GIUSTIZIA

Delitto Caccia. Quando la Procura fa a pezzi un processo

Delitto Caccia. Quando la Procura fa a pezzi un processo

Il nuovo pasticciaccio brutto della Procura di Milano – dopo le indagini su Expo fatte al rallentatore – riguarda l’omicidio del giudice Bruno Caccia. Era minacciato dalle Br, ma fu la ’ndrangheta a ucciderlo a Torino nel 1983. Lo si scoprì solo molti anni dopo: condannato come mandante il calabrese Domenico Belfiore, non erano ancora stati scoperti gli esecutori materiali dell’omicidio. Ora sembrava che il processo iniziato il 6 luglio 2016 a Milano contro l’ultimo degli imputati portati alla sbarra – il calabrese Rocco Schirripa – potesse chiudere il cerchio di indagini durate trent’anni. Invece quel processo sta per esplodere.

La Procura di Edmondo Bruti Liberati, dell’aggiunto Ilda Boccassini e del pm Marcello Tatangelo non si era accorta che a Milano Schirripa era già stato indagato da un altro pm, Giovanbattista Rollero, ed era stato archiviato nel 2001. Tatangelo e Boccassini avevano aperto una nuova indagine su Schirripa il 25 novembre 2015, ma avrebbero dovuto invece chiedere al giudice la riapertura delle indagini già archiviate: non avendolo fatto, tutti gli atti d’accusa raccolti dopo il 25 novembre 2015 sono inutilizzabili. “È stato un errore incredibile, di cui mi assumo tutte le responsabilità”, ha dichiarato Tatangelo.

Una brutta storia, che rischia di vanificare le nuove indagini e lasciare impuniti gli esecutori materiali dell’omicidio. Una storia lunghissima. Che a Milano sembrava si fosse aperta soltanto nel luglio 2013, quando la famiglia Caccia, con la consulenza dell’ex magistrato Mario Vaudano, aveva depositato una prima denuncia, firmata dall’avvocato Fabio Repici, che chiedeva alla Procura di indagare sui “catanesi” Rosario Cattafi e Demetrio Latella. Seconda denuncia un anno dopo, nel luglio 2014.

La Procura non crede alla pista “catanese” e apre un fascicolo, ma a modello 45, cioè su “atti che non costituiscono reato”. Nel giugno 2015, Repici invia una memoria alla Procura generale, che allora si attiva: chiede alla Procura come mai un’indagine su un omicidio sia iscritta nel registro degli “atti che non costituiscono reato”. Un mese dopo, nel luglio 2015, la Procura apre un’indagine a modello 21, cioè con iscrizione sul registro degli reati con indagati noti. Non indaga però sui “catanesi” (Cattafi e Latella), ma sui calabresi di ambiente ’ndranghetista.

Ad agosto arrivano a Milano gli uomini della Squadra Mobile di Torino, che portano al pm Tatangelo materiali investigativi su Schirripa, già accusato nel 1995-96 da un suo compare, Vincenzo Pavia, poi diventato collaboratore di giustizia. Per incastrare Schirripa vengono scritte dagli investigatori delle lettere anonime ai suoi amici e compari, per metterli in agitazione e poi ascoltarne le reazioni, intercettate grazie a un virus informatico mandato ai loro telefoni. Il 25 novembre 2015 arriva l’iscrizione di Schirripa, a dicembre viene arrestato e nel luglio 2016 parte il processo, dopo che è stata accolta dal giudice la richiesta di giudizio immediato.

Pochi giorni fa, la doccia fredda. Il pm Tatangelo scopre finalmente che il suo imputato attuale era stato già indagato e archiviato a Milano quindici anni fa e blocca tutto. Mercoledì 30 novembre ci sarà una nuova udienza: si saprà se le nuove prove sono tutte da buttare o se si salveranno quelle – non poche – raccolte prima del 25 novembre. Anomalo però che un indagato sia processato con prove antecedenti alla sua iscrizione nel registro degli indagati. Insomma, comunque la si guardi, questa vicenda non fa fare una bella figura alla Procura di Milano.

Il Fatto quotidiano, 29 novembre 2016
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