GIUSTIZIA

Strage di Nassiriya, condannato il generale

Strage di Nassiriya, condannato il generale 20050531- ROMA - CRO IRAQ: 32 GLI ITALIANI MORTI NEL 2003. 25 MILITARI, 6 CIVILI, UN AGENTE SEGRETO - Una foto del 13 novembre 2003, mostra la base 'Maestrale' (ribattezzata 'Animal House'), la palazzina di tre piani che ospitava i carabinieri della Msu (Multinational specialized unit), completamente distrutta dopo l'attentato suicida avvenuto il giorno prima. Con i quattro membri dell'equipaggio dell'elicottero caduto la scorsa notte, sale a 25 il numero dei militari italiani morti in Iraq. A questi vanno aggiunti Calipari e i 6 civili che hanno perso la vita negli ultimi due anni in Iraq. ANSA/ALI HAIDER/DE

È mercoledì 12 novembre 2003, ore 10.40, quando un camion cisterna pieno di esplosivo forza il posto di blocco all’ingresso di “Animal House”, la base italiana Maestrale di Nassiriya, ed esplode. I kamikaze iracheni vengono uccisi, ma fanno strage. Muoiono dodici carabinieri, cinque soldati dell’esercito, nove cittadini iracheni, oltre a due civili italiani, il regista Stefano Rolla e un suo collaboratore, che erano lì per girare un documentario sulla missione “Antica Babilonia” a cui partecipava in armi anche l’Italia.

Seguono il pianto e gli onori per le vittime, i funerali di Stato, i riconoscimenti ufficiali. Ma anche il dolore dei sopravvissuti, i feriti e i famigliari dei morti, che si chiedono perché i comandanti della missione non avessero messo in sicurezza i loro uomini nella base. I generali vanno sotto processo. Le sentenze sono, alla fine, d’assoluzione. Ora però arriva la svolta: una corte d’appello ha condannato un generale, Bruno Stano, a risarcire i danni subiti dalle vittime.

È una lunga storia processuale, quella della strage di Nassiriya. Vanno a giudizio il generale dell’esercito Bruno Stano, comandante della brigata italiana, il suo predecessore Vincenzo Lops e il colonnello dei carabinieri Georg Di Pauli, comandante della base. Subito viene contestata la “omissione di provvedimenti per la difesa militare”, un reato previsto dal codice penale militare di guerra; ma poi, grazie a un cambio di norme a processo aperto, scatta il più blando reato di “distruzione colposa di opere militari”, previsto invece dal codice penale militare di pace.

Lops esce presto di scena. Di Pauli, processato con rito ordinario dalla giustizia militare, è assolto in primo grado e in appello. La Cassazione annulla l’assoluzione, ma l’appello bis rigetta le richieste delle parti civili e anche Di Pauli esce dal processo senza danni.

Il generale Stano sceglie invece il rito abbreviato e viene condannato, sempre dalla giustizia militare, in primo grado, ma assolto in appello. Le parti civili (cioè i feriti e i familiari delle vittime) ricorrono in Cassazione, come successo per Di Pauli. Non fa ricorso l’accusa, così la suprema corte non può valutare gli aspetti penali, ma solo quelli civili. La Cassazione decide comunque di annullare l’assoluzione di Stano, limitatamente agli effetti civili e dunque ai possibili risarcimenti. Si tiene un secondo processo d’appello, questa volte non davanti alla Corte d’appello militare, ma a quella civile, che ora ha condannato il generale a risarcire i danni. Le cifre saranno stabilite in seguito con un giudizio apposito.

Soddisfatti i feriti e i familiari delle vittime, difesi da un collegio di legali tra cui gli avvocati Sandro Gamberini, Rino Battocletti e Dario Piccioni. “Ci hanno chiamato eroi”, dice Riccardo Saccotelli, carabiniere del contingente italiano in Iraq rimasto ferito a 28 anni nell’attentato. “Ma è retorica. In realtà siamo come gli operai della ThyssenKrupp: morti e feriti mentre facevamo il nostro lavoro, morti e feriti perché i dirigenti della nostra ‘fabbrica’ non avevano messo in sicurezza la base”.

Saccotelli allinea quelle che ritiene le responsabilità dei comandanti: “La sottovalutazione degli allarmi ricevuti. La non adeguata protezione, con i necessari sbarramenti, dell’ingresso della base. I blocchi anticarro riempiti non di sabbia, ma di ghiaia e sassi, che si sono trasformati in terribili proiettili. Il deposito di munizioni posto vicino agli alloggi, che ha accresciuto il volume di fuoco dell’attentato. I morti sono stati onorati con medaglie e retorica. Noi, i sopravvissuti, siamo stati dimenticati. Carne da macello. Ma non dimentichiamo che i nostri comandanti non hanno fatto tutto il possibile per proteggere gli impianti e gli uomini a loro affidati. Potevano e dovevano proteggerci meglio: si sarebbero almeno ridotte le conseguenze dell’attentato”. Ora una sentenza dà loro ragione, se non dal punto di vista penale, almeno da quello civile.

Il Fatto quotidiano, 10 febbraio 2017
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