POLITICA

Addio a Bobo Maroni, il “barbaro sognante”

Addio a Bobo Maroni, il “barbaro sognante”

“Maroni, Maroni, arresta Berlusconi”, gridava nel 1994 una parte del corteo milanese del 25 aprile. Roberto Maroni, che se n’è andato ieri a 67 anni dopo aver combattuto la sua ultima battaglia, naturalmente non lo arrestò. Ma quello slogan racconta di come “Bobo”, allora ministro dell’Interno, fosse in quel momento percepito diverso da Berlusconi, che lo aveva portato al governo, e diverso anche da Umberto Bossi che impersonificava la Lega.

La realtà era diversa dalla percezione e Bobo – il leghista che proveniva da Democrazia proletaria e che suonava l’organo Hammond nella band Distretto 51, il politico che mostrava il volto istituzionale e umano del Carroccio – poi sapeva anche parlare alla pancia della Lega. Come quando a Pontida (nel 2008) difese con parole ruvide le ronde padane e il reato appena introdotto di immigrazione clandestina; o come quando (nel 1996) tentò di addentare la caviglia a un agente di polizia mandato a perquisire la sede leghista di via Bellerio e poi, da portavoce del Clp (Comitato di liberazione della Padania), annunciò la costituzione delle Camicie Verdi e la secessione: “La strategia della Lega è quella di ottenere l’indipendenza della Padania”.

All’inizio, c’è l’incontro con Bossi, nel 1979, che gli cambia la vita. Passa dal marxismo-leninismo all’autonomismo. “Umberto della Lega è il papà, io sono la mamma”, ripeteva sornione. Eppure è stato l’unico che è riuscito a far fuori politicamente il capo, dopo che molti capetti leghisti che ci avevano provato erano tutti finiti nell’irrilevanza politica. Bobo fa il colpo di mano quando il Senatur, ormai malato e attorniato da un cattivo cerchio magico famigliare, stava per trascinare la Lega nel vortice degli scandali: il partito si era perso tra i diamanti in Tanzania del tesoriere Francesco Belsito e le lauree in Albania di Renzo Bossi detto il Trota.

Maroni s’inventa allora i “Barbari sognanti” e nel 2012 esibisce in pubblico, a Bergamo, le scope verdi della pulizia e del rinnovamento e riesce a salvare il partito, ibernando Bossi come icona sacra ma senza potere e senza possibilità di fare nuovi danni. Diciotto mesi dopo, deve però consegnare il Carroccio a Matteo Salvini, che mette in soffitta lo slogan di Maroni (“Prima il Nord”) e s’inventa una Lega nazionale. Bobo Maroni era stato il più berlusconiano dei bossiani.

Da ministro dell’Interno aveva firmato il 13 luglio 1994 il “decreto salvaladri” che liberava gli indagati di Tangentopoli. Tre giorni dopo, in un Paese insorto contro il decreto, dichiara, pallidissimo, al Tg3: “Mi hanno ingannato, imbrogliato, mi hanno fatto leggere un testo diverso da quello che poi mi hanno dato da firmare. Il ministro della Giustizia Biondi mi aveva giurato che non sarebbero usciti i tangentisti. Mi sono fidato, ho fatto male”.

Nel 1995 viene fischiato e insultato al congresso straordinario della Lega, al Palatrussardi di Milano, proprio perché considerato troppo berlusconiano, mentre il Senatur aveva deciso di far cadere il governo: “E chi tradisce sarà spazzato via dalla faccia della terra”. Bobo viene salvato da Roberto Calderoli che lo scorta fuori dal Palatrussardi, mentre l’Umberto continua: “Una Lega bis, caro Roberto, sarebbe uno specchietto per le allodole. Il coraggio, se non lo si ha, non lo si può comprare al supermercato”. La mattina dopo Maroni sale su un volo per le Maldive dove rimane due settimane, insieme alla silenziosa e paziente moglie Emilia Macchi.

Torna in scena nei governi Berlusconi due e tre: ministro del Lavoro e delle politiche sociali. Nel 2003 firma la legge Biagi, che introduce forme di lavoro flessibile e precario, “intermittente”, “accessorio”, “occasionale”, “a progetto”. Nel 2008 vara lo “scalone pensionistico”, di cinque anni poi ridotti a tre, che alza l’età pensionabile dai 57 ai 60 anni.

La sua ultima stagione politica, Maroni la vive da presidente della Regione Lombardia, dal 2013 al 2018, facendo approvare (tra l’altro) una riforma della sanità che riesce a peggiorare quella precedente di Roberto Formigoni. Non si ricandida al bis sicuro, nel 2018, forse puntando a una futura poltrona da ministro. Ma le elezioni politiche non vanno come previsto e Berlusconi resta fuori da Palazzo Chigi.

Negli anni seguenti gioca a ipotizzare un “partito del pil”, scrive corsivetti sul Foglio (“Barbari foglianti”), pubblica un thriller (Il Viminale esploderà, scritto con Carlo Brambilla) che fa il verso a un romanzo di Bill Clinton. Poi il male prende il sopravvento e i suoi messaggi garbati su Whatsapp smettono di arrivare.

 

Il Fatto quotidiano, 23 novembre 2022
To Top