SEGRETI

La notte dei fuochi (sacri). Scene di “guerra non ortodossa” in Val d’Aosta

La notte dei fuochi (sacri). Scene di “guerra non ortodossa” in Val d’Aosta

La notte dei fuochi (sacri) scosse profondamente la tranquilla, pacifica, montana Valle d’Aosta. Era un sabato, quel 19 ottobre 1963. Chi lo ricorda più? Eppure le fiamme divamparono, quella notte, nelle tenebre dolci di un autunno appena iniziato. Bruciarono alcune cappelle sacre, fu carbonizzata una grande croce di legno piantata sulla cima di un colle, fu distrutta la statua di una Madonna a grandezza naturale che i valligiani avevano adornato con fiori di campo. E poi il gran botto, ad Aosta: fiamme terribili dentro l’arcivescovado, un “uragano di fuoco” sotto le finestre di sua eccellenza il vescovo.

Insieme alla cenere e ai residui delle taniche di benzina, la mattina di domenica furono trovati volantini minacciosi: promettevano “calci in faccia, botte da orbi e pallottole” ai preti e alle suore “che oseranno mettere il naso fuori casa il giorno delle elezioni”. La firma era quella dei comunisti “cinesi”, marxisti e leninisti. La polizia politica cominciò le indagini, ma i responsabili non furono mai individuati. Però “il giorno delle elezioni”, una settimana dopo, rasserenò almeno in parte gli animi turbati: i comunisti non avevano avuto la meglio, come si temeva, e il 29 ottobre i giornali della Valle poterono annunciare la vittoria netta della Democrazia cristiana.

Ci vollero trent’anni per capire che cosa era successo davvero nella notte dei fuochi (sacri). A svelarlo fu, nel 1994, uno degli autori degli attentati, in un libro inquietante e (suo malgrado) esilarante, dal titolo Nichita Roncalli. Non era un “rosso”, un comunista, un marxista-leninista, un “cinese”: Franco Bellegrandi, cattolico fervente, tradizionalista e pio, era allora redattore nientemeno che dell’Osservatore romano, il quotidiano del Papa. È lui stesso a raccontare un atto di “guerra non ortodossa” realizzato con sublime noncuranza e comica determinazione.

Anno cruciale, il 1963. Papa Giovanni XXIII, che aveva aperto la Chiesa al mondo con il Concilio ecumenico Vaticano II, non piaceva a tutti: “Il segno lasciato da Roncalli nella storia dell’umanità supera di molto quello impresso dai vari Lenin e Stalin. Infatti se quelli hanno liquidato qualche milione di vite umane, Giovanni XXIII ha liquidato ben duemila anni di Chiesa cattolica”. Così scrivevano, perfidi, i cattolici tradizionalisti, ossessionati dal comunismo che si stava mangiando anche Santa Romana Chiesa. E smaniavano per far qualcosa per fermare questo Satana. Che aveva il nemico in casa.

Il gruppo dei pii giornalisti dell’Osservatore romano ebbe l’occasione di passare dalle parole ai fatti quando a chiedere aiuto arrivò in Vaticano uno dei capi della Dc, Flaminio Piccoli, impaurito dai cedimenti ai comunisti di Amintore Fanfani; e dalle elezioni dell’ottobre 1963 in una marca di confine piccola, ma da difendere a ogni costo dai “rossi”: la Valle d’Aosta. Dopo discussioni surreali sul che fare, arrivò la grande idea: organizzare attentati in Valle da addebitare ai comunisti per spaventare i valligiani e farli correre a votare Dc. Un “elettroshock collettivo” necessario per salvare la fede nella Croce e soprattutto nello Scudo crociato.

Il piccolo gruppo di volonterosi papalini anti-papa (troppo comunista il regnante Giovanni, ancor peggio il suo successore Paolo VI, “amico segreto del Cremlino e del marxismo internazionale”) si mise al lavoro. Arrivarono anche le armi russe da far ritrovare in Valle per aumentare la paura dei placidi valligiani: pistole Nagant e Browning, mitragliatrici Parabellum, moschetti Mannlicher di fabbricazione ungherese con impressi falce, martello e stella rossa.

Entrarono in Vaticano in una notte di fine settembre, nascoste nel bagagliaio di una vecchia, monumentale, fiammeggiante Cadillac verde, generoso dono degli Stati Uniti a un cardinale della Curia. Alla guida, Andrea Lazzarini, caporedattore dell’Osservatore romano, detto “il re pallido”, noto per i suoi baffi e le sue risate in falsetto. Era così basso da aver bisogno di un grande cuscino per guidare l’auto, accolta dal saluto militare delle Guardie svizzere alla Porta di Sant’Anna. Ma non arrivavano dall’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, quelle armi, bensì da Cinecittà, vendute da un regista e collezionista e pagate con i soldi forniti da Piccoli.

Brindarono con lo champagne all’impresa, nelle compunte stanze vaticane. E la notte stabilita passarono all’azione. Si divisero in due gruppi. Bellegrandi e il piccolo Lazzerini attaccarono la Valle, dal confine con la Francia ad Aosta; il grande Gianfranco Barberini, detto Barberone per la sua stazza, segretario dell’Osservatore romano, insieme ad “Augusta”, fratello del “re pallido”, entrarono in azione in città.

Nella notte valdostana, l’auto di Bellegrandi sobbalzò su una buca e la benzina traboccò da una delle taniche che il piccolo “re pallido”, nobile e signorile e sempre vestito di grigio con una gemma blu al dito, aveva in grembo: “Mi ha fatto il bidet! Oh Dio, che schifo!”. Bellegrandi rise a crepapelle. Ma poi prevalse l’eccitazione, in questi santi terroristi del sabato sera.

Per abbattere la Madonna adornata di fiori, il piccolo “re pallido”, tanto devoto alla Vergine Santissima, la prese per il collo e la tirò con tutta la sua forza. Ma Maria era protetta dal Figlio e da un filo d’acciaio. L’omino coi baffi si aggrappò con tutto il suo (piccolo) peso alla Santissima, finché riescì a cadere a terra, ansimante, con Lei sopra, sconfitta solo dalla fragilità della terracotta, frantumata in mille pezzi.

Ad Aosta, l’ultimo fuoco, una piramide di taniche infiammate, fu per il pacioso vescovo che dormiva tranquillo nelle sue stanze. Poi i quattro papalini si ripararono nel “covo” predisposto, il fienile di un contadino che li accolse con deferenza. La vittoria elettorale della Dc, una settimana dopo, ripagò le fatiche eccitate degli improvvisati maoisti vaticani. E le armi sovietiche? Restarono in Vaticano: troppo rischio portarle in Valle. Riposarono per qualche tempo dentro un tappeto persiano arrotolato che era stato calpestato dal “sovietico” Papa Montini. Finché, una sera senza luna, tappeto e mitraglie furono fatte uscire dall’armadio vaticano e scaraventate nel Tevere.

I fatti della notte dei fuochi (sacri) sono raccontati da Bellegrandi con toni a suo dire “salgariani”. Ma riconsiderati oggi non sono più una stranezza, un’anomalia, un’eccezione. Erano prove di “guerra non ortodossa”. Pochi mesi dopo scattò, in tutta Italia, l’operazione “manifesti cinesi”, inneggianti al comunismo e a Mao Tsetung, ma stampati dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno e diffusi dai neofascisti per alimentare la paura del “pericolo rosso” nel Paese. Cinque anni più tardi, i fuochi si moltiplicarono, la benzina divenne esplosivo, e un grande botto scosse tutta l’Italia, devastando una banca in piazza Fontana.

Il Fatto quotidiano, 25 agosto 2023 (versione completa)
To Top