GIUSTIZIA

Cafiero De Raho: “La ’ndrangheta 2.0 usa anche Instagram per non farsi intercettare”

Cafiero De Raho: “La ’ndrangheta 2.0 usa anche Instagram per non farsi intercettare”

L’operazione di ieri, 19 dicembre 2019, contro la ’ndrangheta è valutata da Federico Cafiero De Raho, procuratore nazionale antimafia, come “un’operazione di grandissima importanza che dimostra, da una parte, qual è la forza di contrasto degli organismi di polizia giudiziaria sul territorio calabrese; dall’altra, l’ampiezza della presenza delle cosche in Calabria”.

Oltre 330 arresti di affiliati e fiancheggiatori delle cosche di Vibo Valentia.

Un numero così rilevante di arresti evidenzia quanto sia ampia la presenza mafiosa nel territorio calabrese e quanto sia difficile per i cittadini per bene non essere infangati, coinvolti e magari addirittura risucchiati nel vortice ’ndranghetista.

Tra gli arrestati e gli indagati ci sono professionisti, massoni, politici.

Questa operazione dimostra come la ’ndrangheta abbia la capacità di attirare professionisti, la componente che le ha permesso di fare un salto di qualità e di passare dalle cosche dalle regole quasi rudimentali, basate sui legami di sangue, a un’organizzazione che ha saputo esplodere nel mondo economico e ha saputo stringere rapporti anche con la politica. Ha saputo muoversi con un’intelligenza particolarmente raffinata, con scelte che la sottraessero per anni all’attenzione giudiziaria. Nei primi anni Novanta, la ’ndrangheta era stata coinvolta dai Corleonesi di Cosa nostra nella strategia stragista di guerra allo Stato. Nel 1994 tutti i capi ’ndranghetisti riuniti a Nicotra avevano però deciso di sospendere la loro partecipazione: da ora basta, avevano deciso, noi stiamo bene con le istituzioni, basta guerra allo Stato. Questo è il segnale chiaro di quale sia la strategia della ’ndrangheta, che si muove per infiltrarsi, attraverso la massoneria, nel mondo dell’economia, della borghesia, e per raggiungere anche la politica.

Oggi qualche boss mafioso cerca di alleviare la propria situazione carceraria dichiarandosi “dissociato”, ma senza collaborare con la giustizia.

La dissociazione è stata un fenomeno che si è manifestato tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta soprattutto in alcuni processi di camorra. È stata una mina vagante, in cui i boss si proclamavano dissociati senza dimostrare però una vera rottura con il mondo mafioso d’appartenenza. In un caso, un dissociato, uscito dal carcere, è tornato a fare il capo del suo gruppo mafioso. Oggi torna lo spettro della dissociazione, vuota e impalpabile. È chiaro che la dissociazione non può avere alcun riconoscimento, se non è accompagnata dalla dimostrazione di aver davvero rotto con il mondo mafioso.

Ma la recente sentenza della Corte costituzionale ha stabilito che la collaborazione con la giustizia non è più l’unico requisito che possa superare l’ergastolo ostativo e aprire alla concessione di permessi premio.

Se la collaborazione non è più l’unica condizione, ora bisogna dunque individuare quali siano i comportamenti che dimostrano la reale frattura con l’organizzazione mafiosa. La decisione non è più automatica, ma rimessa alla valutazione del giudice. Ma dev’essere chiaro che la dissociazione non basta, così come non basta la buona condotta in carcere: il mafioso è uno che osserva le regole delle istituzioni, che considera interlocutori da piegare ai suoi interessi. È necessario dimostrare che si è davvero rotto il vincolo con l’organizzazione mafiosa. Come? Al momento non siamo in grado di indicare le modalità concrete.

Le nuove tecnologie di comunicazioni, come il G5, possono diventare un aiuto alle organizzazioni criminali? Come pure Facebook, Whatsapp e Instagram, che non sono intercettabili.

Il pericolo è concreto. Lo stiamo affrontando insieme, la Direzione nazionale antimafia, le polizie, i servizi di sicurezza. Perché i canali non intercettabili possono essere usati dalle organizzazioni mafiose, ma anche dai gruppi terroristici. C’è un’iniziativa comune anche delle Procure nazionali italiana, francese, olandese, tedesca, che hanno coinvolto il Parlamento europeo e la commissione parlamentare europea sulla Giustizia, per chiedere ai gestori di telefonia e di servizi internet la possibilità di controllo dei sistemi di comunicazione, per rendere possibili le intercettazioni quando richieste per motivi di mafia e terrorismo. È un problema che abbiamo posto a livello europeo.

La riforma della prescrizione, con la sua interruzione dopo la sentenza di primo grado, è un aiuto anche al contrasto alla criminalità organizzata?

Sì. La prescrizione comunque è un problema. La mafia si infiltra nei vari settori e si rafforza laddove la giustizia non riesce ad esercitare la propria giurisdizione, laddove vi sono sacche di illegalità. Le mafie intervengono a occupare gli spazi che sarebbero propri della giustizia. Pensate a un cittadino che non riesce dopo anni a vedere riconosciuti i propri diritti, e si affida allora alla giustizia parallela, quella illegale, quella mafiosa. Forse il primo compito della politica dovrebbe essere quello di abbreviare i tempi dei processi dando le risorse necessarie alla macchina della giustizia. Spesso si afferma che c’è un grande arretrato, facendo intendere che è colpa dei giudici. Ma le rilevazioni comparate con gli altri Paesi europei ci dicono che i giudici italiani sono quelli che producono più sentenze. E allora forse il numero dei giudici non è sufficiente. Bisogna dunque intervenire sul processo, renderlo più veloce, dare più risorse alla giustizia e aumentare anche il numero dei giudici. Resa più veloce la giustizia, la prescrizione può restare interrotta con la sentenza di primo grado. Il processo deve essere celebrato e non deve essere ostacolato. Pensare a una prescrizione interrotta dopo il primo grado è un passo in avanti.

Il Fatto quotidiano, 20 dicembre 2019
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