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Bobo Maroni alla corte del re della sanità privata

Bobo Maroni alla corte del re della sanità privata

Altro che sindaco di Varese. Qualche giorno fa nella Lega avevano fatto il suo nome come candidato per diventare primo cittadino della città lombarda, ma Roberto Maroni ha trovato un’occupazione più tranquilla e meglio remunerata: consigliere d’amministrazione degli Istituti clinici Zucchi, una delle strutture sanitarie del gruppo San Donato di Paolo Rotelli. Maroni è stato ministro dell’Interno e del Lavoro e fino al 2018 presidente di Regione Lombardia.

Ora entra nella squadra del primo gruppo italiano della sanità privata. Diciannove tra ospedali e cliniche, più di 5 mila posti letto, 4,3 milioni di pazienti curati ogni anno, 16 mila addetti, più di 1 miliardo e mezzo di ricavi, in buona parte provenienti dai rimborsi pubblici regionali per la sanità accreditata.

Nel gruppo San Donato si troverà in buona compagnia: presidente della holding è Angelino Alfano, l’ex segretario di Silvio Berlusconi poi diventato ministro e parlamentare Ncd; e new entry è Augusta Iannini, la moglie di Bruno Vespa che è stata magistrata a Roma, capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia e poi vicepresidente dell’Autorità garante per la privacy. Iannini entra nel consiglio d’amministrazione della holding e anche in quello dell’Ospedale San Raffaele, fiore all’occhiello del gruppo.

Alfano, Maroni, Iannini: impossibile non notare la bulimia, più politica che manageriale, di Paolo Rotelli, che rimpilza gli organigrammi del suo gruppo con figure che vengono dai partiti e dai ministeri, personalità più adatte a tessere rapporti e a fare lobbismo che non a guidare un grande gruppo ospedaliero.

Del resto, gran parte del fatturato del San Donato proviene dai soldi pubblici, tramite gli accreditamenti che i suoi ospedali hanno ottenuto, a partire dai bei tempi della riforma di Roberto Formigoni che ha aperto il sistema sanitario lombardo ai privati.

Guarda i casi del destino: nella squadretta di esperti che Formigoni chiamò in Regione nel 1995 a scrivere la sua riforma, c’era Giuseppe Rotelli, che allora si presentava come giurista, ma era già padrone di un paio di cliniche (la Città di Pavia e la San Donato) ereditate dal padre Luigi, medico. Poi Giuseppe Rotelli ha messo la sordina alla sua attività di giurista, privilegiando la vocazione imprenditoriale, incrociandola con le sue relazioni politiche e creando l’impero che alla sua morte, nel 2013, ha lasciato al figlio Paolo.

La nomina di Maroni ha oggi il sapore di un premio, o di un ringraziamento: da presidente della Lombardia succeduto a Formigoni, Bobo ha portato a compimento la riforma della sanità lombarda, completando il percorso per equiparare le strutture private a quelle pubbliche.

Formigoni, in alcune recenti interviste, ha sostenuto che Maroni ha fatto di più: “Io ho costruito una sanità di assoluta eccellenza, sia nel campo ospedaliero, sia nel campo della medicina di territorio. Dopo di me è arrivato qualcuno che nessuno cita mai, che ha governato cinque anni e ha cambiato profondamente – e in peggio – la sanità di Formigoni”. Quel “qualcuno” non può che essere Maroni. “La sanità che ho costruito io era molto forte sia sul piano ospedaliero sia sulla medicina di territorio, in particolare i medici di base. Dopo di me è stata fatta una riforma che ha indebolito fortemente la medicina di territorio: proprio quella di cui c’era bisogno per il coronavirus”.

Chissà se sono vere le accuse a Maroni del Celeste, che cerca di scaricare su altri le responsabilità di aver costruito quell’“eccellenza” iper-ospedalizzata, privatizzata e fragilissima nel presidio territoriale che è stata il terreno fertile per il Covid-19 e che ha fatto diventare la Lombardia l’area con più morti e contagi d’Europa. Di certo vero è che Maroni ora entra nella cabina di comando del primo gruppo sanitario privato d’Italia, dopo essere stato il presidente della Regione italiana che in sanità più ha aperto ai privati.

 

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