SEGRETI

Putiniani d’Italia. Servizi segreti, non ci sono più i dossieraggi di una volta

Putiniani d’Italia. Servizi segreti, non ci sono più i dossieraggi di una volta

Friabili, le dune su cui si incrociano le orme dei passi di giornalisti e agenti segreti. Un giornalista, si sa, per avere una notizia può parlare anche con Belzebù. Ma deve rimanere al servizio dei suoi lettori, non di Belzebù. Non sempre capita, in Italia, dove i giornalisti sono stati spesso a libro paga delle agenzie d’intelligence. E dove altri giornalisti hanno invece dovuto faticare per scoprire e denunciare i dossieraggi dei servizi, confezionati anche con l’aiuto dei loro colleghi.

Chissà dove si colloca, in questa lunga storia italiana, la pagina del Corriere della sera che allinea gli “amici di Putin” in Italia, con tanto di fotine: censiti dai servizi, dal Comitato parlamentare di controllo sui servizi o dai giornalisti che hanno firmato l’articolo? La paternità è in questi giorni oggetto di contesa. Di certo c’è solo che il risultato è un attacco alla libertà delle opinioni, che possono essere giuste, bislacche o sbagliate, ma sono sempre legittime quando non infrangono le leggi.

Era il servizio segreto militare (Sismi) di Nicolò Pollari e Pio Pompa a fare qualcosa di simile, quando compilava lunghi elenchi non già di pericolosi nemici della Repubblica e delle istituzioni, ma di avversari del presidente del Consiglio pro tempore, che allora si chiamava Silvio Berlusconi. Nel suo ufficio di via Nazionale a Roma, frequentato da più d’un giornalista, tra il 2001 e il 2006 Pio Pompa – detto “Shadow”, l’ombra del direttore Pollari – aveva accumulato centinaia di dossier illegali su magistrati, giornalisti, politici, intellettuali, gruppi e associazioni: tutti obiettivi da “disarticolare”, anche con “azioni traumatiche” – lessico Br – in quanto “nemici” del presidente del Consiglio in carica (in quei dossier, c’erano i nomi del direttore e di alcuni giornalisti e collaboratori di questo giornale, tra cui chi scrive).

All’ombra di Pollari e Pompa, lavoravano molti giornalisti italiani che ancora oggi vediamo pontificare sui giornali e nei talk-show. C’era anche chi spiava i colleghi di Repubblica, per spifferare in anticipo i contenuti dei loro articoli all’amico Marco Mancini, allora braccio destro di Pollari. C’era chi, come Renato Farina, nome in codice “Betulla”, faceva finte interviste ai magistrati milanesi Ferdinando Pomarici e Armando Spataro, per informare Pompa (senza risultati anche in questo campo) sullo stato delle indagini sul rapimento Cia dell’imam Abu Omar. Già che c’era, Betulla infangava un giornalista vero, il freelance Enzo Baldoni rapito in Iraq, diffondendo false notizie e falsi dossier.

Altri fascicoli illegali erano in quegli anni costruiti dall’intelligence “privata” di Giuliano Tavaroli, direttore della sicurezza Pirelli-Telecom, che si serviva anche di giornalisti. Ma resta ineguagliata l’orgogliosa rivendicazione di Giuliano Ferrara, di essere stato negli anni Ottanta “informatore prezzolato della Cia”.

È una storia infinita, quella dei dossieraggi italiani. Ed era vanto dei veri giornalisti scoprirli, denunciarli e disinnescarli. A produrre fascicoli – in continuità con il fascismo – ricominciò il Sifar (così si chiamava negli anni Cinquanta e Sessanta il servizio segreto militare) che accumulò 157 mila dossier, di cui 34 mila considerati illegali da una commissione parlamentare d’inchiesta.

A raccontare le schedature e le illegalità del Sifar fu sull’Espresso il giornalista Lino Jannuzzi, che attinse informazioni da fonti interne ai servizi, forse dallo stesso colonnello Renzo Rocca che il 27 giugno 1968 fu trovato morto nel suo ufficio, ucciso da un colpo di pistola alla tempia, poco prima di essere interrogato dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul Piano Solo, una pianificazione che prevedeva l’arresto di centinaia di persone considerate pericolose per il governo democristiano. Il Piano non scattò. Ma era stato preparato nel 1964 dal generale Giovanni De Lorenzo, direttore del Sifar, poi comandante generale dei carabinieri, infine capo di stato maggiore dell’esercito italiano.

Un altro giornalista che rivelò le trame di quegli anni fu Ruggero Zangrandi, cronista di Paese sera e autore di un libro memorabile, Inchiesta sul Sifar. Sull’Europeo, fu Renzo Trionfera a rivelare i contenuti di un dossier scomparso dagli archivi e riguardante nientemeno che il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.

Poi i servizi continuarono ad allevare giornalisti compiacenti e a finanziare agenzie di stampa e strani periodici di cui servirsi per diffondere informazioni tossiche, dall’Eco di Roma all’Agenzia D (diretta da Pino Rauti e Guido Giannettini), dall’Agenzia Repubblica (l’Agir di Lando Dell’Amico) fino a Op di Mino Pecorelli.

Coltivavano amici anche dentro i grandi giornali, come quel Giorgio Zicari del Corriere della sera che nel 1970 non solo è in prima fila ad accusare gli anarchici per la strage di piazza Fontana, ma realizza anche un’“intervista” a Carlo Fumagalli, il capo del gruppo di ultradestra Mar (Movimento di azione rivoluzionaria) che non finisce sul suo giornale, ma negli archivi riservati del Sid (il nuovo nome del Sifar).

Furono i giornalisti che non vollero credere alle veline ufficiali a smontare, pezzo dopo pezzo, le “verità” sulla strage del 12 dicembre 1969 e poi della strategia della tensione, da Marco Nozza (detto “il Pistarolo”) a Camilla Cederna, da Giorgio Bocca a Corrado Stajano.

Vent’anni dopo, imploso il blocco sovietico e finita la “guerra non ortodossa” contro il comunismo, la scena cambia. Altri giornalisti raccontano con scrupolo l’inchiesta Mani pulite, che rivela il sistema italiano della corruzione, dribblando i nuovi dossier che ricominciano a circolare. C’è sempre un sommerso, nella storia italiana. Pronto a riemergere tra il 1992 e il 1994, anni di Mani pulite, leghe del Sud e stragi di mafia (riprende vigore l’Agenzia Repubblica di Dell’Amico, compare una nuova agenzia, Cd Cronache della disinformazione, la sigla “Falange armata” rivendica da linee telefoniche istituzionali stragi che non ha eseguito).

Il tentativo è quello di avvelenare le indagini e la transizione dalla “prima” alla “seconda” Repubblica. Fino a oggi. L’attacco di Putin all’Ucraina sembra aver risvegliato i professionisti della disinformazione. O forse soltanto gli incauti compilatori di liste di proscrizione. (Il Fatto quotidiano, 8 giugno 2022)

Quel misero elenchino dei “putiniani d’Italia”

Non ci sono più i dossieraggi di una volta. Ha ragione Antonio Padellaro, che li ha visti da vicino, quando a confezionare fascicoli illegali era Federico Umberto D’Amato, il prefetto-gourmet degli Affari riservati, la più luciferina delle spie italiane. E i migliori giornali italiani, dall’Espresso all’Europeo, lavoravano per smascherare e denunciare le schedature illegali realizzate dai servizi segreti.

Oggi i giornali rischiano invece di fare da cassa di risonanza a elenchi dalla paternità incerta, a ricerche di bassa qualità e indubbia illegittimità. L’elenchino dei “putiniani d’Italia” rivelato dal Corriere della sera è un compitino scialbo, realizzato su “fonti aperte”, come si dice: ciascuno può farselo in casa con l’aiuto di Google e dei social network.

È proprio vero che la storia si presenta prima come dramma e poi come farsa. Nel clima della Guerra fredda, i servizi italiani (Sifar-Sid-Sismi e Ufficio Affari riservati) hanno prodotto migliaia di dossier. Illegali, certo, perché usati per schedare – contro la Costituzione – gli oppositori dei partiti di governo e per ricattare i loro sostenitori, dentro una guerra per bande, fazioni e correnti.

Erano (purtroppo) dossier efficaci, anche quando si basavano sulla rilevazione di comportamenti sessuali del dossierato o di illegalità da lui commesse da non denunciare alla magistratura ma da tenere “a futura memoria”. Ed erano compilati da una rete di professionisti e di confidenti forgiati nel fuoco dell’anticomunismo e guidati da uomini come il generale Giovanni Di Lorenzo. In un contesto in cui chi sbagliava pagava con la vita, com’è successo al colonnello Renzo Rocca, al giornalista Mino Pecorelli e a tanti altri.

Oggi è farsa: visibile nella bassa qualità dei risultati ottenuti. Ma, prima ancora, nell’impianto della ricerca e nella sua sconclusionata gestione mediatica. È legittimo che i servizi di sicurezza veglino, appunto, sulla sicurezza nazionale e sventino complotti contro la Repubblica. Legittimo, anzi doveroso: è il loro compito istituzionale. Ma allineare i nomi di una decina di blogger, professori, giornalisti che hanno in comune soltanto il fatto di non essere d’accordo, con modalità diverse, con la linea del governo sulla guerra in corso in Ucraina dopo l’attacco di Putin, si risolve in un attacco alla libertà di opinione.

La Costituzione garantisce a ciascuno la libertà di esprimere anche opinioni discutibili, bislacche, perfino palesemente sbagliate. Quella libertà s’arresta soltanto davanti a comportamenti contro la legge. Esiste in Italia una rete filo-russa che attenta alla sicurezza nazionale? Ben venga una ricerca che la sveli, con prove certe e reati individuati, subito comunicati alla magistratura come previsto dalla legge.

Qui siamo invece al dossieraggio minore, alla strizzatina d’occhi per compiacere il governo, forse a una piccola guerra interna a qualcuno dei partiti che lo sostengono (in questa partita: tutti, pur con rilevanti distinguo). Da farsa sono poi le reazioni istituzionali allo scandalo. Il Copasir (il comitato parlamentare che deve controllare l’operato dei servizi di sicurezza) nega ufficialmente di aver lavorato alla lista dei “putiniani d’Italia”. Così anche il Dis, il dipartimento della presidenza del Consiglio che coordina le due agenzie d’intelligence, Aisi e Aise. Si sono inventati tutto i giornalisti del Corriere? Difficile da credere.

Chi ha l’obbligo istituzionale di garantire, in maniera riservata, la sicurezza nazionale deve assicurare i cittadini che non lavora per stilare, sulla base di opinioni non mainstream, bislacche liste di proscrizione “di Stato” (di peso diverso rispetto a eventuali elencazioni giornalistiche). Chi ha il compito di controllare le agenzie d’intelligence (il Copasir) deve rientrare nel suo ruolo istituzionale di controllo. E chi scrive sui giornali deve continuare a servire esclusivamente i lettori. (Il Fatto quotidiano, 10 giugno 2022)

Il Fatto quotidiano, 8 e 10 giugno 2022
To Top