SEGRETI

La vera storia di Vittorio Emanuele di Savoia, italiano offshore

La vera storia di Vittorio Emanuele di Savoia, italiano offshore Un momento del processo a carico di Vittorio Emanuele di Savoia accusato di omicidio volontario del giovane tedesco Dirk Hamer, Parigi, 1991. ANSA

È tornato in Italia Vittorio Emanuele III. Nel dicembre 2017, con un aereo di Stato, sono state riportate in patria le spoglie del re che mise il Paese nelle mani di un dittatore, lo spedì in guerre coloniali feroci, accettò l’alleanza con il nazismo, firmò leggi razziste e antisemite, lasciò portar via migliaia di cittadini italiani ebrei, abbandonò centinaia di migliaia di soldati nelle mani dei nazisti e infine scappò con ignominia. Una dinastia che poi non ha smentito se stessa, passando semmai dalla tragedia alla farsa, fino al principe Emanuele Filiberto che balla con le stelle in tv. Qui, per non dimenticare, ricordiamo vita e miracoli di Vittorio Emanuele di Savoia, erede dell’ultimo re d’Italia, pretendente al trono, italiano offshore, affarista e piduista. (È un’inchiesta comparsa sul settimanale “Diario” e poi pubblicata, ampliata, nel volume “Campioni d’Italia”, Marco Tropea editore, Milano 2002).

Torna? Non torna? È stato per anni un tormentone, un serial con sempre nuove puntate, un appuntamento fisso che periodicamente tornava a impegnare molto seriamente giornali, politici e opinionisti. Come se il paese non avesse altri problemi che il rientro in Italia di Vittorio Emanuele e famiglia. Ogni volta si riproponeva (sempre più autorevolmente) l’attualità del ritorno. E ogni volta si tornava a ricordare (sempre più flebilmente) gli impedimenti al rientro: la norma transitoria della Costituzione; e le colpe storiche, la non brillante storia di una dinastia che ha consegnato l’Italia al fascismo, che ha firmato le leggi razziali, che dopo l’8 settembre ha tagliato la corda lasciando il paese al suo destino…

C’è un revisionismo “grande” – è la moda del momento – cifra culturale di tempi in cui, con diverse gradazioni di competenza e di spudoratezza, si prova a riscrivere la storia: il fascismo, l’antifascismo, la Shoah, la guerra partigiana, i “ragazzi di Salò”; e poi via, a ritroso, il Risorgimento, Pio IX, Garibaldi, i Borboni… C’è poi un revisionismo “piccolo”, in cui la strumentalità politica è (perfino) più scoperta, che tenta la riscrittura del passato prossimo: le stragi italiane, il ruolo dei missini, le attività delle logge massoniche segrete, la corruzione dei partiti, i rapporti tra politica e mafia… Uno dei temi a cui il revisionismo “piccolo” si è più applicato (contando in verità, più che su argomenti storici o politici, sulla perdita di memoria) è il ritorno dei Savoia. I pochi oppositori rimasti, pochissimi ormai anche a sinistra, continuavano a ricordare il passato remoto di una brutta storia.

Nessuno ricorda mai la storia presente, il passato prossimo, molto prossimo, del signor Vittorio Emanuele di Savoia, uomo d’affari. In questa veste – che poi è l’unica che ha davvero rivestito – Vittorio Emanuele in Italia è già rientrato negli anni sessanta. Anzi, non ne è mai uscito. Fa parte a pieno titolo della storia recente del Paese: quella storia italiana, invisibile e sotterranea, che ha a che fare con lobby riservate, logge segrete, aristocrazie occulte impegnate in affari internazionali, spesso sul crinale tra legalità e illegalità. Eccola, dunque, la vera storia di Vittorio Emanuele di Savoia, erede al trono d’Italia, piduista e trafficante d’armi.

Il playboy che colleziona conchiglie

Fu erede bambino di una casata senza regno, poi playboy non brillantissimo e amante di fuoriserie (con attitudine a uscire di strada), poi ancora imputato d’omicidio con ai polsi le manette della Gendarmerie. “Questa grande dinastia, che per secoli ha regnato su Chambery e dintorni…” – come ironizzava Carlo Emilio Gadda – ha trovato seppur tardivamente un uomo capace di compiere grandi imprese (finanziarie), di andare finalmente oltre i confini, di renderli inesistenti anzi, con l’aiuto di qualche società offshore. Da giovane, ebbe una carriera scolastica un po’ difficile. Ma si preparò con scrupolo a divenire cultore dello champagne e dei vini pregiati. Allora gli amici lo chiamavano Toto la Manivelle (potremmo tradurre Vittorino il Volantino) per via della sua eccezionale capacità a perdere il controllo del volante e a uscire di strada, con gran danno per le carrozzerie delle sue belle auto.

Divenne presto cittadino del mondo. Prese dunque a collezionare conchiglie. Ma, poiché non gli bastavano né le fuoriserie (per le avventure di terra), né le conchiglie (per quelle di mare), prese anche il brevetto di pilota (per le avventure di cielo) e acquistò un biplano con una testa di tigre disegnata sulla fusoliera. Infine divenne uomo d’affari: “Per ricostruire il patrimonio di famiglia”. La sua professione può essere definita in molti modi aulici. Ma per capirsi meglio basterà la definizione di mediatore d’affari, piazzista di lusso, ponte nobile tra grandi imprese occidentali e satrapie orientali, sempre all’ombra di qualche strana consorteria politico-affaristica. I quarti di nobiltà di Vittorio Emanuele costituiscono il valore aggiunto, sono la griffe che garantisce, se non una particolare abilità manageriale, almeno l’accesso ai personaggi utili, alle lobby giuste.

Così negli anni settanta il signor Savoia fu preso sotto l’ala dal conte Corrado Agusta, l’ex marito di Francesca Vacca Graffagni, allora padrone di una fabbrica d’elicotteri e mercante internazionale d’armi. Agusta, in verità, era conte per modo di dire: non per antico lignaggio, ma per tardivo decreto di un Savoia ormai prossimo all’esilio portoghese. Al conte Corrado era utile avere vicino un nobile vero, un principe di casa reale, amico o parente o comunque ben introdotto nelle dinastie grandi acquirenti dei suoi prodotti. Lo scià di Persia, per esempio: Vittorio Emanuele era suo amico di famiglia, e in più all’epoca lo scià Reza Pahlevi corteggiava Gabriella di Savoia. Insomma, Vittorio Emanuele riuscì a piazzare allo scià una quantità di elicotteri e armi, guadagnandosi, come ogni piazzista, le sue brave provvigioni.

Non tutto però è alla luce del sole, quando si tratta di armi. Il giudice di Venezia Carlo Mastelloni, per esempio, in una sua indagine sui traffici internazionali di armi raccolse documenti da cui risultava che Vittorio Emanuele, insieme al conte Corrado, non si occupava soltanto di merce regolare da piazzare alla Persia, ma anche di triangolazioni proibite dagli embarghi: centinaia di elicotteri Agusta 205 e Agusta 206, sistemi d’arma e pezzi di ricambio partivano dall’Italia ufficialmente destinati all’Iran dello scià, ma finivano in Giordania o all’Olp; indirizzati alla Malesia e a Singapore, arrivavano invece a Taiwan o nel Sudafrica dell’apartheid. Il tutto non senza il beneplacito dei servizi segreti dei Paesi coinvolti. L’inchiesta del giudice Mastelloni aveva messo sotto osservazione generali, politici, agenti segreti. Poi approdò alla Procura di Roma e non se ne seppe più nulla. Nel giro d’affari era coinvolta, oltre l’Agusta, anche la statunitense Bell, l’industria degli elicotteri d’assalto Cobra.

Le armi giravano il mondo: Somalia, Congo, Zaire… A vederci chiaro provò anche un giovane giudice di Trento, Carlo Palermo, che aveva messo gli occhi su un doppio traffico: armi dall’Occidente verso Oriente, droga in direzione opposta. Anche Palermo fu bloccato, e in malo modo. Probabilmente proprio perché quei traffici non si possono fare senza il consenso di poteri molto forti, che per certi lavori sporchi usano i servizi segreti e che comunque non gradiscono che si metta il naso nei loro affari, né che si portino alla luce operazioni in cui alte ragioni di Stato si mischiano spesso a bassissime ragioni di soldi. Comunque Vittorio Emanuele era attorniato e ben sostenuto da una compagnia di personaggi eccellenti, come si conviene nei commerci internazionali d’armi: faccendieri, politici, militari, uomini dell’intelligence.

Tra gli altri, c’erano il colonnello Massimo Pugliese, fedelissimo di casa Savoia, già responsabile del centro di controspionaggio di Cagliari; il generale Giuseppe Santovito detto Bourbon per via dei suoi gusti alcolici, direttore nientemeno che del Sismi, il servizio segreto militare; l’ex attore Rossano Brazzi, massone, approdato dal cinema all’entourage di un altro attore che aveva cambiato mestiere, Ronald Reagan. Una bella compagnia di giro, variopinta ma potente. I servizi segreti vegliavano sugli affari. Barbe finte italiane, ma anche i loro padrini della Cia e dalla Nsa, le due massime agenzie spionistiche americane. Del resto, l’amministratore dei beni di casa Savoia, l’avvocato Carlo D’Amelio, era presidente del Cmc, una filiazione della Permindex, che secondo il giudice Palermo era una «creatura della Cia, istituita per coprire i finanziamenti dei servizi segreti americani Cia-Fbi in Italia per attività anticomuniste».

Il club atlantico P2

Molti dei soci di questa bella compagnia avevano, come si conviene tra gentiluomini, una comune appartenenza a un club: la loggia P2 di Licio Gelli, il circolo degli oltranzisti atlantici italiani. Alla lettera S dell’elenco sequestrato nel marzo 1981 dai magistrati milanesi Giuliano Turone e Gherardo Colombo nella ditta di Gelli a Castiglion Fibocchi, si legge: “Savoia Vittorio Emanuele, casella postale 842, Ginevra”. La tessera era la numero 1621. In una delle cartellette allegate agli elenchi, sempre alla lettera S, accanto a “Sindona Michele, banchiere”, “Stammati Gaetano, ministro”, “Santovito Giuseppe” e tanti altri (Berlusconi Silvio no, era in un altro documento), compare il nome “Savoia Vittorio, numero 516”. Il principe, si seppe poi, aveva raggiunto il terzo grado della gerarchia massonica, quello di Maestro, e oltre alla loggia P2 aveva frequentato un altro esclusivo club massonico: la superloggia di Montecarlo. Almeno secondo quanto testimonia nell’ottobre 1987 Nara Lazzerini, amica molto intima di Gelli: «Licio mi disse che della loggia facevano parte anche Vittorio Emanuele di Savoia e il principe Ranieri».

Chissà se è vero. Un rapporto del Sisde (il servizio segreto civile) del 1982 informa comunque che ai vertici della Loggia di Montecarlo, insieme a Gelli, vi era Enrico Frittoli, ragioniere, titolare di una società di import-export con sede nel principato e “uomo di fiducia del trafficante internazionale d’armi Samuel Cummings, presidente della Inter Arms di Londra”. Il solito cocktail forte di politica, affari e nobiltà. Con le logge massoniche internazionali Vittorio Emanuele ebbe a che fare anche qualche anno dopo, alla fine degli anni ottanta, quando cadde il Muro di Berlino: alcuni circoli massonici pensarono bene di progettare il ritorno sul trono di alcuni monarchi europei. Puntavano soprattutto su Romania e Ungheria, Paesi da cui il re era stato scacciato dai perfidi comunisti. Collassato il blocco sovietico, si poteva approfittare della situazione per tentare un ritorno alla grande. Ma era stata presa in considerazione anche la possibilità di un ritorno delle famiglie reali in Italia e in Grecia.

I progetti, come al solito, mischiavano politica e affari: alla fine furono realizzati soltanto questi ultimi, nelle fragili democrazie dei Paesi ex comunisti. Ma un rapporto riservato del ministero dell’Interno del 1993 riporta le dichiarazioni informali di un collaboratore di giustizia che racconta di una riunione avvenuta a Barcellona, con la partecipazione di emissari delle famiglie Villaverde, Orleans, Leida d’Aragona e Savoia. Anche in Italia, in fondo, tra il 1992 e il ’93 era caduto un muro: Mani pulite aveva fatto crollare il sistema dei partiti di Tangentopoli e per molti mesi alcune “menti raffinatissime” (come le chiamava Giovanni Falcone) avevano pensato a come approfittare della situazione. Nel calderone ci fu anche qualcuno che pensò di giocare la carta reale: per esempio, il principe Giovanni Alliata di Montereale, siciliano, massone, piduista, in contatto con esponenti mafiosi ma anche con ambienti dell’intelligence Usa e dell’eversione di destra italiana, che dopo essere passato per più di un tentato golpe era stato uno dei registi della riunione di Barcellona con le famiglie reali.

Non se ne fece niente. La storia italiana prese un’altra strada, passando attraverso i momenti drammatici delle stragi del 1992 di Falcone e Borsellino e del 1993 a Firenze, Roma e Milano. Poi, nel 1994, un compagno di loggia del Savoia, Silvio Berlusconi, vinse le elezioni e impedì ai “comunisti” di andare al governo. Vittorio Emanuele, grande estimatore di Berlusconi, rimase in disparte, limitandosi a chiedere, di tanto in tanto, il rientro dei Savoia in Italia: lui vivo, in qualche villa di Napoli o chissà dove; e i suoi parenti morti, nel Pantheon di Roma.

Un colpo di fucile nella notte

Già in passato Vittorio Emanuele si era avvicinato a un politico italiano: Bettino Craxi. Era la fine degli anni Settanta, e lo scenario era quello dell’isola di Cavallo, in Corsica. Lì passava una parte delle sue lunghe vacanze Silvano Larini, l’uomo che aveva fatto incontrare Craxi e Berlusconi e che in seguito sarà accusato di essere il fattorino delle tangenti del segretario socialista. A Cavallo, anzi Cavallò, territorio francese, andava in vacanza anche Vittorio Emanuele. Isola esclusiva, lembo di paradiso, pochi gli ospiti ammessi. Naturale incontrarsi, parlarsi. Larini, bon vivant, all’inizio frequentava per lo più Marina Doria, la consorte del principe, ma da cosa nasce cosa. Silvano e Vittorio si conobbero e decisero di fare business insieme: lanciare l’isola come luogo esclusivo di vacanze. Ancora una volta, Vittorio Emanuele e il suo blasone funzionano come spot pubblicitario per attirare una selezionata folla di nuovi ricchi e consumati tangentomani a caccia di patenti per entrare nel jet set.

Peccato che un colpo di fucile, nell’agosto 1987, rovini tutto: durante un litigio ad alto tasso alcolico con il playboy Nicky Pende, a Vittorio Emanuele scappò uno sparo nella notte. A farne le spese fu un giovane velista tedesco, Dirk Hammer, che dormiva tranquillo nella sua barca. Per quello sparo, il principe fu processato in Francia, ma – tutto il mondo è Paese – alla fine ne uscì assolto, con la sola condanna a sei mesi (con la condizionale) per porto abusivo d’arma. La brutta vicende si concluse con qualche protesta dell’opinione pubblica e l’indignazione dei parenti del ragazzo morto dopo una lunga agonia. L’affare di Cavallo ne risentì un po’, ma intanto Vittorio Emanuele era entrato, grazie a Larini, nel nuovo giro. Affari e politica, come sempre, ma questa volta all’ombra di Craxi.

L’industria italiana delle armi, del resto, era finita nell’orbita socialista; l’Agusta era passata dal conte Corrado alle Partecipazioni statali, sotto la guida di un manager craxiano doc, Roberto D’Alessandro. Le intermediazioni, però, erano sempre curate dal conte Agusta (lo Stato non può sporcarsi ufficialmente le mani) e le “provvigioni” hanno continuato ad arrivare sui suoi conti riservati all’estero, come su quelli del signor Savoia. Non c’è troppo da stupirsi, allora, che su Craxi, socialista e ammiratore di Garibaldi, Vittorio Emanuele abbia rilasciato ai giornali italiani dichiarazioni entusiastiche, che potrebbero apparire stupefacenti in bocca a un monarchico per obbligo di nascita. Passata l’epoca del craxismo, l’ammirazione il principe la trasferì direttamente su Silvio Berlusconi: «È un buon manager, può rimettere ordine nell’economia italiana» dettò ai cronisti nel 1994.

Come? Per esempio cancellando quel “disastro” che è lo Statuto dei lavoratori, con il divieto di licenziamento. Apprezzamenti naturali, tra compagni di loggia. Ma con un finale obbligato per il principe: «Io? Non faccio politica». A Ginevra c’è ancora chi favoleggia di una cena a tre al Richmond Hotel, con Vittorio Emanuele, Silvano Larini e il banchiere Chicchi Pacini Battaglia, altro protagonista di Tangentopoli. Era l’inizio della lunga latitanza di Larini, nel 1992, che prima di sparire per molti mesi lontano dai magistrati di Mani pulite – racconta la leggenda – volle vedere i due amici per salutarli e forse, chissà, per chiarire qualche delicata procedura d’affari e di conti riservati. Il principe, comunque, nel maggio 1992 dichiarò al Giornale: «Peccato che ci sia tanta corruzione, la storia delle tangenti, delle bustarelle… è disonorevole».

“Viva io”

Il manager Vittorio Emanuele di Savoia nella sua carriera ha tentato parecchi affari. E proprio per conto di aziende di quello Stato di cui non poteva varcare i confini. Ha fatto intermediazioni per Italimpianti e Condotte, entrambe aziende pubbliche dell’Iri. Il metodo di quegli affari, in piena Tangentopoli, è conosciuto: un fiume di miliardi esce dalle casse dello Stato, va a finanziare opere e imprese (spesso inutili), e infine torna in parte nelle casse dei partiti e nei conti all’estero dei loro leader, attraverso l’intermediazione di personaggi compiacenti, che si tengono la “provvigione”. Questo in generale, s’intende; sui comportamenti finanziari del principe in particolare, niente d’irregolare è emerso. Del resto, il signor Savoia è un italiano speciale, è l’unico italiano offshore per definizione. Certamente questo manager particolare ha operato all’estero, all’ombra delle Partecipazioni statali. Ebbe un ruolo, per esempio, negli affari realizzati a Bandar Abbas, in Iran: lì gli italiani buttarono parecchi soldi (pubblici) per costruire un’acciaieria (Italimpianti) e un porto (Condotte).

Fu un disastro industriale. Ma fece girare molti miliardi. Tanto che alla fine scoppiò un litigio durissimo (per questioni di soldi) tra l’erede Savoia e un armatore genovese, Enrico De Franceschini. Qualche giornalista ficcanaso è andato a curiosare nel fiume di dollari e tangenti sgorgato da quella campagna d’Iran e alle Bahamas ha scoperto una strana società coinvolta, la Financial. Non si è riusciti a saperne molto, ma è circolata l’indiscrezione che fosse controllata dal Savoia. Vero? Falso? Il principe non si abbassa a parlare di questi particolari plebei. Quanto ai banchieri, in genere sono riservati, quelli delle Bahamas poi sono blindati. In Iran il principe tentò anche un altro business, più soft: un’impresa editoriale, in società con altri amici del suo club, Angelo Rizzoli e Bruno Tassan Din, compagni di lista P2. La Rizzoli, allora, era nelle mani del banchiere Roberto Calvi, altro socio di loggia che, come si sa, finì male: rovinato dalla bancarotta, inseguito da creditori molto molto esigenti, fu infine trovato appeso sotto un ponte di Londra. Così anche quel lavoro iniziato in Iran andò perso.

Del resto, l’amico scià fu subito dopo cacciato da Khomeini e le porte del Paese furono chiuse all’Occidente. Ma Vittorio Emanuele non è tipo da scoraggiarsi per qualche affare andato male. Anche perché i fallimenti all’italiana hanno una curiosa caratteristica: un po’ di soldi restano comunque attaccati alle mani dei loro protagonisti. E poi perché, chiusa l’avventura persiana, la sua compagnia si riciclò in altri Paesi del vicino Oriente, Egitto, Giordania, Israele. Re Hussein di Giordania era suo amico, naturalmente; ma il principe considerava suoi amici anche l’ex presidente egiziano Sadat, poi ucciso, e il dittatore iracheno Saddam Hussein, e anche il presidente palestinese Yasser Arafat. Nel 1995, Vittorio Emanuele si recò in Iraq dicendo di rappresentare aziende italiane: «Ma no, niente elicotteri, niente armi» rassicurò in un’intervista «tecnologia agricola, invece, trattori, strumentazione. Superato l’embargo, l’Iraq di Saddam tornerà benestante e competitivo». La missione terminò con una salmonellosi e una febbre a quaranta. Ad Arafat e agli amici israeliani nel 1997 propose la costruzione di un ponte autostradale e ferroviario tra Gerico e Gaza, con la speranza di attirare investimenti del Fondo monetario e della Banca mondiale.

Per ora, con l’aria che tira, non se n’è fatto niente. Non è andato bene neppure il progetto di sfruttamento turistico di Manoel Island, un’isoletta davanti a Malta. Narra la leggenda che alla fine degli anni Ottanta, durante le vacanze invernali passate a Gstaad, il principe, attorniato come sempre da qualche faccendiere a caccia d’affari, mise a punto un piano per realizzare nell’isoletta un porto turistico, quattrocento ville extralusso, due alberghi, un campo da golf, un casinò. Investimenti per 200 miliardi di lire dell’epoca. Anche quella volta non se ne fece nulla. Anzi, tutto finì con una causa davanti ai giudici maltesi, perché il socio locale del principe, il giovane avvocato Mark Micalleff, gli chiese un ricco risarcimento per una complicatissima vicenda di patti non rispettati. L’unico ricordo regale che restò a Micalleff, alla fine della vicenda, fu una monarchica, sobria, sintetica scritta sul frigorifero di casa, vergata con un pennarello dalla mano augusta di Vittorio Emanuele, durante una cena in cui cucinò agnello al vino rosso e uova strapazzate: “Viva Io”. Dei business in Italia del principe, che pure ci sono, si sa ben poco. Si sa che alla fine degli anni Settanta comprò il 30 percento di un’azienda laziale, la Industrial Habitat, che produceva villette prefabbricate e godeva degli aiuti della Cassa per il Mezzogiorno. Stop. Non si sa null’altro.

Trasparenza zero: degli affari Savoia si riesce a conoscere qualcosa soltanto quando qualche socio si sente fregato e corre in tribunale, o dai rari documenti giudiziari di qualche magistrato coraggioso. Le ripetute richieste di ritornare in Italia, invece, sono trasparenti, trasparentissime. E hanno ottenuto il risultato sperato: tornerà. In passato Vittorio Emanuele, gaffeur di rango, è riuscito a piazzare dichiarazioni vergognose, come quella sulle leggi razziali firmate da suo nonno nel 1938: «No, io per quelle leggi non devo chiedere scusa, e poi non sono così terribili» disse al Tg2 il 1° maggio 1997. Tra le mille gaffe del suo inesauribile repertorio, il signor Savoia più recentemente è riuscito a pronunciare perfino qualche frase non controproducente, come quelle contenute nella lettera scritta dopo i funerali di Maria José, la regina antifascista, a Carlo Azeglio Ciampi: riconosciuto – bontà sua – “presidente di tutti noi italiani”. Infine, nel febbraio 2002, Vittorio Emanuele scrive una lettera in cui riconosce la Repubblica. E il Senato dà il primo via libera al rientro. Ora si può dimenticare: dimenticare gli errori storici della dinastia. Dimenticare la sua poco edificante storia personale.

(Campioni d’Italia, Marco Tropea editore, Milano 2002)

“Non vendetta, ma verità”.
Parla Birgit Hamer, dopo la prima condanna
di Vittorio Emanuele

Vittorio Emanuele di Savoia condannato a 2 anni (con pena sospesa) per calunnia. “Io non ho mai cercato vendetta”, dice ora, commossa, Birgit Hamer, “ma ho vissuto 39 anni della mia vita per ristabilire la verità sulla morte di mio fratello Dirk, ucciso a 19 anni da una fucilata sparata nella notte il 18 agosto 1978”. Dirk fu raggiunto dai colpi mentre dormiva in una barca ancorata all’Isola di Cavallo, in Corsica, e morì dopo quattro mesi di agonia. Vittorio Emanuele fu processato nel 1991 in Francia per omicidio e assolto.

“A me è restata solo l’arma della parola per raccontare i fatti”, dice Birgit, “e li ho raccontati nel libro Delitto senza castigo pubblicato coraggiosamente da Francesco Aliberti nel 2011, con una prefazione di Beatrice Borromeo”. Dopo il libro, è arrivata all’autrice la querela per diffamazione. “Ho risposto con una denuncia per calunnia: Vittorio Emanuele mi ha falsamente accusato del reato di diffamazione, pur sapendomi innocente. Credevo che il processo sarebbe durato anni e finito con la prescrizione. Invece il rito abbreviato è stato rapido. Non credevo alle mie orecchie quando ho sentito la giudice di Roma, Simonetta D’Alessandro, pronunciare le parole: ‘Nel nome del popolo italiano, condanno…’. Sono scoppiata a piangere. La giustizia è sempre rappresentata da una figura femminile e questa volta una giudice donna ha rapidamente dato davvero giustizia, in nome del popolo italiano. Io avevo reagito perché con la denuncia per diffamazione mi volevano togliere l’unico diritto che mi era rimasto dopo l’assoluzione di Vittorio Emanuele dall’accusa di omicidio: il diritto di raccontare la verità”.

Tra un mese uscirà una nuova edizione riscritta e ampliata del libro di Birgit Hamer, con il titolo Scacco al re. Conterrà anche l’intercettazione ambientale effettuata nel giugno 2006 nel carcere di Potenza dove Vittorio Emanuele era detenuto per l’indagine Vallettopoli condotta dal pm Henry John Woodcock. In una conversazione con un altro detenuto, il Savoia raccontava la sparatoria nella notte all’Isola di Cavallo, ammetteva di aver sparato e si vantava di avere fregato i giudici francesi.

“Incredibile: ancora in questo processo i suoi avvocati hanno ripetuto la favola del tiratore fantasma, dello sparatore misterioso che avrebbe fatto partire i colpi che hanno ucciso mio fratello. E Vittorio Emanuele si è sempre vantato di non aver neppure letto il mio libro, dicendo che per querelarmi gli era bastato vedere la copertina. Io mi sentivo l’imperativo morale di raccontare la verità. Oggi ringrazio Marco Travaglio per il suo articolo Erode al trono e tutti voi del Fatto quotidiano. Mi avete aiutato in questi anni difficili. Così come ringrazio gli avvocati che hanno ottenuto il risultato in questo ultimo processo, Oreste Marchini, Giorgio Alfieri, Giunio Tonucci, Nicoletta Pia Di Cagno. Ho cercato per 39 anni un riconoscimento ufficiale della verità. Finalmente è arrivato”.

(Il Fatto quotidiano, 22 settembre 2017)

Inchiesta comparsa sul settimanale "Diario" e poi pubblicata, ampliata, nel volume "Campioni d’Italia", Marco Tropea editore, Milano 2002
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