua funzione popolare, democratica e antifascista. Il Paese ha in sé ancora forze sufficienti per uscire dalla crisi, forze sulle quali si può, si deve contare. Ma questo è possibile a condizione che la Dc sia capace di uscire dal suo cinismo, dalla sua mediocrità, dalla sua paura, dal suo elettoralismo deteriore, e sia invece capace di offrire una parola di franchezza e di chiarezza, una prospettiva di più sostanziale libertà. Quello di oggi non è un assetto. Per superare questa prova occorre ritrovare in noi una diversa struttura culturale e morale, muoverci secondo un’identità comune a sostegno della democrazia. Nel nostro Paese oggi è in discussione di fatto tutto l’assetto politico […]. Esiste, latente, una destra tracotante che è senza dubbio più potente di quella che risulti dai voti manifesti, non esiste, oggi, un reale pericolo a sinistra”.

Pensieri e parole ispirate all’idea che i fascisti non erano solo fuori la Dc. Prima ancora dell’audace idea di una strategia dell’attenzione verso il Partito comunista, avanzata nel 1969 a una Dc piuttosto distratta (ma attirò l’attenzione degli strateghi della controrivoluzione), Moro aveva avanzato le stesse analisi anche al congresso del 1962: “Sappiamo bene che la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia che avanza fatalmente in una società democratica, la nostra vigilanza e resistenza hanno da essere maggiori, proprio perché le entità di questo rischio per le istituzioni non si computa né in voti né in seggi parlamentari ed è pur vero che esso non risiede in intero, pur nell’innegabile riferimento ideale e storico che esso fa del fascismo, nel Msi”.

Era una delle sue chiavi d’analisi della realtà, ripetuta al Consiglio nazionale del 21 novembre 1968, quando chiese di aprire le porte alla società, perché “tempi nuovi si annunciano e avanzano in fretta come non mai”. Le soluzioni empiriche e pragmatiche, fuori dalla storia, non erano fatte per un partito democratico-cristiano, secondo Moro.

Al congresso del partito del giugno 1973 lo ripete: Moro parla verso sera, e si fa silenzio quando sale sul palco, spiega il senso delle alleanze, dice che il centrismo, che aveva chiuso le porte a destra, non è rinnovabile dunque occorre essere consapevoli che c’è un rischio concreto di un blocco d’ordine che potrebbe mettere in crisi la vita democratica. Perciò l’antifascismo va praticato. L’antifascismo con una piattaforma ideale, morale e politica, non con un generico anti-totalitarismo, ma con una autentica apertura alle istanze della società.

Nella Democrazia cristiana la morte di Moro chiude un sipario. I palazzi finiscono di tremare dopo lo stillicidio di terrore che aveva accompagnato l’arrivo delle sue lettere dalla prigione, si può tornare a veleggiare in tranquillità, senza tormenti. Non ci sono eroi da ricordare, Moro si è rifiutato di morire da eroe per il partito e la Democrazia cristiana si sente libera di girare pagina.

 

Da: “Quel che resta del caso Moro”, Interlinea, 2024. Stefania Limiti, Gianni Barbacetto e Fulvio Gianaria lo presentano al Salone del Libro di Torino il 9 maggio alle ore 17

giannibarbacetto.it, 9 maggio 2024
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