SEGRETI

Il Sessantotto fascista. Cuori neri o cuori di Stato?

Il Sessantotto fascista. Cuori neri o cuori di Stato?

Bagliori di fuoco nell’aria di Milano, la sera di venerdì 7 giugno 1968. Il Movimento studentesco aveva convocato una manifestazione contro il Corriere della sera: quel giornale era la bibbia della “stampa borghese” colpevole di mentire sulle lotte degli studenti; era – scrive Andrea Valcarenghi che poi diventerà il leader di Re Nudo – “il fratellino di Springer, colosso dell’informazione mistificata tedesca” già attaccato dal movimento a Berlino. La sede del quotidiano milanese viene circondata e assediata per tutta la notte. Tremila studenti contro cinquemila poliziotti e carabinieri – raccontano Nanni Balestrini e Primo Moroni – danno vita alla “battaglia di via Solferino”. È la Valle Giulia milanese. Barricate, scontri, caroselli, lanci di porfido e bottiglie Molotov. Decine di feriti, 250 fermati, dieci arrestati.

Ma sentite come la racconta Tomaso Staiti di Cuddia, barone nero che quella notte era nel corteo del Movimento studentesco, alla guida di un manipolo di fascisti: “Dato che gli extraparlamentari di sinistra mancavano d’iniziativa, avevamo iniziato a spostare e incendiare le macchine parcheggiate in via Statuto. L’esempio fu contagioso… La guerriglia durò fino a notte, i bagliori delle fiamme l’avrebbero rischiarata e i lacrimogeni l’avrebbero avvelenata: avevamo raggiunto il nostro scopo” (Confessione di un fazioso, Mursia 2006).

Qual era “il nostro scopo”? I protagonisti neri rispondono: radicalizzare la lotta contro il “sistema”, alzare il livello dello scontro, anche a costo di lottare al fianco dei rossi. Volevamo la rivoluzione. Nera. Ma c’è un’altra risposta possibile: l’obiettivo dei fascisti era infiltrarsi nel movimento, accrescere il disordine, innescare la violenza, per richiamare infine la repressione. È l’eterna, irrisolta domanda sulla destra radicale che si apre nel Sessantotto e arriva fino a oggi: cuori neri o cuori di Stato? Rivoluzionari fascisti, nemici acerrimi della destra d’ordine e di governo, che speravano di strappare ai rossi l’egemonia del movimento; oppure infiltrati, provocatori dentro il movimento con lo scopo di distruggerlo?

Il 1 marzo 1968, a Roma, c’era stata la battaglia di Valle Giulia, il primo atto del Sessantotto “militante”: per la prima volta gli studenti romani avevano reagito all’attacco della polizia ed erano riusciti a mettere in fuga i celerini. Ebbene: quel giorno i fascisti erano in prima fila. A Valle Giulia c’erano Mario Merlino, Stefano Delle Chiaie, Guido Paglia, Adriano Tilgher, Maurizio Giorgi, Franco Papitto, Ugo Gaudenzi, Stefano Bettini, Roberto Palotto, Adriano Mulas, Tonino Fiore. Personaggi che hanno fatto la storia del neofascismo italiano, ma anche delle compromissioni con gli apparati dello Stato.

Il fascismo d’ordine reagisce a Valle Giulia due settimane dopo, il 16 marzo 1968, quando due leader del Movimento sociale italiano, Giorgio Almirante e Giulio Caradonna, guidano l’assalto fascista all’università della Sapienza per liberarla dagli occupanti. Danno il segnale ai militanti e all’opinione pubblica che il Msi sta dalla parte dell’ordine e non degli studenti “contestatori”; che i rossi devono essere considerati nemici, non alleati. I cuori neri di Valle Giulia escono dal Msi oppure sono espulsi. Ma le ambiguità restano. Cuori neri o cuori di Stato? Rivoluzionari, o collaboratori sotto banco dei servizi segreti?

Agli scontri di Valle Giulia, racconta in seguito Nico Azzi, partecipa anche Annamaria, la fidanzata napoletana di Delfo Zorzi, “abile nell’uso della fionda”. Dettagli. Ma interessanti perché Zorzi è il camerata processato (e poi assolto) per la bomba di piazza Fontana, strage nera da addebitare ai rossi, con l’anarchico Pietro Valpreda pronto per essere indicato come il colpevole designato. E Azzi è il neofascista che, copia di Lotta continua in tasca, il 7 aprile 1973 si ferisce nella toilette del treno Torino-Roma mentre innesca la bomba che avrebbe dovuto far saltare in aria il convoglio: un’altra strage nera da mettere in conto ai rossi. Un sanbabilino dal cuore nero, Azzi. Un rivoluzionario. Eppure oggi sappiamo che alle riunioni in cui è stata organizzato l’attentato sul Torino-Roma era presente un uomo dello Stato: il capitano dei servizi segreti militari (il Sid) Antonio Labruna.

Dalla piazza ai servizi segreti

Eccoli all’opera, i cuori neri di Valle Giulia. Mario Merlino? Presente! È l’infiltrato più noto della storia italiana. Entra nel gruppo anarchico Bakunin di via Baccina 35 a Roma e nell’autunno 1969 guida la scissione che lo porta a fondare, insieme a Pietro Valpreda, il circolo 22 Marzo, dove gli apparati dello Stato vanno subito a colpo sicuro a cercare il colpevole designato per piazza Fontana.

Stefano Delle Chiaie? Presente! Detto “er Caccola”, è il fondatore di Avanguardia nazionale ed è stato indagato per la strage di piazza Fontana e per quella di Bologna. È sempre stato prosciolto, ma un paio di cose sono certe: i due gruppi neofascisti dell’epoca a destra del Msi, Avanguardia nazionale di Delle Chiaie e Ordine nuovo di Pino Rauti, sono coinvolti in tutte le manovre eversive e stragiste dagli anni Sessanta in poi; e contemporaneamente erano in rapporti con i servizi segreti. Lo ha confermato anche un testimone d’eccezione come Paolo Emilio Taviani, più volte ministro democristiano dell’Interno dal 1962 al 1974. Ha dichiarato che Umberto Federico D’Amato, il mitico prefetto-gourmet responsabile dell’ufficio Affari riservati del ministero dell’Interno (il servizio segreto civile), aveva “rapporti diretti con elementi della destra estrema per fini difensivi”.

Chissà quali erano, questi “fini difensivi”. Il fondatore di Ordine nuovo Pino Rauti – lo scrivono i magistrati che hanno indagato sulla strage di Bologna – era addirittura un “agente Z” del Sid, cioè un uomo del servizio segreto militare sotto copertura (come Guido Giannettini, coinvolto nelle indagini su piazza Fontana). Delle Chiaie riferiva invece al servizio civile, cioè agli Affari riservati di D’Amato. Tanto che un alto funzionario del ministero dell’Interno ha potuto dichiarare al giudice di Venezia Carlo Mastelloni che D’Amato ne finanziava e organizzava l’attività eversiva: “Delle Chiaie […] mi fu presentato nell’ufficio di D’Amato da quest’ultimo, il quale mi riferì che questi era un suo confidente nonché infiltrato nella struttura di Avanguardia nazionale”. Ma come può il fondatore e leader del gruppo essere un “infiltrato”?

E Guido Paglia? Presente! Fondatore con Delle Chiaie di Avanguardia nazionale, ne diventa presidente e reggente, non appena Delle Chiaie è costretto alla latitanza. Poi diventa giornalista e alto dirigente Rai. Ha sempre rivendicato la sua “purezza rivoluzionaria”: “Il Msi nel Sessantotto era il partito d’ordine, la quintessenza del perbenismo, l’anima reazionaria anticomunista. Noi giovani eravamo i romantici movimentisti, rivoluzionari. La Repubblica sociale era il nostro punto di riferimento”. Rivoluzionario romantico? Nella primavera del 1968 fa parte, insieme a Mario Merlino, Adriano Tilgher e Roberto Palotto, della allegra comitiva di cuori neri che partecipa al viaggio premio organizzato dai servizi segreti italiani nella Grecia dei colonnelli. Così, tanto per vedere da vicino come si fa un golpe.

Subito dopo l’infiltrazione di Merlino tra gli anarchici e la strage di piazza Fontana, Paglia ha un piccolo contrattempo: subisce un borseggio, gli sfilano il portafogli, o forse lo perde. Subito denuncia lo smarrimento dei documenti. La vicenda sembra chiudersi positivamente il 10 gennaio 1970, quando il portafogli viene ritrovato in una cassetta delle lettere di Roma. Peccato che la polizia, a cui viene portato, nel portafogli trovi alcune cose inquietanti: un elenco (scritto a mano da Paglia) con nomi e numeri di telefono di anarchici romani del gruppo Bakunin, il circolo infiltrato da Mario Merlino; e un “elenco della spesa” di materiale piuttosto imbarazzante: saponette d’esplosivo, rotoli di miccia, detonatori, capsule elettriche.

Solo due anni dopo, nel 1972, Guido Paglia cambia casacca: esce da Avanguardia e diventa giornalista del Resto del Carlino. Ma diventa anche (o lo era già prima?) informatore del Sid, nome in codice: fonte “Parodi”. Alla fine di quell’anno consegna al capitano Antonio Labruna una relazione su Avanguardia nazionale scritta per il generale del Sid Gian Adelio Maletti. Racconta che la notte del (tentato) golpe Borghese, tra il 7 e l’8 dicembre 1970, un gruppo di Avanguardia, capeggiato da Flavio Campo, era riuscito a penetrare nel ministero dell’Interno, sfruttando alcune complicità interne, e aveva già occupato l’archivio e l’armeria. Poi era arrivato il contrordine e il gruppo aveva lasciato il ministero.

Ma anche da giornalista Guido Paglia è un personaggio speciale, tanto da riuscire a fare uno scoop impossibile: dare una notizia prima che accadano i fatti. Succede quando scrive, sul Resto del Carlino dell’11 novembre 1972, che in un casolare nei pressi di Camerino è stato ritrovato un arsenale dei rossi: mitragliatrici, munizioni, bombe a mano Mk2, mine anticarro, polvere da mina, detonatori, micce, timer, bottiglie incendiarie, tritolo, pentrite, oltre a carte d’identità rubate, fionde, vernice spray e documenti cifrati che, scrive Paglia, provano “inoppugnabilmente l’attività eversiva e paramilitare di taluni gruppi di estremisti di sinistra”. Ma più che uno scoop, è una divinazione. Infatti nel momento in cui Paglia scrive il suo articolo, il 10 novembre 1972, l’arsenale è appena stato scoperto e certamente ancora nulla si sa dei fogli cifrati, che saranno decrittati solo cinque giorni dopo. La verità che emerge in seguito è che l’operazione di Camerino è stata costruita dai servizi segreti. Paglia, passato dalla militanza in Avanguardia al giornalismo teleguidato, ha messo in circolazione la notizia, anche se con una fretta che ha finito per rovinare l’opera.

Cavalcare la tigre

Eppure i cuori neri esistono. Uno di essi, Vincenzo Vinciguerra, si è autoaccusato dell’attentato di Peteano contro i carabinieri e ha scelto “l’ergastolo per la libertà”, pur di affermare la propria identità nazional-rivoluzionaria contro le compromissioni di tanti suoi camerati con gli apparati dello Stato. “Sono un soldato politico” – dice – in guerra contro quello Stato “i cui rappresentanti non meritano rispetto da vivi, né pietà da morti”. Ma sembra un caso davvero raro, nella compagnia nera che dice di volere la rivoluzione, ma poi è armata e protetta dai carabinieri e lavora per i servizi segreti.

Forse per capire i cuori neri bisogna leggere Julius Evola, che nel 1961 pubblica Cavalcare la tigre, il libro che nutre l’ala radicale del neofascismo italiano: “Se si riesce a cavalcare una tigre, non solo si impedisce che essa ci si avventi addosso, ma non scendendo, mantenendo la presa, può darsi che, alla fine, di essa si abbia ragione”. I neri l’hanno cavalcata, la tigre del Sessantotto. Si erano preparati per tempo, partecipando, nel 1965, al convegno sulla “guerra rivoluzionaria” organizzato dall’istituto di studi strategici Alberto Pollio e finanziato dagli ambienti militari e dell’intelligence. All’Hotel Parco dei principi di Roma erano presenti le giovani promesse Stefano Delle Chiaie e Mario Merlino, ma anche Guido Giannettini e Pino Rauti.

Il convegno teorizza la “guerra non ortodossa”, nuova fase della lotta al comunismo in Occidente. Come si fa la “guerra non ortodossa”? Lo spiega il documento La nostra azione, ritrovato nella sede di Lisbona dall’Aginter Press, la centrale eversiva internazionale di Yves Guérin Sérac nata in ambiente atlantico: si organizzano “azioni di infiltrazione nei gruppi filocinesi” e “azioni di propaganda” da attribuire agli avversari politici per aumentare il clima di instabilità e creare una situazione di caos. “Destabilizzare per stabilizzare”. Detto, fatto: inizia la stagione delle infiltrazioni a sinistra, delle bombe “anarchiche”, delle stragi “rosse” per provocare la restaurazione dell’ordine da parte dei militari sostenuti da gruppi di civili in armi. Vogliamo i colonnelli.

Mario Merlino s’infiltra tra gli anarchici a Roma, Giovanni Ventura (poi indagato e assolto per piazza Fontana) si presenta come editore di sinistra tra i filocinesi di Padova. Il gruppo nero Lotta di Popolo si proclama nazi-maoista. Parte l’operazione “manifesti cinesi”: in molte città d’Italia vengono affissi manifesti inneggianti a Mao e al marxismo-leninismo. Anni dopo si scoprirà che sono pagati e fatti stampare dagli Affari riservati di Federico Umberto D’Amato e poi affissi dai neri di Delle Chiaie e di Ordine nuovo. In Veneto, gli attacchini neri dei manifesti “rossi” sono una squadra d’eccezione: sono Martino Siciliano e Delfo Zorzi (indagati e assolti per piazza Fontana), che vanno a ritirare i “manifesti cinesi” da Mestre a Padova con l’auto di Carlo Maria Maggi (indagato e assolto per piazza Fontana, condannato per la strage di Brescia).

Cuori neri o cuori di Stato, dunque? Tutti i protagonisti di questa storia in cui nulla è come sembra continuano a rivendicare la loro purezza rivoluzionaria e a denunciare le compromissioni – sempre di altri, falsi, doppiogiochisti, infingardi e traditori – con gli apparati dello Stato. Ma nel Sessantotto italiano il confine tra cuori neri e cuori di Stato è davvero difficile da tracciare.

Millennium, il mensile del Fatto quotidiano, numero 6, ottobre 2017
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