SEGRETI

Totò Riina, si chiude il sipario sui suoi segreti

Totò Riina, si chiude il sipario sui suoi segreti

Ha scalato con la ferocia la più feroce delle famiglie di mafia, quella corleonese. Ha dichiarato guerra ai palermitani di Cosa nostra, lui “viddano” di campagna, uccidendo il “principe di Villagrazia” per diventare al suo posto il capo dei capi. Ha infine osato l’inosabile, dichiarare guerra allo Stato e portarla fuori dalla Sicilia, a Firenze, a Milano, a Roma. Per trattare con lo Stato la sua “pace”, in una scia di segreti, misteri e ricatti che ha portato con sé nel chiuso della cella. Ieri il compleanno, l’ottantasettesimo, lo ha trascorso in un letto del reparto detenuti dell’ospedale di Parma. In gravissime condizioni, in coma farmacologico, dopo due interventi chirurgici da cui è uscito con pesanti complicazioni. Salvatore Riina è giunto al termine del suo percorso, dopo una detenzione durata 24 anni per 26 condanne all’ergastolo per decine di omicidi e stragi.

L’immagine di lui che ha fatto il giro del mondo è quella che lo ritrae subito dopo l’arresto, sotto il ritratto di Carlo Alberto Dalla Chiesa. Piccolo e feroce, finalmente messo in condizione di non nuocere. Il simbolo di una rivincita dello Stato: ma una rivincita a metà, perché la guerra che aveva dichiarato, facendo uccidere Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, era appena iniziata ed è proseguita anche senza di lui. E perché ancora oggi non conosciamo tutti i suoi complici, gli alleati, i “mandanti a volto coperto”. Lo chiamavano Totò ’u curtu, il corto. Ma anche “la belva”.

Ha cominciato la carriera giovanissimo, con furti di grano e di bestiame. Si è fatto subito notare da Luciano Leggio, che passerà alla storia come Liggio e che arriverà insieme a lui ai vertici di quella Cosa nostra di cui si negava l’esistenza e di cui non si conosceva neppure il nome. A 19 anni la sua prima condanna, 12 anni, per il suo primo omicidio. Da quel momento, la ferocia verso i nemici costruisce la sua fama, ma quella verso gli “amici” edifica il suo potere: una scalata nutrita dal sangue dei boss. Con Liggio nel 1958 elimina il suo capomafia, Michele Navarra, per prenderne il posto. Nel 1969 è la volta di Michele Cavataio, ammazzato nella “strage di Viale Lazio”. Dopo quella mattanza, Liggio entra nel triumvirato che regge Cosa nostra e Riina diventa il suo alter ego, reggente della famiglia di Corleone dopo l’arresto di Liggio e il suo sostituto nel triumvirato.

Gli altri due capi, Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti, da quel momento sono vittime designate, in un lungo assedio dei corleonesi ai signorini della mafia di Palermo. Nel 1978, prima vittoria: Riina ottiene l’espulsione di Badalamenti dalla Commissione. A sostituirlo al vertice della Commissione arriva Michele Greco, il “papa”, che apre le porte di Palermo ai “viddani” di Corleone. Questi scatenano nel 1981 una nuova, feroce guerra di mafia, con centinaia di morti, “soldati” e boss: fino ai vertici, fino a Salvatore Inzerillo, fino a Stefano Bontate, il “principe di Villagrazia”. A questo punto s’instaura la dittatura dei corleonesi dentro Cosa nostra. Chi si accorda resta, chi non si accorda muore. Riina arriva al vertice della Commissione, insieme a Bernardo Provenzano.

Mentre il sangue scorre, i soldi crescono, grazie all’alleanza con il compaesano votato alla politica, il corleonese Vito Ciancimino, che diventa prima assessore e poi sindaco di Palermo, regista del “sacco” della città e della colata di cemento che porta ricchezza ai “viddani” che l’hanno conquistata. Ciancimino vuol dire, in Sicilia, Salvo Lima e, a Roma, Giulio Andreotti, a cui arrivano i voti siciliani. Chi si oppone, rappresentando le istituzioni e la politica con onore, salta: i procuratori della Repubblica Pietro Scaglione e Gaetano Costa; il capo dell’Ufficio istruzione Cesare Terranova; il capo della Squadra Mobile Boris Giuliano; il capitano dei Carabinieri Emanuele Basile; il prefetto di Palermo Carlo Alberto Dalla Chiesa; il presidente della Regione Piersanti Mattarella; il segretario provinciale della Dc Michele Reina; il segretario del Pci siciliano Pio La Torre.

Diventa un fiume di sangue, il fiume di denaro che viene dagli affari siciliani, ma anche dall’eroina per il mercato degli Stati Uniti, di cui Cosa nostra è monopolista. La Cosa nostra di Totò Riina diventa l’organizzazione mafiosa più ricca e più potente al mondo.

All’inizio degli anni Novanta il sistema salta. Lima e Andreotti non riescono a mantenere le promesse fatte ai corleonesi: la cancellazione in Cassazione delle condanne al maxiprocesso di Falcone. Riina dichiara guerra ed elimina chi non ha mantenuto gli impegni (Salvo Lima, Ignazio Salvo), chi combatte davvero Cosa nostra (Falcone), chi si oppone a una trattativa (Borsellino) per negoziare nuovi equilibri e trovare nuovi referenti politici e istituzionali.

Mentre a Milano Mani pulite fa saltare il sistema dei partiti della Prima Repubblica, Riina ordina: “Dobbiamo fare la guerra per fare la pace”. Prepara un “papello” di richieste allo Stato. Tratta con i carabinieri, attraverso Ciancimino. Prepara la stagione delle stragi del ’93. Poi, mentre i Graviano portano a compimento il programma, Riina, forse tradito dai suoi, viene arrestato il 15 gennaio 1993, dopo 23 anni di latitanza. Dal carcere si è vantato di aver ammazzato Falcone e ha evocato altri burattinai per la morte di Borsellino. Ma i segreti delle stragi e della trattativa li ha tenuti per sé.

 

Il Fatto quotidiano, 17 novembre 2017
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