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Francesco Micheli. La borghesia è morta

Francesco Micheli. La borghesia è morta

Francesco Micheli è uno dei più noti finanzieri italiani. Ha realizzato la prima opa ostile alla Borsa di Milano, quando nel 1985 scalò la Bi-Invest di Carlo Bonomi. Ha ritentato il colpo, con successo, l’anno dopo con la Fondiaria. E Gianni Agnelli sentenziò: “Bi-Invest humanum, Fondiaria diabolicum”. Poi ha rilanciato Finarte, per mettere insieme soldi e cultura diventando anche la cassaforte del mercato dell’arte. Ha lanciato Sviluppo Finanziaria che in breve divenne una delle prime società di asset management, cedendola poi a Ing Bank che la trasformò in Ing Direct. E poi ha inventato, assieme a Silvio Scaglia, eBiscom avviando l’operazione Fastweb e creando la prima compagnia telefonica in Italia alternativa a Telecom. Nel 2003 ha lanciato, insieme a Umberto Veronesi, Genextra, un veicolo finanziario che investe in aziende biotech che ricercano terapie innovative. Ma più che finanziere, Micheli si sente musicista. Il padre era un compositore e insegnante del Conservatorio, la madre una sua allieva. Ama il pianoforte, suona musica classica e jazz, ha promosso assieme a Luciano Berio e Maurizio Pollini un grande concorso internazionale pianistico in nome di suo padre Umberto. Ha ideato e diretto manifestazioni come MiTo, un unico palcoscenico tra Milano e Torino, e oggi siede nel Consiglio d’Amministrazione del Teatro alla Scala, della Filarmonica della Scala e del Fai. Apre spesso la sua casa, con cene e incontri in cui vengono presentati giovani musicisti, autori di libri, o, più raramente, politici. Il suo è diventato un salotto colto e trasversale della Milano che oltre ai soldi coltiva idee.

Dottor Micheli, nel suo salotto passa la buona borghesia milanese. La borghesia oggi è tornata classe orgogliosa di sé, ma anche oggetto di disprezzo da parte del “popolo” che si oppone alle “élites”.

La borghesia in Italia è morta. È morta in un momento preciso: nel 1962, quando viene nazionalizzata l’energia elettrica. L’idea era stata della sinistra politica, dei socialisti e soprattutto dei repubblicani di Ugo La Malfa. Ma venne realizzata in maniera pessima: a incassare grandi risarcimenti dello Stato, circa 1.500 miliardi di lire di allora, una cifra record, furono i grandi capi della Edison come Giorgio Valerio, mentre la moltitudine degli azionisti fu liquidata con obbligazioni valutate sulla base dei minimi di borsa degli ultimi tre anni, negativamente influenzati dalla campagna di terrorismo economico sostenuta allora da La Notte di Nino Nutrizio. I titoli elettrici erano considerati più solidi dei titoli di Stato, tanto che anche i giudici tutelari dei minori li indicavano come la forma più sicura per proteggere i beni assegnati ai minori loro affidati. Ma alla fine gli azionisti si ritrovarono con in mano un pugno di mosche.

Lei dice che la buona borghesia restò vittima della nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ma intanto frodavano il fisco portando i soldi in Svizzera. A Milano per questa operazione usava un professionista che divenne famoso, Michele Sindona.

Sindona era uno dei tanti professionisti che aiutavano la borghesia a esportare i capitali all’estero. Le destinazioni erano due: la Svizzera o il Vaticano. Nel primo caso i costi erano dell’1 o dell’1 e mezzo per cento del capitale, nel secondo il doppio: ma nel prezzo pagato da chi li portava in Vaticano era compresa anche l’assoluzione per il peccato commesso. Costava il doppio, ma assicurava il Paradiso. Bisogna ricordare comunque che le banche svizzere erano allora istituti di modestissime capacità gestionali. Solo il cambio lira/franco svizzero, favorevole, riuscì ad attenuare le perdite di chi aveva messo i suoi soldi oltre confine e li aveva investiti in franchi.

In quegli anni nacquero grandi ricchezze, spesso sconosciute al fisco italiano.

Allora funzionava l’ascensore sociale. C’era chi cresceva dai Martinitt, l’istituto milanese degli orfani, e poi creava un impero. Come il vecchio Angelo Rizzoli, che fondò la casa editrice di tanti giornali e riviste. Come Leonardo Del Vecchio, che diede vita a Luxottica. Oggi l’ascensore sociale si è inceppato. Scende, ma non sale. È uno dei grandi drammi dei giovani oggi in questo Paese, che si aggiunge a quello cui alludeva lo scrittore e pittore Savinio quando diceva: “L’arcangelo mediocre vola basso”. Ma erano tempi ben migliori di quelli di oggi!

Ai tempi la contrapposizione era tra borghesia e proletariato. Oggi tra “popolo” ed “élite”.

Il sociologo Giuseppe De Rita parla di “cetomedizzazione”, riduzione della borghesia a ceto medio. Io direi addirittura “plebeizzazione”, riduzione a plebe. La borghesia non esiste più, c’è una pandemia nel mondo che è diffusa su tutto il globo, nell’Europa dei “populismi” come nell’America di Trump. C’è un ceto medio sofferente che rialza la testa e fa una nuova rivoluzione globale. L’opposto di quello che succede in Cina che gode della forza di una classe media record per dimensioni e crescita economica.

Rivolta di “popolo” contro il “potere”.

È ribellione contro le élites, ribellione contro la cultura, ribellione contro chi sa. È l’elogio dell’improvvisazione di chi “nasce già imparato”. È un’onda che nasce a volte da sani principi, ma finisce nel livore contro chi ha competenze. Lo si taccia di essere “radical chic”, espressione peraltro sempre in bocca ai neofascisti e ai neonazisti. Come un tempo si tacciava di essere “fascista” chiunque avesse un’idea diversa. E prevale il “grandefratellismo”. L’apparire è diventato più importante che l’essere: vince la “selfite” acuta, sindrome nevrotica con tratti ossessivi che spinge a fare selfies di continuo e a essere presenti a più non posso su tutti i social network, a voler far sapere a tutti dove sei, chi baci, cosa mangi… Così nascono cyberbullismo e porno-revenge. Tutto questo è esattamente l’opposto della borghesia ideale che era nata nell’Europa del Nord agli inizi del Settecento. Nel 1993 Céline ricorda che col taglio della testa di Luigi XVI scaturì una nuova sensazione: l’uguaglianza accanto a liberté e fraternité.

Andiamo indietro nel tempo, in Olanda, in Inghilterra?

Andiamo a Pierre Bayle, ai pensée sur la comète, alla modernità come ragione de la critique, al “secolo d’oro” olandese, alla tolleranza di Voltaire che si oppone al potere assoluto dei re, alla religione, alla Chiesa. Andiamo a “Le bal au moulin de la Galette”, alla borghesia spensierata dipinta da Renoir. La parola borghesia viene da borgo: indica i commercianti che stavano nel borgo, fuori dal castello, ma con l’aspirazione di diventare importanti ed entrare nella fortezza. Lavorano, crescono, si arricchiscono e vogliono nobilitarsi: ma proprio con la cultura. Raccolgono anche, forse per meglio nobilitarsi, grandi collezioni d’arte.

La borghesia italiana però nasce mutilata: in Italia non c’è rivoluzione protestante, dicono gli studiosi, dunque non c’è rivoluzione borghese.

In Italia la borghesia è quella messa in scena da Goldoni: una borghesia che deve trovare un accordo con la nobiltà, un mondo del “volemose bene” e sempre con il lieto fine. Ma non dimentichiamo che l’Italia ha anche Verri, Beccaria, Parini, Cattaneo, Manzoni. I teatri nascono nel Settecento per i principi, per i nobili. Non essendoci un Paese unito, in Italia le corti sono tante e tanti sono i teatri. Ma poi è la borghesia a farli vivere.

Anche lei ha fatto un cammino, non è nato gran borghese.

Io vengo dal ceto medio, mio padre era un compositore, docente al Conservatorio di Milano, mia madre era una sua allieva. Io sono cresciuto in un mondo colto, ma di classe media, senza grandi ricchezze alle spalle accumulate in generazioni. Mia madre, che era una “signorina di buona famiglia” che studiava pianoforte come si usava allora, fece quello si faceva in quegli anni: mi spingeva a crescere attraverso la cultura. Mi fece studiare al Collegio San Carlo, che allora era la scuola estremamente elitaria della borghesia milanese. Io sono stato fortunato, perché a scuola ho conosciuto i rampolli delle grandi famiglie milanesi e del capitalismo italiano che allora era molto potente. D’altra parte, ho avuto quello che la borghesia ideale del Settecento predicava, cioè avere un mio bagaglio di cultura, fatto di crome e biscrome, ma anche di opere d’arte, di Dante e dei lirici greci di cui studiavamo a memoria i versi. Mio zio, che stava a Parma, nell’Oltretorrente, la parte popolare della città, si vantava di avere la più grande collezione di opere d’arte al mondo: aveva tappezzato tutte le pareti della sua casa, ma proprio tutte, di ritagli di giornali in cui erano riprodotte dalla Gioconda a tutti i più grandi dipinti della storia. Io sono nato in quel mondo lì. Lui saliva su una sedia di paglia in cucina e mi cantava una romanza. Ricordo il suo gargarozzo che tremava negli acuti.

Poi come maestro ha avuto Aldo Ravelli, che sapeva tutto della Borsa.

Avevo conosciuto suo figlio al liceo, al San Carlo. Ebbi l’opportunità di lavorare con lui. Era uno straordinario operatore di Borsa, uomo di sinistra, molto amico di Ugo La Malfa. La sua fortuna iniziò nel campo di prigionia di Mauthausen: parlando in “ospiatese”, che era il dialetto del suo paese, riuscì a corrompere un kapò e a salvare molti ricchi ebrei prigionieri che poi, nel dopoguerra, gli affidarono i loro averi. Per me lavorare con Ravelli fu una grande esperienza: a me, se mi si pungeva un braccio, uscivano crome e biscrome, ed ero invece finito in un mondo fatto di titoli e listini e valute, ma mi ci abituai subito.

Ha imparato in fretta.

Certo, inizio a lavorare in Borsa nel 1960. La lascio nel 1969 perché non ne potevo più di quel mestiere, ma intanto avevo raggiunto la pace dei sensi sul piano economico. Passo dall’altra parte del tavolo, lavoro all’Imi a Roma, poi torno a Milano a partecipare, con Cefis, Corsi e Cuccia, alla battaglia contro Sindona sulla Bastogi che vincemmo. Nel 1985 faccio la scalata alla Bi-Invest che creò scandalo, stupore e meraviglia e fu una scossa terribile nel mondo capitalistico italiano di allora. Tutti sapevano che prima o poi qualcuno l’avrebbe fatta, ma quando fu fatta tutti si stupirono. Il vecchio Carlo Bonomi a Milano non era tanto considerato e molto indebitato. Quando c’erano le riunioni in Mediobanca, Enrico Cuccia aspettava che uscisse, poi diceva: “Ecco, adesso cominciamo a lavorare”. Ben diverso dalla sua prole che oggi lavora con grande successo a Londra. Poi feci il bis con la Fondiaria e sì, Gianni Agnelli disse: “Bi-Invest humanum, Fondiaria diabolicum”. Questa volta fu un colpo per Cuccia, che considerava Fondiaria il pascolo riservato per la sua Mediobanca.

Lei partecipò anche all’ultima cena in Italia di Roberto Calvi, che poi andò a Londra dove trovò la morte, sotto il ponte dei Frati neri.  

Fu il 9 giugno 1982. Ore 21, cena di lavoro nella foresteria del Banco Ambrosiano, in via Clerici. Presenti, oltre a me, il finanziere Florio Fiorini e l’uomo d’affari austriaco Karl Kahane, Calvi e il suo direttore generale Roberto Rosone che poco dopo fu sparato da un boss della banda della Magliana. Ricordo quando mi mostrò la sua borsa da lavoro trapassata dal proiettile che lo ferì a una gamba. Parliamo in francese. I due stranieri offrono 200 milioni di dollari per l’intero sistema estero dell’Ambrosiano. Calvi sa di aver bisogno di una cifra sei volte più alta per salvarsi. All’improvviso, verso le 23, si alza per correre a Linate perché la nebbia rischiava di bloccarlo nel suo volo per Roma. Kahane è sorpreso per quella sparizione, mi chiede che cosa succede e io gli rispondo: “Il est disparu comme le diable vers l’enfer”.

Poi ha inventato Finarte. Soldi e quadri.

Casa d’aste leader in Italia e, separata, una nuova finanziaria che operava sul mercato dell’arte. Poi creai Sviluppo Finanziaria che, in previsione della crisi che sarebbe arrivata, cedetti rapidamente agli olandesi di Ing, che la utilizzarono per mettere le radici in Italia con la Ing Direct, quella del conto arancio. La mia sede era in via Manzoni, nello stesso palazzo del Poldi Pezzoli. La sciccheria era che la mia segretaria, all’arrivo degli ospiti, dava loro il biglietto del museo dicendo: “La sala d’attesa è il Poldi Pezzoli”. Poi e-Biscom, Fastweb. E, tanti anni prima, la Città del Sole, catena di bei giocattoli tradizionali e di design che avevo fondato con mio cognato Carlo Basso per contrastare la diffusione dei giocattoli meccanici che venivano dall’oriente. Io mediamente ogni sette anni ho cambiato mestiere.

Oggi il suo business principale è Genextra.

Sì. Umberto Veronesi nel 2000 mi disse: “Tu devi assolutamente occuparti di genomica, è il business del futuro. Possiamo fare ricerca per produrre in futuro molecole che possono allungare la vita o curare malattie gravissime”. Ma allora ero straimpegnato con Fastweb e me ne occupai solo tre anni dopo, quando lasciai la società non condividendo le politiche di sviluppo. Oggi abbiamo già sul mercato un prodotto nato dalle ricerche Genextra. E siamo in testa a tutti nella ricerca di una molecola contro la cosiddetta malattia del “fegato grasso” per la quale non esiste una cura radicale. In questi anni ho imparato che non bisogna mai nascere drosofile, né salmoni. I salmoni sono mangiati in tutti i modi in tutto il mondo. Le drosofile, che poi sono i moscerini del vino, sono gli animali più usati in tanti esperimenti nei laboratori di tutto il globo.

Non ha mai dimenticato il suo primo amore, la musica.

Nel 1994 ho lanciato un grande concorso pianistico internazionale con in giuria Berio e Pollini e i più grandi musicisti dell’epoca. Poi ho inventato MiTo che ebbe un grande successo, tipo i Proms di Londra, inondando di musica la macroarea tra Milano e Torino. E che lasciai nel 2015 al massimo del successo a causa dei dissidi col mondo politico di allora. Oggi in consiglio di amministrazione seguo da vicino il Teatro alla Scala, che amo sopra ogni cosa, facendo di tutto per riportarlo alla gloria del passato.

Netto nel bloccare l’ingresso in cda della Scala al principe saudita.

Certo, seguito da tutto il consiglio. Nulla in contrario a portare spettacoli in tournée in Arabia Saudita dove fino a qualche anno fa pare la musica fosse proibita. Contrario a come è stata gestita l’operazione senza sottoporla in anticipo all’approvazione del consiglio di amministrazione, se non mesi dopo averla convenuta. La Scala fece già negli anni Sessanta accordi bilaterali con l’Urss, decisi dai governi, ma il Brežnev di allora non fece mai parte del cda. Parigi riceve dagli Emirati Arabi 1 miliardo per il Louvre aperto ad Abu Dhabi, ma non ha concesso alcun posto in consiglio. La Scala è il Louvre della musica e la primogenitura, se si vende, la si deve vendere molto cara, e senza cedimenti sulla governance.

Un po’ di buona borghesia milanese lei l’accoglie a casa sua o nel suo auditorium, chiamato “Sala dell’Ermellino”, per serate in cui si cena e si discute di musica, di cultura, di libri. E anche di politica.

Sono contento di offrire agli amici un bel clima in cui ascoltare musica non da un telefonino, ma da un pianoforte, il nuovo Bösendorfer 280 da gran concerto, che ritengo il miglior strumento di oggi. Un po’ come si faceva nelle accademie rinascimentali, in questo caso nella zona ove Leonardo da Vinci teneva bottega mentre Josquin Desprez allevava i cantori del Duomo. A volte si parla anche di politica, è vero. In politica, naturalmente, io ho le mie idee, ma ho il piacere di far dialogare chi è invitato di volta in volta, e di condividere questo con gli amici. Anche perché la regola, non solo nella politica, non può che essere quella di giocare “con le carte che si hanno in mano”: copyright Enrico Cuccia.

Fq Millennium , aprile 2019
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