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Eni, il processo per disastro ambientale in Basilicata

Eni, il processo per disastro ambientale in Basilicata

Verde, il volto di Eni. Green, la svolta promessa dall’amministratore delegato Claudio Descalzi (già imputato di corruzione internazionale a Milano) che cerca la riconferma a Roma, nei palazzi della politica. Nera, però, nerissima, la vicenda per cui Eni è sotto processo in Basilicata. Il 1° aprile riprende a Potenza, ed entra nel vivo dopo le schermaglie procedurali, il dibattimento per il più grave disastro ambientale petrolifero mai accaduto in Italia.

Un fiume di greggio è fuoriuscito dai serbatoi di stoccaggio del Centro Olio della Val d’Agri (Cova) di Viggiano, in Basilicata, inquinando la falda acquifera e 26 mila metri quadrati di territorio.Il pericolo di sversamenti era già stato segnalato anni fa, nel 2012 – invano – dall’allora responsabile dell’impianto, Gianluca Griffa, 38 anni, che oggi non può più parlare: è stato trovato morto in un bosco, in Piemonte, nel 2013. Suicidio.

Prima di morire, Griffa ha scritto un memoriale in cui racconta di aver segnalato ai suoi superiori le perdite di greggio e chiesto un’ispezione alle cisterne. Come risposta, era stato destinato ad altro incarico.
La sua denuncia è stata comunque ripresa dal procuratore di Potenza, Francesco Curcio, per avviare il processo che ha oggi come imputati la società Eni, il responsabile del Cova, Enrico Trovato, successore di Griffa, e altre nove persone, tra cui i componenti del comitato tecnico della Regione Basilicata che avrebbero dovuto controllare l’attività estrattiva.

Accusa: disastro ambientale. Tra l’agosto e il novembre 2016, dalle cisterne dove viene stoccato il petrolio che Eni estrae dai suoi 25 pozzi in Val d’Agri, sono fuoriuscite almeno 400 tonnellate di greggio, che sono andate a inquinare acque e sottosuolo proprio a 2 chilometri dall’invaso del Pertusillo, il lago artificiale che fornisce acqua potabile alla Basilicata e a un pezzo di Puglia, di Calabria e di Campania.

“Acqua a rischio inquinamento”, secondo il blogger lucano Giorgio Santoriello, anima dell’associazione di volontariato ambientale CovaContro. “Le nostre analisi chimiche hanno documentato la presenza di idrocarburi nel lago oltre la soglia consentita. E l’osservazione satellitare ha rilevato una chiazza di idrocarburi nell’invaso. La nostra associazione raccoglie fondi per fare i controlli che la politica locale non vuole fare, perché troppo vicina a Eni”.

Enrico Trovato è stato responsabile del Centro Olio dal 23 settembre 2014 al 31 gennaio 2017. La Procura di Potenza ha chiesto per lui gli arresti domiciliari. Ora per l’accusa di disastro ambientale rischia una pena fino a 5 anni di reclusione. “Ma anche i manager Eni sopra di lui sapevano che gli impianti non erano sicuri”, dice l’avvocato Giovanna Bellizzi, legale di parte civile nel processo di Potenza, in rappresentanza di un folto gruppo di cittadini di Viggiano. “Il memoriale scritto dall’ingegner Griffa prima di morire segnala che i serbatoi dove affluisce il petrolio sono senza doppio fondo. E tutti gli impianti, in funzione dagli anni Novanta, sono vecchi e a rischio”.

Attiva in Val d’Agri è anche la onlus Re:common, che dal 2017 compie il monitoraggio della situazione ambientale, in rete con le associazioni locali. Secondo l’ipotesi d’accusa, Trovato sapeva delle perdite dei serbatoi di stoccaggio, segnalate già dal 2012, ma non ha detto né fatto nulla. “Una precisa strategia condivisa dai vertici Eni di Milano per nascondere gravi problemi”, ha scritto la giudice delle indagini preliminari Ida Iura.

Griffa era stato “volutamente emarginato” dai vertici Eni, perché “aveva appuntato che, dei quattro serbatoi di stoccaggio presenti al Centro Olio di Viggiano, due avevano mostrato problemi”. E “con le sue paure sul possibile stato degli altri due serbatoi, creava ansia in chi si occupava del sistema”.

C’è un altro processo che riguarda Eni in corso in Basilicata. È il cosiddetto “Petrolgate”, con 67 imputati, per il reato di illecito smaltimento. Secondo l’accusa, spiega l’avvocato Bellizzi, “Eni classificava in modo sbagliato i rifiuti prodotti dall’estrazione petrolifera, facendoli confluire in impianti di smaltimento non idonei al loro trattamento”.

Eni si dice “convinta di poter dimostrare l’infondatezza delle accuse formulate” e spiega che “le analisi sull’olio recuperato dopo la scoperta di uno sversamento nel febbraio 2017 dicono che la perdita deriva da un solo serbatoio del Cova e che risale ad alcuni mesi dal suo rinvenimento”. Nega che “siano stati interessati altri serbatoi. Lo sversamento di inizio 2017 è stato un incidente che non abbiamo affatto sottovalutato. Dal momento in cui è stato accertato, immediatamente Eni ha attuato tutte le misure per mettere in condizioni di sicurezza e salvaguardia ambientale l’intera area industriale interessata”.

Il Fatto quotidiano, 4 marzo 2020
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