POLITICA

La bugia, i soldi e il crac del candidato sindaco di Sesto San Giovanni

La bugia, i soldi e il crac del candidato sindaco di Sesto San Giovanni

Ha mentito, Roberto Di Stefano, candidato sindaco a Sesto San Giovanni. Ha sottoscritto con gli altri candidati il “patto di legalità” in cui garantisce di non essere sottoposto ad alcun procedimento penale, civile e contabile. Invece un procedimento in corso ce l’ha: presso la Corte dei conti della Lombardia che gli ha contestato di essersi intascato illegittimamente 62 mila euro, soldi pubblici, da una società di cui era amministratore delegato e che poi è miseramente fallita.

Di Stefano fa l’assicuratore (scherzo del destino: proprio come Filippo Penati, lo storico sindaco Pd della rossa Sesto). Ma si vende come “sindaco operaio”: “Per mantenermi agli studi ho lavorato alla Pirelli e sono riuscito a laurearmi in Scienze politiche”. A 28 anni si è iscritto a Forza Italia, nel 2007 è diventato consigliere comunale a Sesto, nel 2012 è stato rieletto e oggi, a 40 anni, è candidato sindaco del centrodestra in quella che è stata la Stalingrado d’Italia. La sua sostenitrice più attiva è la moglie, Silvia Sardone, giovane (e molto televisiva) pasionaria del berlusconismo.

Campagna elettorale martellante, programma molto trasversale (c’è perfino il reddito di cittadinanza). Ma qualche scheletro negli armadi. Tutta colpa della società La Fucina, socio di maggioranza la Provincia di Milano e di minoranza i Comuni di Sesto San Giovanni, Bresso e Cologno Monzese. La Fucina è un Bic (business innovation centre), cioè una società che ha il compito di stimolare la creazione di nuove imprese. Nasce nel 1996 con il sostegno dell’Unione europea. Nel 2011, come amministratore delegato, arriva Di Stefano. Già in quell’anno, La Fucina ha un buco di bilancio, che però gli amministratori tengono nascosto.

In un documento ufficiale si legge che era stata effettuata una “errata appostazione di alcune voci di bilancio relative, in particolare, alla svalutazione dei crediti nonché dei ratei e riscontri attivi (…). Ciò ha implicato un risultato di esercizio diverso da quello reale, andando a modificare anche il patrimonio netto, con una perdita del capitale sociale”. I bilanci, dunque, sono stati nella sostanza falsificati per poter andare avanti. Ma “l’illecita prosecuzione dell’attività sociale ha comportato un aumento delle passività, quantificabili in circa 1 milione di euro”. È la cifra che il curatore fallimentare ha chiesto a Di Stefano, in solido con gli altri amministratori. Finora non ha pagato. E comunque un crac non è un gran bel risultato da esibire in curriculum, per uno che si candida a sindaco. Soprattutto se vi è il sospetto che i bilanci siano stati “abbelliti”, con possibili, future conseguenze penali.

In più c’è il problema presente, il fatto su cui Di Stefano ha mentito ai cittadini: ha in corso un procedimento della Corte dei conti, che gli ha chiesto di restituire i 62 mila euro che ha portato a casa come amministratore delegato della Fucina, dal settembre 2011 al novembre 2012. Non poteva incassarli, perché la legge vieta a chi è amministratore di un ente locale di percepire compensi di società partecipate da quell’ente. E Di Stefano era consigliere comunale di Sesto, che aveva il 10,53 per cento di La Fucina. “I compensi non erano dovuti”, scrive la Procura della Corte dei conti lombarda, “e hanno determinato un danno alla società”.

Una corresponsabilità nel fallimento? Questo lo accerteranno eventualmente i giudici. Intanto però resta inoppugnabile che Di Stefano non poteva intascarsi contemporaneamente i gettoni di consigliere comunale e i compensi di amministratore delegato. La cosa gli era stata chiaramente segnalata, nell’ottobre 2011, dal segretario comunale Mario Spoto. Ma Di Stefano “lo aveva diffidato dall’esprimere pareri sul punto”, scrive la Corte dei conti, ed “è indubbiamente connotata da dolo la condotta del Di Stefano, il quale, diffidando il segretario comunale dall’intraprendere ulteriori iniziative, ha sicuramente ostacolato i doverosi controlli sulla sua posizione allo scopo di continuare a percepire indebitamente gli emolumenti”.

Compensi illegittimi, un crac e una menzogna agli elettori: difficili, gli ultimi giorni della campagna elettorale di Di Stefano, aspirante sindaco “operaio”.

Nella foto, Roberto Di Stefano e la moglie Silvia Sardone con (al centro) il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti

Il Fatto quotidiano, 3 giugno 2017
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