SEGRETI

La “guerra non ortodossa” delle stragi italiane. L’album di famiglia di Giorgia Meloni

La “guerra non ortodossa” delle stragi italiane. L’album di famiglia di Giorgia Meloni

“L’album di famiglia” di Giorgia Meloni non è il passato della Storia del Novecento. È il presente nero della Repubblica che ancora non ha trovato né giustizia, né verità

Giorgia Meloni non vuole, o non può, fare i conti con il fascismo. Dice di non aver “mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici”, “fascismo compreso”: ma così non riconosce l’unicità, la peculiarità antifascista della Costituzione su cui ha giurato e della Resistenza da cui è nata. La nostra Carta non è una dichiarazione generica e buonista contro ogni totalitarismo, ma è scritta con il sangue di chi è stato ucciso dall’unico totalitarismo che ha soggiogato l’Italia, l’ha trascinata in guerra, l’ha consegnata ai nazisti.

Il giuramento di fedeltà alla Costituzione esige ben altro che una banale condanna di ogni totalitarismo: questa può generare al massimo una comoda dichiarazione di “a-fascismo”, destinata oltretutto a stonare in bocca a una leader che fa eleggere presidente del Senato un politico che si chiama Ignazio Benito La Russa e tiene i busti di Mussolini in casa.

Ma attenzione, non c’è soltanto il fascismo storico, che i post-fascisti liquidano dicendo di considerarlo un capitolo chiuso nel 1945. La ferita aperta con cui Meloni non vuole, o non può, fare i conti è soprattutto il neofascismo dal dopoguerra a oggi. La “comunità politica” da cui orgogliosamente rivendica di provenire è infatti quella del Movimento sociale italiano, come testimonia la fiamma tricolore presente nel simbolo di Fratelli d’Italia.

I “padri” del gruppo dirigente di Fratelli d’Italia sono Giorgio Almirante e Pino Rauti: padri politici e anche biologici, considerando che Isabella Rauti oggi siede in Parlamento ed è sottosegretaria alla Difesa. “Con Pino Rauti scompare un punto di rifermento assoluto per la destra italiana”, scrisse Meloni il 2 novembre 2012. “Con il suo esempio ha dimostrato che la politica è prima di tutto cultura, un patrimonio di idee aperto al confronto dialettico e intellettuale, una capacità di lanciare il cuore oltre l’ostacolo che non ha nulla a che vedere con i giochi di palazzo e le degenerazioni di oggi”.

Il collegamento tra passato e presente, in Fratelli d’Italia è garantito da un personaggio come Adolfo Urso, ieri capo della segreteria politica di Pino Rauti e grande oppositore del “rinnovamento” di Gianfranco Fini, poi presidente del Copasir, il comitato parlamentare di controllo dei servizi segreti, e infine ministro dello sviluppo economico nel governo Meloni.

Recentemente, il 10 novembre 2022, Fratelli d’Italia ha inaugurato il circolo “Pino Rauti”: a Brescia, città ferita da una delle stragi che sentenze definitive dicono organizzate da Ordine nuovo, il gruppo fondato da Rauti. “La scelta di intitolare il circolo a Pino Rauti”, spiegano i promotori, “è stata fatta per riaffermare con forza la continuità ideale della nostra comunità politica. Il pensiero di Rauti, infatti, fra ecologismo, visione spirituale della vita, attivismo sociale e grande dinamismo in campo culturale, può e deve essere riaffermato oggi di fronte alla crisi antropologica dell’Occidente”. Il pensiero di Rauti? È spiegato da Rauti stesso nel volume La democrazia, ecco il nemico, pubblicato non nel 1942, ma nel 1952, a guerra finita e Costituzione vigente. È questa “la continuità ideale della nostra comunità politica”?

Il Msi è stato fino al 1994 il “polo escluso” della politica italiana, come Piero Ignazi ha documentato in un suo volume, ma è stato anche, e contemporaneamente, il “polo occulto” della storia sotterranea della Repubblica, della “guerra non ortodossa” combattuta in Italia a colpi di stragi impunite, golpe minacciati e tentati, omicidi politici, logge occulte, accordi con le organizzazioni mafiose.

È vero che il personale politico dell’eversione nera proveniva da gruppi esterni al Msi, da Ordine nuovo ad Avanguardia nazionale, che con il partito di Almirante avevano rapporti conflittuali, dialettici, rissosi. Ma quel partito era alfine la casa visibile, il punto di riferimento politico di un mondo sotterraneo che combatteva la sua stessa battaglia. Il Msi è stato coinvolto infatti fin dalla sua nascita nella gestione di una parte del potere dello Stato, quella più riservata e sotterranea, in particolar modo nella conduzione dei suoi apparati più segreti e delle operazioni più occulte. Forze armate, ministero dell’Interno, servizi segreti hanno sempre avuto rapporti stretti con il Movimento sociale e i suoi uomini.

Fanno riferimento al Msi i generali più importanti delle forze armate nel dopoguerra, a cominciare da Giuseppe Aloia, capo di Stato maggiore dell’esercito. È lui a istituire negli anni Sessanta i “corsi di ardimento” che formano “migliaia di uomini particolarmente addestrati contro la guerra sovversiva”, secondo la testimonianza di due personaggi coinvolti in quell’operazione, Pino Rauti, appunto, e Guido Giannettini.

Un uomo-chiave dei servizi segreti italiani, Vito Miceli, termina la sua carriera in Parlamento, nei seggi del Movimento sociale, dopo essere stato capo del Sid, il servizio segreto militare, negli anni cruciali della strage di piazza Fontana (1969) e dei tentati golpe Borghese (1970) e Rosa dei venti (1973). E quanti generali e altissimi ufficiali approdano nelle file (e sui seggi parlamentari) del Msi: da Giovanni De Lorenzo (quello del Piano Solo del 1964) all’ammiraglio Gino Birindelli, che divenne anche presidente del partito.


Almirante e Nencioni accolgono Pino Rauti (al centro) all’uscita di san Vittore dopo la scarcerazione il 24 aprile 1972.

È una storia sotterranea che inizia il 18 aprile 1948, quando – rivela Vincenzo Vinciguerra nel suo libro Camerati, addio – “nella sede centrale del Msi campeggiava una mitragliatrice Breda 37, dotata di adeguato munizionamento”. L’arma non “usciva dai depositi clandestini dei Fasci di azione rivoluzionaria o di altre formazioni paramilitari ‘neofasciste’, ma era stata, molto più semplicemente, fornita dall’esercito italiano sulla base dei piani di difesa (e di offesa) previsti per quel giorno”, in caso di vittoria elettorale del Fronte popolare.

Poi giovani missini ben addestrati sono impiegati in “missioni speciali” e “operazioni coperte” durante il periodo del terrorismo altoatesino, “prova generale” della successiva strategia della tensione. Rivela Vinciguerra che il neofascista Tazio Poltronieri partecipa ad azioni in Alto Adige e in Austria dietro esplicito ordine impartito dal segretario del Msi del tempo, Arturo Michelini. Ed Enzo Maria Dantini, mandato dal Sifar (il servizio segreto militare) a piazzare bombe a Innsbruck, riceve il via libera “politico” da Almirante in persona.

Dopo l’esperienza accumulata in Alto Adige, le strutture segrete civili della “guerra non ortodossa” contro il comunismo entrano in azione più volte nel corso di quella che è stata chiamata la strategia della tensione. Uno dei massimi protagonisti è Junio Valerio Borghese, il generale della X Mas passato alla Repubblica di Salò, che poi a capo del Fronte nazionale è il protagonista del tentato golpe dell’8 dicembre 1970. Il principe Borghese è stato dal 1951 al 1953 presidente del Msi.

Armando Degni – si legge nell’inchiesta coordinata da Paolo Giovagnoli sulla strage di Bologna – “è un perfetto neo-fascista, militante contemporaneamente nel Msi di Giorgio Almirante e nella formazione eversiva e terroristica di Ordine nuovo”: nel 1967 “firma su un documento classificato ‘segretissimo’ una dichiarazione d’impegno, ricevendo il mandato di assolvere i compiti militari speciali nell’ambito dell’organizzazione militare speciale dipendente dallo Stato maggiore della Difesa collegata alla Nato”.

Non è un caso isolato. Anche a Milano – secondo la testimonianza di Vinciguerra – i capi del partito Franco Servello e Gastone Nencioni, elementi di spicco del gruppo dirigente nazionale del Msi, sono sempre perfettamente informati delle attività del circolo La Fenice di Giancarlo Rognoni, che opera invece sul fronte illegale e terroristico in sintonia con Ordine nuovo. Nel 1968, alla vigilia della strategia della tensione, i parlamentari missini Servello e Giorgio Pisanò si occupano di reperire denaro per le formazioni di estrema destra. In particolare Servello partecipa a riunioni con industriali dell’area milanese – scrive il giudice Guido Salvini – per convincerli a finanziare i gruppi fascisti, “i soli che potessero salvaguardare i loro interessi anche con sabotaggi da addossare alle sinistre”.

C’è una continua dialettica tra casa visibile e mondo sotterraneo, tra “sopra” e “sotto”, tra Msi e destra eversiva. Lo prova anche la vicenda del settimanale Il Borghese. Foglio della destra moderata e in doppiopetto, è ben lontano dai furori ideologici e dalle fumisterie filosofico-esoteriche della destra radicale. È però un crocevia di scambi sotterranei, è finanziato direttamente dai servizi segreti, che negli anni Settanta – secondo quanto scrivono i magistrati di Bologna – gli passano informazioni, ma anche denaro.

Il suo direttore di allora, Mario Tedeschi, sempre considerato esponente moderato, diventerà poi senatore della Destra nazionale (Msi più monarchici). Eppure a sua volta finanzia segretamente l’estremista Stefano Delle Chiaie. Così i soldi dello Stato, con una rapida triangolazione, arrivano a uno dei massimi leader della destra illegale. Dalle carte dell’ultimo processo sulla strage di Bologna, Tedeschi emerge come uno dei finanziatori degli stragisti, insieme a Licio Gelli e al prefetto degli Affari riservati, Federico Umberto D’Amato.

Ma il gioco di Tedeschi non è un’eccezione. Lo stesso Almirante, per decenni guida indiscussa del Movimento sociale, teorico della “destra in doppiopetto”, gioca in realtà su più tavoli: da una parte ha rapporti con gli uomini di destra dentro l’esercito e gli apparati statuali, dall’altra mantiene contatti con i personaggi dell’ala estrema, anche quando questi sono ufficialmente latitanti e ricercati. Incontra infatti più volte Delle Chiaie. Lo racconta Gaetano Orlando, braccio destro di Carlo Fumagalli (il comandante del gruppo terroristico di destra Mar), ai magistrati di Bologna: Almirante, da segretario del Msi, ha più incontri segreti con il capo di Avanguardia nazionale Stefano Delle Chiaie, nel 1973, a Roma, “per discutere questioni strategiche”.


Il generale Giovanni De Lorenzo

E Pino Rauti? Sempre un po’ dentro e un po’ fuori del Msi. Ne esce per fondare, nel 1957, il Centro studi Ordine nuovo; vi rientra proprio alla vigilia del “temporale” di piazza Fontana, sostenendo, con rara preveggenza, che era tempo di “aprire l’ombrello”. Intanto altri camerati, riuniti sotto la stessa sigla (tolta la dizione Centro studi) e lo stesso simbolo dell’ascia bipenne, realizzano le azioni stragiste a Milano e a Brescia.

Nel maggio 1965 aveva partecipato al convegno all’Hotel Parco dei principi in cui fascisti, militari e servizi segreti avevano teorizzato la “guerra rivoluzionaria”: azioni violente e segrete, “sotto falsa bandiera”, per fermare il comunismo in Italia. Nel 1966 aveva preparato (con Giannettini) il volume Le mani rosse sulle forze armate, commissionato dal generale Aloja. Nel 1968 aveva partecipato, nella Grecia dei Colonnelli, al “viaggio di studio” sulle tecniche d’infiltrazione, insieme a una cinquantina di persone, il fior fiore del personale politico della strategia della tensione (Stefano Delle Chiaie, Mario Merlino, Elio Massagrande, Giulio Maceratini, l’agente Sid Stefano Serpieri, il futuro presidente della Lega nord Franco Rocchetta…).

Al termine della lunga stagione segnata dalla leadership del suo amico Almirante, Rauti del Movimento sociale diventa segretario. Per poi rompere definitivamente con il “traditore” Gianfranco Fini quando questi darà vita ad Alleanza nazionale. Ma anche nei suoi periodi di “esilio” fuori dal Movimento sociale, Rauti non ha mai tagliato il cordone ombelicale con il partito. Lo racconta Vinciguerra: “I gruppi extraparlamentari di destra, da Ordine nuovo di Rauti ad Avanguardia nazionale di Delle Chiaie, hanno sempre mantenuto un rapporto stretto con il partito. Era un gioco delle parti”.

Scrive il pm Giovagnoli che Rauti apparteneva all’Ufficio Z del Sid, quello degli agenti coperti: proprio come Guido Giannettini, primo “agente Z” scoperto durante le indagini sulla strage di piazza Fontana. E riporta la testimonianza di un tenente dei carabinieri, Sergio Bonalumi, che ha dichiarato di avere accompagnato più volte Rauti negli uffici di Forte Braschi, sede del servizio segreto militare. La “comunità politica” da cui Meloni proviene, insomma, è quella che negli anni della guerra segreta triangolava partito visibile, gruppi eversivi e apparati dello Stato.


La manifestazione del 12 marzo 1973 a Milano in cui fu ucciso l’agente Marino.

Un capitolo delicato è quello dei rapporti tra destra missina e massoneria. La linea ufficiale del partito è: assoluta contrarietà alle logge, avversate e disprezzate. Almirante lo dichiara ufficialmente: “L’influenza della massoneria in genere e della P2 in particolare (e mi si consenta di non far differenza tra massoneria e P2) è stata pesantemente negativa. Direi che è il peggior nemico che il mio partito ha avuto”. A dispetto di tanta durezza, molti esponenti di primo piano del Msi sono in segreto iscritti alla P2. Fra questi l’ammiraglio Gino Birindelli, ex presidente del partito (tessera numero 1670), i deputati Giulio Caradonna (2192) e Sandro Saccucci, il senatore Mario Tedeschi (2127), oltre a Vito Miceli (1605).

Anche nei confronti della mafia l’atteggiamento della destra è, fin dai tempi del prefetto Mori, di estraneità completa, di opposizione assoluta. Ma la pratica, nel Paese dei patti sotterranei e delle alleanze inconfessabili, risulta diversa dalla teoria. Così, in nome dell’anticomunismo, nel dopoguerra la destra non ha esitato a chiedere l’aiuto della criminalità organizzata. Per il golpe Borghese – riferiscono numerosi pentiti di mafia – erano pronti a scendere in campo uomini armati di Cosa nostra e oltre un migliaio di calabresi della ’Ndrangheta. I primi avevano il compito di neutralizzare il capo della polizia, Angelo Vicari. I secondi erano stati reclutati da Delle Chiaie.

Addirittura il trapanese Vito Miceli, ex capo del Sid e poi parlamentare del Msi, sarebbe stato vicino, se non addirittura affiliato, a Cosa nostra. Lo sostiene Vincenzo Calcara, mafioso della famiglia di Castelvetrano diventato poi collaboratore di giustizia: “L’onorevole lo conoscevo di fama”, racconta il pentito, “era deputato missino, anni prima era stato nei servizi segreti e i giornali si erano a lungo occupati di lui. Era siciliano e massone, e apparteneva a Cosa nostra”.

Questo è “l’album di famiglia” di Giorgia Meloni. Non è il passato della Storia del Novecento. È il presente della Repubblica che ancora non ha trovato né giustizia, né verità.


Milano, 12 dicembre 1969, strage di piazza Fontana

Fq Millennium, dicembre 2022
To Top