GIUSTIZIA

Cesare Battisti, il rapinatore che scoprì la lotta armata

Cesare Battisti, il rapinatore che scoprì la lotta armata

La storia di sangue di Cesare Battisti inizia il 22 gennaio 1979, quando un gruppo di rapinatori comuni, niente a che fare con la politica e la lotta armata, fa irruzione al “Transatlantico”, vecchio ristorante milanese di Porta Venezia oggi rimpiazzato dal “Panino giusto”. Tra i clienti seduti ai tavoli c’è un gioielliere, Pierluigi Torregiani, che reagisce: è armato, spara. Bilancio: due morti, un bandito e un cliente, e due feriti, Torregiani e un altro cliente del ristorante.

Un mese dopo, il 16 febbraio, avviene un’azione di lotta armata che vuole essere la risposta alla sparatoria del “Transatlantico”: un commando di terroristi entra nella gioielleria di Torregiani e lo ammazza; il figlio, ferito da un colpo di pistola esploso dal padre per difesa, rimane paralizzato a vita. L’azione è rivendicata con un volantino dai Pac, Proletari armati per il comunismo, che quasi in contemporanea ammazzano vicino a Venezia anche il macellaio Lino Sabbadin, che in precedenza aveva anch’egli sparato a un rapinatore. I due sono stati puniti, spiegano i Pac, perché avevano fatto fuoco su proletari che volevano riappropriarsi di quanto era stato loro tolto dalla società del capitale.

Chi sono i Pac? Avevano cominciato la loro mattanza il 6 giugno 1978, ammazzando a Udine il maresciallo della polizia penitenziaria Antonio Santoro. La concluderanno il 19 aprile 1979 sparando a Milano all’agente della Digos Andrea Campagna. In mezzo, azioni armate, ferimenti, “espropri proletari”, rapine. Storia sanguinosa ma breve, perché durante l’assalto alla gioielleria di Torregiani, un automobilista vede gli assassini fuggire in macchina e li insegue; assiste così al “cambio auto”, quando i terroristi abbandonano il veicolo che avevano rubato per l’azione e trasbordano su un’altra vettura “pulita”. Il testimone si segna la targa e poi telefona alla polizia.

Per i Pac è l’inizio della fine. Molti militanti vengono individuati e arrestati. Alcuni parlano. Ma si scatena subito una pesante campagna di stampa: secondo familiari, compagni e avvocati degli arrestati, le testimonianze sarebbero state estorte con la tortura. Repubblica scrive che a Milano il clima è “da lontano paese sudamericano”. Il manifesto titola così un articolo su uno degli arrestati: “Per farlo confessare, la Digos lo ha castrato”. A giugno 1979 è arrestato anche Cesare Battisti.

Era un criminale comune, nato a Cisterna di Latina nel 1954, finito in carcere la prima volta a 18 anni per rapina e tornato in cella altre volte, per un sequestro di persona, poi per l’aggressione a un militare. Nel carcere di Udine aveva conosciuto un leader dei Pac, Arrigo Cavallina, e si era “politicizzato”. Nel 1981 la sua prima condanna per attività eversiva: 13 anni e 5 mesi per banda armata e possesso di armi da guerra. Ma quell’anno Battisti evade dal carcere di Frosinone e fugge a Parigi, poi in Messico.

Torna in Francia nel 1990, diventa scrittore di libri gialli ed entra a far parte della comunità di rifugiati italiani protetti in Francia dalla cosiddetta “dottrina Mitterrand” e coccolati da una parte degli intellettuali francesi, da Bernard-Henri Lévy a Daniel Pennac, convinti che i terroristi italiani siano dei martiri della libertà.

È la giornalista francese Marcelle Padovani a puntualizzare che il presidente Mitterrand, da lei intervistato, aveva precisato che l’asilo politico in Francia poteva essere concesso ai latitanti italiani a tre condizioni: che non avessero commesso delitti di sangue, che la loro condanna non fosse definitiva e che si fossero impegnati a non commettere reati in Francia. Evidente che almeno le prime due condizioni nel caso di Cesare Battisti non ricorrevano. Nel frattempo era stato infatti condannato definitivamente per quattro omicidi, tra cui quello di Torregiani.

Alla poderosa campagna pro-Battisti in Francia rispondono Barbara Spinelli e il magistrato italiano Armando Spataro, che in un articolo su Le Monde ricorda che Battisti è stato processato in Italia con tutte le garanzie e che, dei quattro omicidi per cui è stato condannato, due volte ha sparato personalmente alle vittime (Santoro e Campagna), una volta ha svolto ruoli di copertura armata (Sabbadin) e nell’altra (Torregiani) ha partecipato alla deliberazione dell’assassinio, andando personalmente a compiere, in contemporanea, l’omicidio Sabbadin. Arrestato a Parigi nel 2004, i giudici francesi concedono l’estradizione in Italia, ma solo dopo averlo messo in libertà provvisoria. Il giallista si dà alla latitanza. America latina. Fino al marzo 2007, quando viene arrestato a Copacabana, in Brasile.

Perfino la Corte di Strasburgo nel 2006 aveva respinto il suo ricorso contro la giustizia italiana, ma il Brasile di Lula rifiuta di estradarlo con la motivazione che in patria sarebbe sottoposto a persecuzione per le sue idee politiche. Arresti, liberazioni, fughe. Tramontata la stella di Lula, Battisti scappa di nuovo. Fino all’ultimo fermo, in Bolivia, e al suo ritorno in Italia.

Il Fatto quotidiano, 14 gennaio 2019
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